Ricordando Fiorenza Tarozzi/
Una ricercatrice storica molto vicina all'anarchismo
Il 15 luglio 2017 è morta a Bologna, dov'era nata nel
1948, Fiorenza Tarozzi.
Docente di Storia contemporanea presso l'Università di
Bologna e presidente del Comitato di Bologna dell'Istituto per
la storia del Risorgimento italiano, Fiorenza aveva lasciato
l'insegnamento nel 2016. Allieva di Aldo Berselli, ha dedicato
inizialmente la sua attività di ricerca alle origini
del fascismo, alla storia del giornalismo, del socialismo e
dell'anarchismo, del movimento cooperativo e soprattutto del
mutualismo operaio ottocentesco, con i suoi risvolti sociali
ed economici, su cui aveva pubblicato Il risparmio e l'operaio
(1978). Senza abbandonare questi ambiti di studio – che
scaturivano da un interesse profondo, radicato nella sua biografia
personale e famigliare, per la storia “vista dal basso”
– Fiorenza è venuta allargando i suoi interessi,
negli anni 80 e 90, alla storia sociale, alla storia delle
donne, al rapporto fra donne e lavoro, agli approcci culturali
e antropologici di quei soggetti della storia, a lungo trascurati
dalla storiografia tradizionale.
Persona colta, curiosa e gentile, sempre disponibile nei confronti
dei suoi studenti, Fiorenza nel corso degli anni ha collaborato
diverse volte con iniziative promosse da istituzioni culturali
libertarie. Ci limitiamo qui a citare il saggio introduttivo
scritto nel 1984 per il Catalogo della Mostra “Il movimento
anarchico a Castelbolognese (1870-1945)”, la relazione
su Virgilia d'Andrea, la poetessa dell'anarchia, presentata
al Convegno di studi su “Armando Borghi nella storia del
movimento anarchico italiano e internazionale” (Castel
Bolognese, 17 e 18 dicembre 1988) e, soprattutto, il contributo
rilevante fornito alla realizzazione del Dizionario Biografico
degli Anarchici Italiani (BFS, Pisa, 2003-04), con la compilazione
diretta di numerose schede e con il coordinamento (insieme a
me) del gruppo dei collaboratori per l'Emilia-Romagna.
Era una nostra cara amica, oltre che una preziosa collaboratrice,
e la sua perdita ci rattrista.
Gianpiero Landi
Biblioteca libertaria “Armando Borghi”
(Castel Bolognese)
Femminismo e buen vivir/
Intervista a Francesca Gargallo
Francesca Gargallo ha iniziato a riconoscersi come femminista
molto presto. La dinamica che porta all'oppressione delle donne
è stata la chiave che le ha permesso di capire la società
e lottare contro le ingiustizie.
Il suo amore per l'America Latina è nato a 23 anni. Quando
nel 1980 è arrivata in Nicaragua ha conosciuto l'entusiasmo
rivoluzionario, in un'epoca in cui “purtroppo le rivoluzioni
erano ancora incentrate sull'idea di uno Stato-nazione”.
Era partita dall'Italia mossa dal sentimento internazionalista
che in quell'epoca spinse molti giovani a conoscere e appoggiare
la rivoluzione sandinista nicaraguense. Ma dopo un anno decise
di lasciare il paese. “Innanzitutto perché non
sopportavo il caldo”, dice ridendo. “E poi perché
c'era tantissimo maschilismo tra i rivoluzionari. Se ti ribellavi
contro le espressioni maschiliste ti accusavano di essere una
controrivoluzionaria”.
La scrittrice femminista siciliana decise quindi di trasferirsi
in Messico, dove vive tuttora. È stata docente di filosofia
nell'Universidad Autónoma de la Ciudad de México
(UACM) e non ha mai smesso di scrivere: romanzi, poesie, saggi
e racconti per bambini, per lo più in spagnolo.
Nei quasi 40 anni in cui ha vissuto e viaggiato per l'America
Latina, ha avuto la possibilità di conoscere molte donne
indigene organizzate. Da quell'incontro è nato il suo
libro Feminismos desde Abya Yala, che ha pubblicato nel
2012.
O.B.
Dopo aver incontrato donne di 607 popoli indigeni affermi che esiste
una relazione tra il femminismo e la ricerca del buen vivir.
Secondo te tutte le donne che lottano per migliorare le loro
condizioni si possono definire femministe?
Senz'altro. “Femminismo” è una parola che
condensa e che traduce; come tutte le traduzioni è riduttiva,
ma ci può dare un'idea di ciò che è incontrarsi
e riflettere tra donne per il benessere delle donne all'interno
della loro stessa società. Definirsi femminista è
tradurre un concetto molto più ampio, molto più
complesso e molto più specifico di ogni lingua e cultura,
di ogni gruppo di donne che si riunisce. Esistono donne indigene
che usano vere e proprie metafore per definirsi: alcune si riconoscono
come “le donne del cuore”, altre dicono “siamo
le donne che lottano”, altre ancora dicono “siamo
le donne che cercano una buena vita”. Ogni volta
che la ricerca di questa buona vita parte dalla riflessione
tra donne e per il benessere delle donne, io credo che si possa
parlare di femminismo.
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Francesca Gargallo
foto Brenda Santos de la C. |
Allo stesso tempo sei molto critica nei confronti del
femminismo accademico occidentale. Perché?
Il femminismo accademico occidentale è uno dei tanti
modi in cui la “società della conoscenza”
convoglia a proprio beneficio tutti i saperi che provengono
dalla società. Il femminismo era una lotta proveniente
da tutti i settori sociali, dalle donne riunite nelle loro cucine
per cambiare il mondo, e l'Università si è appropriata
di questa conoscenza, l'ha portata nelle aule, l'ha inserita
in un sistema di specializzazione. Certo, il femminismo accademico
occidentale ha anche degli aspetti positivi: esiste una filosofia
critica che viene dal femminismo. Ma è stato portato
nelle aule per depotenziarlo, per togliergli la sua forza politica.
Non è successo la stessa cosa al femminismo latinoamericano?
