informazione
“Sti negri di merda”
di Francesco Codello
Abituati come siamo a leggere quasi esclusivamente i quotidiani nazionali e i settimanali importanti, tralasciamo la lettura di quella miriade di testatine locali che ci raccontano la situazione sociale che ci circonda. Questa volta, però, ci siamo imbattuti in una lettera di una donna. Mulatta. Dignitosa e lucida. Contro un'adunata di alpini.
Nei quasi ottomila comuni italiani (7.954 per la precisione), probabilmente, si edita almeno un giornale di varia periodicità, emanazione dell'Amministrazione Comunale, di qualche associazione, di Pro Loco, ecc.
Noi siamo soliti ricavare le informazioni che ci interessano
dai grandi quotidiani nazionali, dalle varie emittenti televisive
e radiofoniche, dalla rete. Prestiamo poca attenzione invece
a questi giornali di provincia, meno ancora a periodici che
sono diretta emanazione di gruppi locali o associazioni particolari.
Invece dovremmo prestare più interesse a ciò che
si può leggere in un ambito meno famoso e meno diffuso
come è quello di questo particolare segmento della stampa.
Nei piccoli centri di provincia (e come abbiamo visto l'Italia
è molto ricca di località, di paesi e piccole
cittadine) questi giornali o riviste sono molto diffusi e altrettanto
letti. Entrano in quasi tutte le case, passano di mano in mano,
si diffondono con estrema facilità. Credo che, da un
certo punto di vista, possano raccontarci molto più precisamente
quali umori, quali notizie, quali sentimenti, raggiungono il
paese più profondo, quello a margine della grande città,
quello insomma che costituisce una buona parte del tessuto sociale
e culturale di cui parlano, senza spesso capirne nulla, i grandi
organi di informazione.
Per penetrare più profondamente il clima sociale, culturale,
politico, ma anche l'immaginario sociale più radicato,
la lettura, o perlomeno lo sguardo un po' più attento
di questi fogli locali, risulterebbe sicuramente utile. Potremmo
cogliere quali sono veramente le informazioni che interessano
le nostre genti, quali sono i fatti di cronaca locale che attirano
l'attenzione, quali valori si possono estrarre da simili periodici,
quale immaginario viene sistematicamente alimentato attraverso
queste pagine. Il mio punto di osservazione è sicuramente
parziale, limitato a un'area precisa del Paese (il nord-est),
ed è poco sistematico, per non dire poco più che
casuale. Riconosco dunque questi limiti oggettivi, ma vorrei
davvero attirare l'attenzione su questo specifico problema.
“Il Tornado”, uno dei tanti
Lo vorrei fare soprattutto per evidenziare il pericolo che
la nostra stessa modalità di analisi non si faccia imprigionare
dai grandi media e soprattutto non si faccia condizionare dalle
cosiddette grandi firme, che hanno dimostrato più volte
(anche a sinistra) di non capire nulla, o poco, di quello che
sta accadendo.
Sfogliando
uno di questi periodici, «Il Tornado. Periodico di attualità
dei comuni di Alano di Piave, Quero Vas, Segusino» (31/05/2018)
– siamo in provincia di Belluno ai confini con quella
di Treviso – mi sono imbattuto in un articolo che mi ha
sorpreso non poco leggere in questo ambito. Nello stesso numero,
e in molti altri, si evidenziano le gesta e si applaudono le
varie associazioni combattentistiche presenti (sempre molto)
nel territorio, in particolare l'ANA (Associazione nazionale
degli alpini). Questo genere di associazioni è sempre
e continuamente presente in questi giornali, a loro sono dedicati
servizi, fotografie, encomi continui.
Proprio di questi temi si occupa una lettera al giornale dal
titolo: «Essere donna mulatta in tempi di adunata, riflessioni
dal margine». La lettera (senza firma) è un capolavoro
di denuncia della “cultura” imperante in ampi strati
delle popolazioni locali, di partecipazione attiva a manifestazioni
militaristiche, di frasi, considerazioni, battute, che rivelano
quanto sia diffuso un immaginario violento, sessista, xenofobo,
e come questo venga condiviso, sopportato, persino apprezzato,
a vari livelli di intensità, e costituisca un patrimonio
largamente diffuso.
