La corsa al ribasso
1.
Dopo aver intessuto l'Elogio della lentezza
(2014) e l'Elogio della ribellione (2016),
il neurofisiologo Lamberto Maffei si butta sull'Elogio
della parola (2018). Il tema di fondo, però,
è sempre quello: la critica preoccupata del mondo che
ci siamo architettati. Cosa c'è che – evidente
– non va adesso e – meno evidente – a cosa
ci porterà. Maffei teme la dittatura dei motoneuroni,
ovvero di quei neuroni antichi che potevamo ringraziare nel
momento in cui dovevamo sfuggire alle belve feroci o ai vari
pericoli insiti nella nostra preistoria – gli stessi che
oggi ci servono per messaggiare giornata natural durante –,
ma che, nel corso dell'evoluzione, erano stati surclassati da
neuroni lenti, in virtù dei quali abbiamo potuto celebrare
raziocinio e modalità varie per esprimerlo e che, oggi,
smartphone nel palmo di mano, sembrano destinati a soccombere.
Una ricerca americana – tanto per dare un quadro della
situazione – ha appurato che il possessore medio di questi
strumenti li consulta circa 220 volte al giorno per connessioni
che si aggirano tra i 4 e i 5 minuti per volta. Buona parte
della nostra vita di veglia che se ne va.
2.
Allargando l'orizzonte a media che ormai potremmo quasi considerare
in via di estinzione e individuando altri motivi di preoccupazione,
Maffei si chiede il perché i film trasmessi in tv sono
per lo più americani e prova a darsi delle risposte.
“Sono i più numerosi o i più tecnicamente
avanzati, forse sono i più economici da acquistare, oppure
si tratta – talvolta a pensar male ci si imbrocca –
di venire incontro ai gusti di un pubblico che desidera conoscere
vita e comportamenti dei ricchi americani per emularli, per
essere colonizzati non solo linguisticamente (...) ma anche
culturalmente nelle dinamiche sociali”? Qui, a mio avviso,
si annida una questione che ci coinvolge tutti – non solo
nella veste di consumatori, o di vittime, ma anche nella veste
di soggetti attivi, e responsabili. Siamo sicuri che i “gusti”
di cui si parla – e dietro i quali ci si nasconde –
siano proprio del “pubblico” e non siano, invece,
il risultato di un condizionamento programmato e accuratamente
disposto da qualcuno?
3.
Faccio qualche esempio. Nei giorni scorsi vengo a conoscenza
di quelle che, per me, sono due novità in ambito universitario.
La prima è costituita dalle modalità stabilite
per la cosiddetta “discussione” della Tesi di Laurea
degli studenti. In una università, la discussione vera
e propria è stata abolita: gli studenti entrano a gruppi
di sei – qualsiasi sia la tematica affrontata nella loro
tesi –, hanno il dono della parola per una manciata di
minuti e poi tocca al successivo – uscita in gruppo, richiamo
in gruppo e proclamazione del voto. In un'altra università
che ben conosco è stato anche stabilito che la tesi non
possa superare le trenta pagine. Che ciò sia diseducativo
e insultante per chi ha studiato non sfiora il pensiero dei
signori docenti. I quali – altra notizia per me strabiliante
– in alcune offerte di Master (roba costosissima, altro
marchingegno per spillare quattrini e spacciare illusioni agli
studenti), non vengono neppur più definiti come “docenti”
– e infatti temo che da insegnare non abbiano nulla –
ma “speaker”.
D'altronde, in alcuni giornali, le recensioni dei libri, in
pochi anni, sono passate da quarti di pagina a dieci righe spesso
copiate pari pari dalla quarta di copertina dei libri stessi.
Idem per le recensioni teatrali o cinematografiche. D'altronde,
anche pubblicare un saggio appena appena elaborato su una rivista
va facendosi sempre più difficile – per l'autore,
c'è il rischio di sentirsi rispondere dalla direzione
che il “pubblico” non è preparato a leggere
“tanto” – o che il livello culturale di questo
pubblico è più basso di quello che il saggio in
questione richiederebbe.
D'altronde, si pensi alle forme relazionali con cui i libri
vengono presentati al pubblico. Un tempo se ne “dibatteva”:
si invitava più persone che avevano letto il libro a
confrontarsi e, magari, a porre l'autore stesso di fronte a
punti critici della sua opera. All'insegna del fantozziano “il
dibattito no”, oggi, la presentazione di un libro è
ridotta ad “evento” – orario alla sperindio,
aperitivi e vol au vent in mano, sorrisi ebeti, qualche
corteggiamento residuo, smartphone e telefonini alzati, spettacolo
del mercimonio e mercimonio dello spettacolo. Al massimo delle
concessioni all'espressione, un po' di musica che va per suo
conto e la lettura di “qualche pagina” in un contesto
di vaga disattenzione.
4.
C'è stata – c'è, c'è ancora e sempre
più veloce – una corsa al ribasso che fa paura
la cui funzione politica non può essere ignorata. A partire
dallo Stato che – con tutti i mezzi e, è il caso
di dirlo, con tutti i media – fa il possibile
affinché il gusto del “pubblico”, ovvero
dei suoi cittadini, sia di un tipo piuttosto che di un altro:
sia sempre pronto a ricevere passivamente quello che il sistema
capitalistico produce e sia sempre meno autonomo in quanto a
scelte o, quantomeno, rispondente ad esigenze scaturite dalla
propria condizione di subalternità. Si pensi soltanto
all'uso della televisione di Stato: se, sulle prime –
negli anni Cinquanta del secolo scorso –, poteva ideare
e realizzare programmi finalizzati – almeno parzialmente,
pur con tutte le censure e le ipocrisie del regime democristiano
– all'alfabetizzazione, all'unità linguistica del
Paese e a quel minimo di elevazione culturale, ben presto –
con le concessioni alla privatizzazione e con la decisione di
partecipare della medesima concorrenza – ha mutato direzione
incentivando la produzione di oppio dei popoli e mirando decisamente
ad accrescere il divario culturale tra le classi agiate e le
classi destinate alla miniborghesizzazione. Gli stessi programmi
scolastici hanno seguito la stessa logica – e, tramite
l'alibi della tecnologizzazione, il processo di disintegrazione
del sapere e della sua memoria sembra tuttora in corso.
5.
Al di là dei comportamenti ossessivi e ormai palesemente
patologici, l'abuso di smartphone e viatici alla narcosolitudine
analoghi implica – come ben si sa – una riduzione
dei testi. La capacità di argomentare non ne verrà
di certo migliorata e ciò comporterà spiriti critici
sempre più sopiti. Innanzitutto, nei confronti di chi
comanda. Maffei è giustamente preoccupato anche per la
lingua con cui potremo comunicare. Dimenticato ormai il sogno
di una lingua universale che, in qualche modo, rappresentasse
il radicamento dei popoli alla propria storia, i parlanti del
mondo intero sono sempre più impegolati nella lingua
dei conquistatori – quella specie di inglese liofilizzato
in 1500 parole, neppur lontano parente di quell'inglese dell'Oxford
Dictionnary che, a quanto pare, può vantare la straordinaria
risorsa di ben 615mila parole.
Felice Accame
P.s.: ho posto
giusto la domanda – “cos'è l'esperanto?”
– in una “Master-class” di un'università
milanese, una ventina di giorni fa. Non una mano alzata, silenzio.
Ma gliel'ho detto che non è colpa loro.
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