Una parte del femminismo in America Latina sta nelle aule. In
Messico si prendono in grande considerazione teorie che non
sono latinoamericane, è evidente quando nei programmi
di studio non trovi Margarita Pisano, non trovi Julieta Kirkwood
ma trovi Judith Butler. D'altra parte ci sono anche molti gruppi
di incontro tra donne che stanno creando una giustizia propria
che si distanzia da quello che il patriarcato impone alle donne,
ad esempio la vergogna dopo lo stupro. Oggi le donne si uniscono
per creare una giustizia che risolva il loro diritto alla vita
e al benessere.
Un femminismo in cui si riconoscono molte donne latinoamericane
è il femminismo comunitario. Che cos'è?
È un modo di definire femminismi che sono nati all'interno
delle comunità indigene di Bolivia e Guatemala e che
oggi sono stati abbracciati da donne che fanno parte di comunità
indigene, o da donne che sono arrivate dalle città a
lavorare e vivere con loro.
Secondo i femminismi comunitari, la colonizzazione dell'America
è stata una colonizzazione di genere, che ha cambiato
le relazioni tra donne e uomini stabilendo ciò che è
femminile e ciò che è maschile, lasciando così
fuori le donne mascoline, gli uomini femminili, le persone con
una sessualità non riproduttiva e le donne che non vogliono
stare in una relazione di coppia.
La colonizzazione ha imposto un sistema di genere di tipo binario:
o sei donna o sei uomo; se sei donna ti occupi di certe cose,
se sei uomo di altre. Presso molti popoli che vivevano in America
prima dell'arrivo degli spagnoli questa condizione era più
egualitaria, o differenziata ma con maggiori livelli comunicanti,
e non necessariamente esisteva una differenza così marcata
tra il pubblico e il privato.
Inoltre, secondo i femminismi comunitari, la cultura della comunità
stessa mette le basi per vivere bene all'interno di quella comunità,
dopodiché una donna si può aprire al mondo: prima
di aprirci al mondo dobbiamo trovare la nostra storia di resistenza
come donne e la nostra storia di “buona vita”, ora
e come donne di questa comunità specifica, che ha bisogno
di curarsi dal colonialismo e dal patriarcato cresciuto con
il colonialismo. La colonizzazione ha imposto la dote e i matrimoni
combinati, che prima non esistevano.
Secondo il femminismo comunitario, l'incontro tra le culture
americane e la cultura europea ha originato una forma originale
di patriarcato. Come si definisce e che caratteristiche ha?
Si chiama “crocevia patriarcale” ed è una
definizione sviluppata da due pensatrici che vivono in luoghi
molto diversi. Una è un'indigena xinca guatemalteca che
si chiama Lorena Cabnal, l'altra è un'indigena aymara
della Bolivia che si chiama Julieta Paredes. Hanno lavorato
sull'idea di maschilismo contemporaneo come frutto di un lungo
processo storico che ha avuto un momento critico durante la
colonizzazione americana, quando il patriarcato presente nelle
comunità si rafforzò con il patriarcato cristiano
colonialista.
Il patriarcato latinoamericano è particolarmente violento
perché nasce dal colonialismo, dal genocidio, ed è
profondamente contrario ai popoli indigeni in cui le donne rappresentano
il 50% della popolazione e sono la struttura portante dell'economia
comunitaria. Questo è il “crocevia patriarcale”,
è la radicalizzazione dei patriarcati originari causata
dal contatto con il patriarcato coloniale, cristiano e assassino.
Orsetta Bellani
Leo De Berardinis/
Uno spirito libero, un maestro di teatro
“Maestro per generazioni di attori. Uomo avverso ad una
cultura che addomestica e addormenta. Ricercatore dell'insopprimibile
senso del nuovo, grido d'allarme contro la perdita dei valori”.
Sono parole riportate sulla lapide che l'amministrazione comunale
di Gioi Cilento ha fatto collocare all'esterno della modesta
abitazione dove Leo De Berardinis nacque nel 1939. A dieci anni
dalla morte il piccolo centro del salernitano – insieme
a Vallo della Lucania (dove a Leo è stato dedicato il
teatro comunale) e Marigliano – ha voluto ricordare questo
eccezionale protagonista del nostro teatro d'avanguardia con
un'articolata manifestazione in cui era prevista anche una mostra
e la titolazione di una via. De Berardinis morì a Roma
dopo sette anni passati in coma a seguito di un malriuscito
intervento di chirurgia plastica, quel decesso così assurdo
fu e rimane una grande perdita per il nostro teatro.
Attore, regista, autore del pensiero forte, De Berardinis ha
rappresento la via italiana ad una scena diversa e totale. Un
cammino artistico il suo in cui – sin dalle prime prove
sperimentali alla Ringhiera di Trastevere, passando per la straordinaria
esperienza periferica di Marigliano con la sua compagna del
tempo Perla Peragallo, fino alla fondazione a Bologna del “Teatro
di Teo” e alla direzione del Festival di Santarcangelo
di Romagna – si è condensato un pensiero multiforme,
potremmo definirlo filosofico, ma non nel senso di una speculazione
di pensiero, quanto piuttosto riferito a un modo di condurre
l'esistenza. Spettacoli come, tra gli altri, “Sir and
Lady Macbeth” (1968), “King lacreme napulitane”
(1973), “Delirio di Leo” (1987), “Totò
principe di Danimarca” (1990), “L'impero della ghisa”
1991, “I giganti della montagna” (1993) racchiudono
una creatività e una visione totale del palcoscenico.
Per De Berardinis il teatro era lo specchio profondo del tempo,
dove l'uomo riflette se stesso, non per fermarsi nella fissità
della propria forma, ma per scrutarsi, allenarsi, come un danzatore.
La scena secondo lui si giustifica solo se diviene paradigma
dell'abbattimento delle differenze economiche e culturali, se
ha la potenza di trasformare se stessa (e gli altri) senza abbassare,
svendere la propria arte. Proprio per questo, puntualizzava
De Berardinis, “bisogna ricominciare con semplicità
e realismo, fare piccoli passi, ma determinanti, dare adito
a grandi aperture e non lasciare attecchire il qualunquismo.