La lettera si riferisce alla città di Trento che, lo
scorso maggio, ha ospitato l'adunata nazionale degli alpini.
L'autrice ci descrive dapprima quanto questa città sia
stata “tirata a lucido” per questa occasione: non
solo pulizia e arredo urbano ma anche ordinanze speciali contro
accattoni, migranti, ecc. Scrive: «Chiudono le università,
chiudono le biblioteche, chiudono gli asili nido. Ogni via si
riempie di uomini in divisa, penne nere, fiumi di alcol, cori
e trombe. Diventa labirinto inaccessibile e sala di tortura
per qualsiasi corpo che non risponda alle prerogative di maschio,
bianco, eterosessuale».
Questa donna non risponde allo stereotipo e dunque si scatena
quella diffusa e penetrante cultura xenofoba, omofoba, misogina,
razzista, che purtroppo dobbiamo registrare in modo sempre più
esteso. Alimentata da situazioni nuove per i più, da
politici e politiche che fanno leva proprio su semplici, dirette,
orribili parole d'ordine, slogan che non colgono (volutamente)
la complessità della realtà.
“Non sono razzista, ma...” “Fuori le tette, bella gnocca!”
Ma diamo voce, spazio, visibilità per quanto possibile
con i mezzi che abbiamo a chi denuncia questo stato di cose,
a chi interroga la nostra sensibilità, a chi ci sbatte
in faccia questi fatti che devono scuotere la nostra “tranquillità”.
Ascoltiamo come il colore della pelle, i riccioli dei capelli,
i lineamenti, magari l'abbigliamento, diventino una sorta di
apriscatole di un involucro di razzismo, cattiveria, ignoranza,
violenza, tenuto talvolta sopito ma che alla prima occasione
(la legge del branco, l'alcol, il protagonismo omofobo) si scatena
violentemente.
«Al tavolo di ogni bar, a ogni incrocio si potevano captare l'affanno delle poche sinapsi di branchi di energumeni messe sotto sforzo, per portare avanti una discussione che puntualmente veniva condita da una frase come “sti negri de merda”, “non sono razzista ma...”, “andassero tutti a casa loro”, “li ammazzerei tutti”, “tira fuori le tette”, “bella gnocca vieni qua” (...) Nessuno ha chiesto il mio consenso, nessuno si è sentito responsabile per quello che stava accadendo (...) nessuna delle “loro (bianche) donne” mi è stata solidale.
Nessuno si è chiesto se fosse normale che una cameriera sottopagata dovesse sopportare per ore frasi del tipo “Che bela moreta, fammi un pompino” o semplicemente “non mi faccio servire da una marocchina”, tutto normale, tutto concesso, nobilitato dalla posizione di “salvatore della patria”, corpo solidale in caso di calamità naturale. Tutti sembravano non voler ricordare che machismo e razzismo vengono esercitati da qualsiasi corpo, tanto più se privilegiato e paramilitare».
Noi con lei non possiamo accettare tutto questo, non possiamo voltarci dall'altra parte, non vogliamo che questa cultura così orribile si possa esprimere in modo così esteso e diffuso. Noi con lei crediamo che un altro modo di convivere fra diversi sia non solo possibile, ma anche desiderabile.
«Io, come moltissime altre, non ci sto! Non sono disposta a dover lasciare la città perché non è per me spazio sicuro, non sono disposta a delegare la mia sicurezza a gruppi di militari maschi e testosteronici, non sono disposta a sorridere e lasciare correre “perché in fondo si scherza”, non sono disposta a essere complice della vostra lurida violenza quotidiana con il mio silenzio, non sono disposta a tutelare il buon costume della vostra civiltà, rispettosa solo con chi rientra nei canoni imposti. Non sono più disposta ad agognare sanguinante e invisibile perché voi possiate marciare in pace sul mio corpo e onorare la vostra patria».
Grazie “donna mulatta”, “cameriera sottopagata”, grazie del tuo coraggio e della tua voce, noi ci siamo.
Francesco Codello
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