Il teatro può rinascere tutti i giorni, ma a condizione
che lo si diffonda tra le gente come una vocazione e non per
consenso strumentale e acritico”. Salire su un palcoscenico,
insomma, dovrà sempre significare stare tra la gente,
perché solo stando tra la gente si può pensare
ad una scena non in astratto.
“Cominciamo con semplicità – diceva De Berardinis
– iniziamo da un teatro che non divida il palcoscenico
e la platea, ma che sia mentalmente un unico spazio scenico,
senza distinzione fra palchi, loggione e platea, artisti e spettatori.
L'evento teatrale lo si fa insieme, per cui prepariamoci senza
affanno e retorica ed essere partecipatori, e non soltanto osservatori
da una parte e venditori di merce dall'altra”.
Mimmo Mastrangelo
Ricordando Bert Altena/
Storico dell'anarchismo che amava la vita
Il 3 ottobre 2018 ci ha lasciato, a 68 anni, Bert Altena, storico
olandese dell'anarchismo. Il suo nome sarà probabilmente
sconosciuto ai più, perché poco o nulla di suo
è stato pubblicato in Italia. Tuttavia egli era una delle
figure più apprezzate nella cerchia internazionale degli
storici dell'anarchismo. Nato l'11 luglio 1950 e laureatosi
nel 1978, ha lavorato per anni per la “International Review
of Social History” per poi insegnare fino al 2014 alla
Erasmus University di Rotterdam. Ha scritto articoli e libri
su Ferdinand Domela Nieuwenhuis, Max Nettlau, Arthur Lehning,
l'anarchismo e antimilitarismo olandese e il sindacalismo rivoluzionario.
Numerose sono anche le sue curatele di volumi collettanei, fra
cui, nel 2014, Reassessing the Transnational Turn: Scales
of Analysis in Anarchist and Syndicalist Studies.
Bert era una persona di buon cuore che amava la vita. Bonario
e sempre sorridente, generoso coi colleghi, era alieno dalle
piccolezze che spesso caratterizzano gli accademici, anche di
fede o simpatia anarchica. Alle conferenze, sia che presentasse
un suo lavoro, presiedesse una sessione o sedesse fra il pubblico,
si distingueva sempre per intelligenza e buon umore, ed era
poi una presenza immancabile alle susseguenti serate in birreria.
Il dolore per la sua scomparsa è temperato solo dalla
speranza che qualche editore lungimirante possa pubblicare o
tradurre una raccolta di suoi scritti.
Davide Turcato
Francia/
Il “caso” Laronze, ucciso dall'amministrazione
Jérôme Laronze è stato ucciso a colpi di
pistola da un agente della Gendarmerie, il 20 maggio
2017 a Sailly, nella Francia centro-orientale. Allevatore trentaseienne,
al momento dell'omicidio era latitante da nove giorni, braccato
da ventisei agenti di polizia.
Cos'aveva fatto Jérôme Laronze per giustificare
un simile dispiegamento di forze? Com'è possibile che
un poliziotto abbia finito per ucciderlo con tre colpi di pistola,
uno nel fianco e due nella schiena, lasciandolo per mezz'ora
a dissanguarsi e soffocare sul ciglio di un viottolo di campagna,
prima di portargli i dovuti, ma ormai inutili, soccorsi? Come
può questo omicidio essere la conclusione di una procedura
scaturita da alcune banali irregolarità burocratiche?
Ricostruiamo.
È nel 2003 che Jérôme prende le redini dell'azienda
che da cinque generazioni appartiene alla sua famiglia. Nel
giro di pochi anni converte l'allevamento alle tecniche dell'agricultura
biologica e lo predispone alla vendita su circuiti locali. Il
lavoro è molto ma Jérôme sembra cavarsela,
salvo qualche difficoltà con le paperasses (scartoffie).
Risalgono infatti al 2010 i primi attriti con l'amministrazione.
Nel corso di un controllo a sorpresa, Jérôme viene
trovato in possesso di alcuni vitelli non segnalati alle autorità.
Niente di losco o allarmante: semplicemente, come molti allevatori,
per ridurre il volume delle “scartoffie” Jérôme
segnala le nascite dei nuovi vitelli una sola volta al mese,
invece che in tempo reale come un controllore zelante può
pretendere. Rilevata l'anomalia, i servizi veterinari chiedono
di sottoporre i nuovi nati ad esame del DNA, per stabilirne
la filiazione, ma Jérôme rifiuta di adeguarsi a
“tecniche di identificazione criminale”. Il suo
gregge viene messo sotto sequestro dai servizi veterinari della
DDPP (Direction Départémentale pour la Protection
des Populations).
Una volta sottoposta a divieto di vendita e abbattimento, l'azienda
vede azzerati i propri introiti, mentre il gregge si moltiplica
al di là delle capacità foraggere della tenuta.
Gli animali dimagriscono, alcuni addirittura muoiono. Per questo,
nell'aprile 2016, Jérôme viene condannato a tre
mesi di prigione e 5000 euro di multa per “maltrattamento
animale”. “L'amministrazione spoglia l'allevatore
e poi lo processa per nudità”: è il commento
di un vicino. (vedi Hugues Berges, Je ne connaissais pas
Jérôme Laronze, www.sniadecki.wordpress.com).
Il 6 giugno 2016 i controllori della DDPP intervengono per procedere
al sequestro del gregge, senza preavviso e sotto scorta della
Gendarmerie. Nel corso delle operazioni, Jérôme
è tenuto sotto sorveglianza da agenti armati. Le mucche
a quanto pare non apprezzano la presenza dell'esercito sul pascolo:
si agitano, abbattono una palizzata e tentano di attraversare
un canale. Cinque di loro muoiono affogate e calpestate dal
resto del gregge. In seguito al disastro e grazie all'intervento
della sorella avvocato di Jérôme, la situazione
viene frettolosamente regolarizzata dalla direzione della DDPP.
Una parte dei documenti di identificazione degli animali, però,
è andata smarrita nei meandri dell'amministrazione. Per
i quattro mesi successivi, Jérôme subisce le pressioni
di un altro ente, gli EDE (Établissements De l'Élévage,
organismo preposto alla schedatura dei capi d'allevamento),
i quali reclamano quei documenti che la DDPP non sembra in grado
di ritrovare.
A partire da questo momento Jérôme interrompe ogni
contatto con l'amministrazione. Le comunicazioni della DDPP
e degli EDE vengono cestinate senza essere lette. Risale a questo
periodo la lunga lettera inviata al giornale locale, nella quale
è descritto l'incubo burocratico-amministrativo nel quale
si trova invischiato. Jérôme rivendica con lucidità
le ragioni che lo spingono ad opporsi ai controlli, ma racconta
anche di essersi recato una notte presso l'abitazione della
responsabile dei controlli della DDPP, “munito di corda
e sgabello” per impiccarsi nel giardino della persona
che l'ha apertamente insultato, offeso e minacciato.
I vicini, la famiglia, la Confédération Paysanne
(sindacato cui l'allevatore aderisce dal 2014), la stampa e
le autorità locali, tutti sono a conoscenza dello stato
di prostrazione in cui si trova Jérôme. Ma l'amministrazione
procede come un rullo compressore, senza che se ne capisca più
la necessità. L'11 maggio 2017, sempre senza preavviso
e sempre sotto scorta armata, i controllori della DDPP ritornano
all'azienda. L'ordine è lo stesso dell'anno prima: sequestrare
l'intero gregge per avviarlo al mattatoio.
All'arrivo degli agenti, Jérôme si trova al volante
del suo trattore. Non scende dal veicolo quando gli viene intimato
di farlo. Riesce a schivare gli agenti che tentano di accerchiarlo,
ripara in casa. Da lì telefona a un'amica per raccontarle
quello che sta accadendo e chiederle di avvertire la stampa.
L'amica si spaventa, teme che Jérôme possa suicidarsi,
avverte i pompieri. Nel frattempo gendarmi e controllori sporgono
denuncia per minacce, “violenze aggravate” e resistenza
a pubblico ufficiale.
Riassumendo, al momento della fuga Jérôme è:
perseguito dall'amministrazione per irregolarità nella
gestione del bestiame, ricercato dalle forze dell'ordine come
criminale pericoloso, segnalato alle autorità sanitarie
come persona bisognosa di cure psichiatriche. Ci sono tutti
gli elementi per scatenare una caccia all'uomo in grande stile.
A nulla servono la lucidità e l'ironia che Jérôme
dimostra nei successivi contatti col giornale locale. “Non
ho nessuna intenzione di suicidarmi. È tempo di elezioni,
faccio la mia campagna”. Jérôme non vuole
scappare: vuole approfittare dell'attenzione creata dalla sua
latitanza per esporre le proprie posizioni politiche: “L'iper-amministrazione
non è di alcuna utilità per gli agricoltori, produce
solo umiliazioni e vessazioni. È ai venditori e agli
intermediari che fa comodo. Il mio caso è solo uno tra
mille, ma illustra bene come l'eccesso di regolamentazione conduca
alla distruzione dell'agricoltore”.
Queste frasi vengono pubblicate il 19 maggio. Il mattino dopo,
una pattuglia avvista la vettura di Jérôme, accostata
lungo una mulattiera. Jérôme dorme sul sedile del
conducente. Si sveglia all'avvicinarsi degli agenti, avvia l'auto
e tenta di scappare. Gli agenti sparano, sei colpi in sette
secondi, tre dei quali vanno a segno. Le telecamere dei Taser
riprendono la scena dell'auto di Jérôme che esce
di strada e va a incagliarsi tra i cespugli. Gli agenti si allontanano
dal luogo del delitto. I soccorsi arriveranno mezz'ora dopo,
trovando Jérôme già morto.
Le perizie balistiche sono chiare: nessun colpo è stato
sparato frontalmente. I gendarmi non si trovavano dunque sulla
traiettoria dell'auto al momento degli spari: Jérôme
non ha cercato di investirli, come è stato detto in un
primo momento.
Una frase di Jérôme, pubblicata nella sua prima
lettera ai giornali, assume il valore di una profezia, di una
domanda alla quale qualcuno dovrà pur trovare una risposta:
“Se la Grecia antica aveva i propri riti e le proprie
credenze, oggi, a me, in nome di quale dio, sull'altare di quale
valore è stata promessa l'ecatombe?”.
Il processo al gendarme che ha sparato è in corso, ma
è l'intera amministrazione a dover fornire delle risposte.
Enrico Bonadei
enricobonadei.altervista.org
Ricordando Fabio Meregalli/
Un antifascista a tutto tondo (e la questione del fine vita)
Lo scorso 28 ottobre, all'Istituto dei Tumori di Milano, è
morto Fabio Meregalli. Un amico carissimo di Aurora, mio, della
redazione tutta. Da oltre un trentennio era “quello del
fax”, poi della fotocopiatrice, dei computer: la “sua”
ditta “A” Service (con tanto di “A”
cerchiata) è stata per decenni la nostra ditta di riferimento.
Oltre che con Fabio, abbiamo avuto a che fare con altri suoi
soci, dal mitico Gegè morto in un incidente stradale
nello scorso millennio, ad Andrea, Giampiero, ecc. Ma con Fabio
c'è sempre stata una relazione speciale, le sue venute
qui in redazione erano quasi sempre occasione per scherzare,
cazzeggiare, caffè, io e lui appassionati motociclisti,
ma lui era un biker serio, giubbotto e mentalità alternativa.
E poi si parlava di Carla, la sua compagna di una vita, e di
Milena, la loro figlia, “la creatura” come amava
citarla lui.
Ha sempre bazzicato (anche) gli anarchici, un po' i centri sociali,
ma il suo chiodo fisso era l'antifascismo. A livello cittadino
si è impegnato moltissimo, manifestazioni, intergruppi,
volantini. Era spesso incazzato per quelle o quelli che si defilavano
dagli impegni presi. Un generoso, una persona su cui sapevi
di poter contare.
Da qualche anno si era progressivamente allontanato dalla propria
diversificata attività politico-sociale, pur continuando
a frequentare il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa”.
Esprimeva preferenze per i cani, gli sembravano (diceva scherzando,
ma non troppo) più affidabili, calorosi e simpatici di
troppi compagni. Ma è sempre rimasto il Fabio sorridente
che ti raccontava le sue vicende familiari, politiche, motociclistiche
con la solita umanità e allegria.
Un giorno della scorsa primavera entra in redazione fortemente
zoppicante. “Ma smettila di far finta di essere un ragazzo,
hai i tuoi anni. E smettila di cadere dalla moto” gli
dissi. Il sorriso si spense subito quando ci raccontò
di una visita per alcuni dolorini, gli esami, il ricovero immediato
per tumori sparsi ovunque nel suo corpo. Rapida discesa, sempre
peggio. A Ferragosto ci incontriamo in un campeggio a Marina
di Massa: un bel pranzo e chiacchierata con Aurora e Carla.
Ci sono ancora nell'aria progetti, vede le bozze del nostro
libro su Fabrizio, si parla come sempre di anni 70, di moto,
dei cani, di musica, dell'anarchia. Ci si lascia con un abbraccio.
Poi il suo rientro a Milano, l'ospedale e la fine. Giunta come
spesso succede: aspettata e inaspettata allo stesso tempo.
Della sua possibile prossima morte avevamo parlato qualche mese
prima, ridicendoci che entrambi siamo laici e atei. Noi che
lottiamo per la libertà nel vivere, spesso ci dimentichiamo
di lottare per la medesima libertà e dignità nel
morire. Quando tutto precipita, poi, d'accordo con lui, prendo
contatto con Marco Cappato, tesoriere dell'Associazione “Luca
Coscioni”. Disponibile, efficiente, umano. Ma ormai è
troppo tardi.
Per informazioni pratiche, ma anche per un'importante battaglia
civile per il diritto a morire dignitosamente, loro –
i radicali dell'Associazione “Luca Coscioni” –
costituiscono a mio avviso una via maestra, eticamente chiara.
Certo loro sono radicali e noi siamo anarchici. E allora?
Per questa battaglia di libertà possiamo ritrovarci,
come altre volte in passato. Di sicuro la affronteremo prossimamente
sulle nostre pagine. È una tematica di libertà,
individuale e sociale. Quindi è una tematica anche nostra.
E di tutte le persone laiche, libere, libertarie.
Intanto grazie Marco, anche da parte di Fabio.
Paolo Finzi
Antropologia/
Ceronetti fa rima con insetti
Alla memoria di Guido Ceronetti. Non conosco altro libro
infatti come Insetti senza frontiere che tratti in maniera
esplicita della difesa degli insetti. Ceronetti sarà
ricordato forse troppo tardi. Lo scopro per caso cercando “insetticida”
su A-Rivista Anarchica, pochi giorni prima della sua scomparsa.
Un caso? Questo breve scritto vuole esserne una sorta di riflessione. P.G.
Il cloro è il simbolo nascosto dello Stato, del controllore,
del tecnocrate. Sia chiaro, il cloro è solo uno dei tanti
composti della tavola periodica, e non è malvagio in
sé, ma per come viene ricombinato, riassettato. Sbagliamo
a prendercela con gli insetti, il problema è sempre piuttosto
chi ci fa odiare l'insetto. Ronzano aerei di morte ma siamo
più infastiditi dal ronzio delle mosche sul cibo.
Siamo nell'era della clorurizzazione totale della specie, del
controllo nebulizzato.
Che cosa hanno in comune i composti chimici come la Sertralina,
il Sucralosio, il D.D.T. e il Cloro-Sarin? Sono tutte molecole
che hanno almeno un atomo di cloro nella loro struttura.
Fra
le bibite gassate, i chewing-gum e in un sacco di prodotti di
uso comune che assumiamo senza pensare, troviamo una fra le
tante armi banali della nostra industria dell'alimentazione,
il sucralosio. La banalità del male è stata infiocchettata
e ora sta in tutti i negozi di caramelle, nei farmaci, nelle
diet-coke.
Nello stesso modo in cui assumiamo un dolce e un non-dissetante
tè con ghiaccio, ci facciamo imbottire di psicofarmaci
che ci rendono gelatina. Le molecole esterne, tutti gli xenobiotici
non ci fanno più paura, dai sintetici ai naturali non
siamo più controllati, perché tanto tutto è
infiocchettato con cura da apparire “bello e consumabile”.
Il cloro-pensiero, moderno “manicomio chimico” per
dirla con Piero Cipriano, è arrivato e da lì non
si è più schiodato. Anzi, siamo infelici quando
non trangugiamo qualche pasticca dal dubbio valore. Il tempo
della cura non esiste più, soppresso da agenti xenobiotici,
insetticidi per il corpo e per la mente. Che cos'è allora
questo mercato globale se non un'immensa rovina luccicante di
cloro? Che cosa sono i corpi? Che cosa può un corpo?
A tal proposito Francis Bacon brutalmente ci restituisce un'immagine
mozzafiato dicendoci: «noi siamo carne, siamo potenziali
carcasse. Ogni volta che mi reco dal macellaio mi stupisco di
non essere lì io al posto dell'animale».
Tuttavia è forse nel celebre libro di Franz Fanon, I
dannati della terra, che ritroviamo la vera natura dell'insetticida-cloro
come arma totale; infatti Fanon scrive: «occorre mettere
sullo stesso piano il D.D.T. che distrugge i parassiti, vettori
di malattia, e la religione cristiana che combatte in germe
le eresie, gli istinti, il male. Il regresso della febbre gialla
e il progresso dell'evangelizzazione fanno parte dello stesso
bilancio.»
Verso un vuoto emotivo
Che cos'è allora l'uomo-insetto? L'avvocato degli insetti,
Guido Ceronetti, direbbe che gli insetti sono per se stessi
e mai per l'uomo, anzi semmai è l'uomo a essere per l'insetto.
L'insetto allora ripugnante, o almeno quello identificato come
tale, è il tecnocrate, il burocrate, l'uomo-click. Siamo
forse noi il cloro-tecnocrate? Che cosa aspettiamo a trasmutare
verso altri elementi? Abbiamo dovuto portare l'uomo a somiglianza
dell'insetto-dio per poterlo distruggere e per poterlo annientare,
silenziosamente.
Ora però, ma già all'epoca dello psichiatria algerino,
l'insetticida ha preso varie forme, si è potenziato,
è diventato lettere, numeri, si è fatto rarefatto,
tanto quanto più solido.
Oggi l'insetticida si è fatto neuro-insetticida, neuro-cloro,
neuro-miseria che dilaga. Ma chi ha bisogno di immagini serene
e liete quando il mondo collassa? Per salvare da questo mondo
occorre un panico che non smette di cantare, danzare; occorre
una perturbazione che blocchi il sonno ma non fermi la “macchina
da guerra”. Siamo in trincee, persi troppo nelle nostre
solitudini.
Ecco
che allora le parole di William Burroughs risultato ancora oggi
eterne presenti nel suo capitolo Congresso Internazionale
di Psichiatria Tecnologica nel Pasto nudo, le porte
della visione ci riportano l'immagine dell'americano deansiogenizzato,
“il centopiedi nero”, essere diviso, scomposto.
Sebbene tuttavia Burroughs ammetterà che una fra le sue
fobie più grandi fosse quella dei centopiedi, non è
forse già con l'introduzione dei primi antidepressivi,
e poi con la Setralina, che l'uomo diviene insetto, una sua
involuzione. Il cloro comanda il mondo perché trafigge,
perché igienizza l'uomo. Il verbo igienizzare è
il verbo del Lager, dell'istituzione totale. Ceronetti, prendendo
il caso dello zucchero, dirà nel suo aforisma 16 in Insetti
senza frontiere che sarà la causa della morte dei
popoli arabi e nordafricani. Ma cosa dovremmo dire noi poveri
bianchi consumatori di sucralosio, super-saccarioso-insetticida?
Ecco che allora ritroviamo un vecchio articolo sul disastro
avvenuto a Bhopal, in cui George Bradford scrive: «Se
ne ricava un'immagine davvero impressionante: quella della civiltà
industriale come un unico, grande, puzzolente campo di sterminio.
Viviamo tutti a Bhopal, alcuni più vicini di altri alle
camere a gas e alle fosse comuni, ma tutti abbastanza vicini
alle vittime.»
Il neuro-totalitarismo
Siamo arrivati nella situazione, in questo ristagno globale
in cui il cloro non è solo pericoloso, ma persino preferibile
all'elemento non-clorato. Abbiamo smesso di porci domande, di
volere “molecole” dalla forma semplice, in cambio
di diluenti sintetici che smacchiano, cancellano vite non solo
umane, ma tutta la vita. In cambio di cosa? Merce. Tutto questo
genera tecno-spasmo, iper-spasmo, rintocchi verso un vuoto emotivo,
convulsioni vuote.
Come allora si cura tutto questo, il panico, il dolore assente
della non presenza nel mondo? Come si cura allora una carcassa
non-presente come non-merce? Sertralina. Cloro.
Ecco la macchina capitalista alla sua macchina potenza, vapori
di cloro in ogni città, in ogni attimo. Ossigenio, carbonio,
idrogeno – molecole della semplicità, come possiamo
riscoprirle? Come riscoprire i corpi?
Lo
sterminio, o per usare un termine “bifiano”, il
neuro-totalitarismo è qui, dove sono le vie di fuga?
Questo è un imperativo presente non solo da pensare,
fuori dalle logiche contaminate e putrescenti del Cloro, ma
soprattutto creare azione-flussi. Mi consola il desiderio di
vita del manifesto del dopofuturismo di Franco “Bifo”
Berardi.
Ad ogni modo, cercando “chloro society” e “halogen
society” sul noto motore di ricerca non mi salta fuori
nulla di significativo, tanto per capire se sto copiando qualcuno.
Il punto fondamentale, però già Günther Anders
lo aveva individuato in L'uomo è antiquato. Vol 2:
«Se noi siamo ciechi nella nostra capacità d'immaginazione
gli apparecchi sono muti; con il che voglio dire che
la loro apparenza non rivela affatto la loro reale potenzialità.
[...]
Essi fingono un'apparenza che non ha nulla a che fare con la
loro vera natura, sembrano meno di ciò che sono.
A causa della loro apparenza troppo modesta, non si riesce più
a capire ciò che sono. Molti, come per esempio le bombole
di gas Cyclon B usate ad Auschwitz, che si differenziavano di
poco dai barattoli per la conserva della frutta, hanno un'apparenza
da “nulla”.» Qui il filosofo coglie appieno
quello che oggi è sotto i nostri occhi: il de-potenziamento
non solo dell'immagine, ma dell'uomo stesso, dove “la
merce è più importante della non-merce”,
in cui non esiste più nemmeno, secondo Anders un corpo
pieno, ma solo corpi dentro un «fare decapitato».
L'esperienza della conoscenza quindi non solo è inibita
già nel momento dell'atto del conoscere, ma proprio perché
lo “stato delle cose” è auto-replicante,
eterno virus replicante.
Pierre Bourdieu propone un contropotere simbolico che possa
fungere da arma contro il potere, contro il “potere rarefatto”.
È forse possibile? Ma come compiere questa delicata e
impellente operazione se le idee, i ricordi e le azioni sono
subito bloccate nel nascere? Nell'era dell'OGM, del trans-genetico,
della super-genetica l'idea è ridotta a stringhe di codice
e la soluzione ci verrà data da algoritmi installati
su A.I. Senzienti. L'acronimo A.I. allora dovrebbe essere espresso
più come: Allarme Immediato.
Franco Berardi, in Heroes Mass murder and suicide ci
ricorda infatti: «Penso che la prossima partita si giocherà
sulla neuro-plasticità (...) Al contempo, dobbiamo disegnare
le linee di una nuova etica, in grado di trattenere la nostra
umanità nel corso della transizione trans-umana.»
Come andare contro la follia
del nostro tempo?
Nell'era in cui non è più l'oro a luccicare, ma
è il cloro a prendere in mano la scena globale, allora
che cosa bisognare fare?
Ricostituire “nuclei di felicità” ci dice
Franco Berardi, allora sarà una impresa che non sarà
semplice, che dovrà prevedere parecchio “fuoco”
nei confronti del cloro, del neuro-totalitarismo.
Punto
di contatto fra il Rizoma di Deleuze&Guattari e il Micelio
di Paul Stamets in Mycelium Running, è il biorisanamento.
Nel caso specifico trovo significativo questo esempio riportato
nel libro di Stamets: Magic mushrooms versus Nerve Gas (“Funghi
magici contro gas nervino”)?
In questo caso specifico del micologo statunitense infatti capiamo
che il micelio e i miceti del genere Psyilocybe riescono attraverso
un processo enzimatico a scomporre alcuni tipi di gas nervini
(VX). Ma ciò che vale per la natura, la terra, vale anche
per l'uomo? Quale rizoma può decolonizzarci dal cloro?
La natura, per Stamets “risponde alle catastrofi con forme
apolitiche. Noi spesso no”.
Concludendo, come poter uscire dalle nebbie del cloro? Non è
forse attraverso una intensificazione delle “condotte
perturbate”, per dirla con Basaglia? O è una completa
follia? Non è forse l'ultimo secolo una completa follia?
Ma fino a che punto possiamo accettare la nostra follia personale
e collettiva col fine ultimo di andare contro le rovine del
mondo? Come andare contro la follia del nostro tempo senza non
attraverso una operazione militante di oltre-follia, di oltre-ironia
irriducibile all'elemento umano?
Pietro Galeotti
Teatro/
“El panadero”. L'anarchia e la pasta madre
“El panadero” (il fornaio) è la storia
di Sante, un ragazzo che vuole diventare fornaio perché
ha un sogno, fare il pane per tutti. E così lotta per
tenere viva la pasta madre che ha ereditato dal nonno. Parte
alla volta di Buenos Aires dove inizia a lavorare in un panificio
e lotta insieme ai compagni per salvaguardare la naturalezza
del pane e distribuirlo a tutti, segnando così la storia
politica e gastronomica dell'Argentina.
Lo spettacolo, un classico one-man-show, è stato presentato
la scorsa primavera, a Milano, al teatro Trebbo. Un'oretta davvero
coinvolgente, soprattutto per chi – come noi della redazione
– ha subito riconosciuto le bandiere rosso-nere, i nomi
che rimandano a storie: Sante Caserio, fornaio, attentatore
di un presidente della repubblica francese nell'800, Severino
Di Giovanni, anarchico abruzzese, emigrato in Argentina, editore
e rapinatore, al centro di controversie in campo anarchico,
fucilato nel 1936.
Per capire meglio cosa c'è dietro questa operazione
culturale, abbiamo intervistato Dario Menee, attore e ideatore
dello spettacolo.
Paolo – Se io ti dico “carbonara anarchica”,
caro Dario, tu che cosa mi dici?
Dario – Ti parlo delle origini del mio spettacolo
teatrale, noi volevamo proprio che la gente mangiasse durante
lo spettacolo. Abbiamo iniziato a pensarci io e un mio amico,
Francesco Tetti, a Buenos Aires, dopo che avevamo lavorato per
un po' in un call centre. A tutti e due era capitato di leggere,
in quel periodo, la biografia di Severino Di Giovanni ed eravamo
stati colpiti da quella dura vita di anarchico, poi fucilato
al grido di “Viva l'anarchia”. Un nostro amico punk
argentino,, un po' alternativo, ce ne aveva dato una copia.
Noi avevamo un alto concetto, tipicamente italiano, del mangiar
bene e del conseguente star bene, e la carbonara – diffusa
in Argentina ma spesso con variazioni locali per noi inconcepibili
– era concretamente il nostro star bene. Abbiamo cercato
in rete il significato di quell'aggettivo “carbonara”
e siamo risaliti alla Carboneria e a momenti significativi del
primo Risorgimento italiano. C'era poi chi parlava degli operai
che trasportavano il carbone, con la loro lotta di classe nelle
miniere.
All'inizio, col nostro spettacolo, ci siamo limitati a parlare
dell'attualità politico-sociale dell'Argentina. L'apice
della crisi c'era già stato un po' di anni prima, ma
era rimasta una diffusa conflittualità sociale. Va tenuto
presente che in Argentina la politica è un argomento
molto sentito dalla gente, soprattutto dai giovani.
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Una scena dello spettacolo |
Questa è stata la prima fiamma, ma poi come è
nato questo spettacolo?
È stato un work-in-progress, che ha coinvolto molte persone
che hanno partecipato per un periodo alle mangiate/chiacchierate.
Poi Francesco si è tolto e si è avvicinata una
ragazza di origine calabrese, Cecilia Settembrino, che non aveva
pratica di regia, ma era determinata a collaborare a quello
spettacolo. Iniziammo a fare prove a casa sua, poi in un locale
enorme che apparteneva a una cooperativa di ferrovieri.
Abbiamo lavorato a todo pulmón, incessantemente,
sapendo che la strada sarebbe stata lunga. Ci sarebbero voluti
vari anni. Ma non ci scoraggiammo, il mondo teatrale argentino
era così.
La storia iniziale era quella di un panettiere che avrebbe voluto
solo fare pane, ma era subissato di richieste per fare forme
di pane difficili e assurde: quindi alla fine impazzisce.
Ma poi la storia virò verso quella versione attuale che
avete visto qui in teatro, a Milano, pochi giorni fa. Non mi
ricordo perché, ma a un certo punto incontrammo la pasta
madre: farina, acqua, impastarla tutti i giorni, ogni giorno
assemblea per vedere chi la seguiva, discussioni, anarchia.
In quella fase di preparazione Sante, il panettiere, era un
mancato bombarolo. Era stato scoperto e in qualche modo con
le indagini poliziesche aveva inguaiato i suoi compagni. Nello
spettacolo si vedeva Sante ritornare al forno dopo tanti anni
e meditare su quel mancato attentato. Avevo trovato dei vecchi
giornali dei sindacati dei panettieri.
Cominciai a lavorare con un'altra regista, Luciana Diaz, lo
abbiamo presentato a Mar del Plata, avevo contattato associazioni
di italiani. Era ancora un abbozzo.
Poi mi sono trasferito a Napoli, la città più
sudamericana d'Italia. Lì l'ho fatto vedere al regista
Ettore Nigro, un mio compagno di accademia. Gli è piaciuto,
abbiamo inserito un personaggio in più, Severino, e abbiamo
deciso di chiudere lì la ricerca e partire con lo spettacolo.
Abbiamo debuttato a Napoli all'asilo Filangeri, un posto bellissimo.
Viene fatto in italiano e spagnolo, all'estero lo fai
tu o Ettore?
Io sono contrario al copyright, ma mi rendo conto che bisogna
viverci con l'arte. Comunque in questo caso non c'è scenografia,
e Davide lo fa differentemente da me.
Io sono andato in Venezuela, lui ha continuato a farlo, anche
all'Expo. Ora che sono in Italia, ci alterniamo, cerchiamo di
suddividere le remunerazioni. E certo siamo interessati a essere
contattati per fare spettacoli in fabbriche, scuole, centri
sociali, ecc.
Paolo Rossi e l'improvvisazione
La questione dell'alimentazione è presente anche
nell'ultima versione del tuo spettacolo.
In Argentina c'è il grande problema di Monsanto, per
la soia transgenica. Passano con gli aerei con il glisolfato,
che brucia tutto tranne la soia. Ci sono molte lotte sociali
contro l'aumento dei tumori. L'alimentazione è prima
di tutto una scelta. Scegliere ogni giorno che cosa mangiare,
essere consapevoli di mangiare merda.
Parlaci un po' del protagonista, Sante, e della sua idea
di rivoluzione.
Il mio Sante è un non-violento. Severino, l'altro personaggio,
è un riferimento generale, volevo fare un omaggio ai
simboli. Per me la rivoluzione è un fatto interiore.
Senza arrivare al buddismo, bisogna saper stare in contatto
con gli altri. Senza dogmi, che a volte ho ritrovato anche in
ambienti anarchici. La rivoluzione è una cosa ontologica,
dell'essere. È una cosa personale, che io porto avanti
– con contraddizioni – tramite anche il mio lavoro.
Nel corso di una bella serata di due/tre anni fa a Rosignano
(Livorno) incentrata su Pietro Gori, Paolo Rossi parlò
dell'improvvisazione. E disse che, secondo lui, l'anarchia è
come l'improvvisazione in campo teatrale: sembra facile, ma
richiede almeno 30 anni di attenzione, osservazione, lavoro.
Far pensare, questo è il compito del teatro.
Secondo te è davvero possibile sostituire una volta
per tutte il lievito di potassio con il lievito madre?
Impossibile, ci vuole un cura quotidiana, attenta. Come per
l'anarchismo.
Quando gli diciamo che provvederemo ad inviargli in omaggio
la nostra rivista, per un periodo, come facciamo con tutte/i
quanti/e si ritrovano a collaborare con la rivista, Dario ci
precisa che la legge da tempo, anche se non regolarmente. Difficile
trovarla quando si è in giro. Difficile dargli torto.
Ma, scherziamo, una soluzione c'è: basta farsi intervistare
dalla redazione.
Paolo Finzi
Calabria/
La “rosarnizzazione” del lavoro turistico
Il mese di ottobre, per migliaia di lavoratori stagionali impiegati
senza alcun contratto nel settore turistico, è stato
quello delle verifiche. Dopo aver lavorato dalle 8 alle 12 ore
al giorno senza contratto, senza ferie, senza riposo tra un
turno e l'altro, con temperature che sfiorano i 40 gradi, ti
giunge la notizia che non ci sono i soldi per retribuire il
tuo lavoro.
Non sono solo i fratelli africani che raccolgono gli agrumi
nella Piana di Gioia Tauro ad essere schiavizzati nella terra
dei Bruzi. Baristi, camerieri, lavapiatti, molti dei quali con
livelli alti di istruzione (laurea, master, certificazioni linguistiche,
esperienze di lavoro all'estero) costretti a pietire, a stagione
finita, degli “acconti” sul dovuto di 50 o 100 euro
per poter sopravvivere. I media ci hanno informato dell'aumento
in percentuale dei flussi turistici, delle prenotazioni e delle
presenze turistiche nei luoghi più gettonati della Calabria,
della Puglia, della Sicilia ma nessuno si è premurato
di raccontare una delle più grandi vergogne italiane.
Qualche sindacalista, convinto che tra i lavoratori ci sia una
scarsa consapevolezza dei propri diritti, invita gli stessi
a denunciare pur sapendo che, a prescindere da come andrà
a finire la vertenza contro il padrone, solo per aver cercato
di difendere i propri diritti nessuno ti chiamerà più.
Questa situazione non si verifica solo in Calabria. In tv abbiamo
assistito alla protesta che si è consumata a Rimini e
Riccione, cittadine ad alto flusso turistico dove i proprietari
di alberghi e ristoranti si sono ritrovati, alle soglie della
stagione estiva, senza personale. Una rivolta gentile che nessuno
si aspettava. Dietro la loro rinomata ospitalità, alcuni
gestori hanno consumato, per anni, lo sfruttamento più
nero. Qualche albergatore della riviera romagnola ha persino
dichiarato ai giornalisti che si son dovuti mettere loro, in
prima persona, a servire ai tavoli, alla macchinetta del caffè
e a pulire le stanze.
Nessuno di loro ha spiegato però che il motivo principale
della rivolta degli stagionali è da ricercarsi nei mancati
contratti che pure esistono e che stabiliscono regole precise.
Ho avuto modo di verificare, “di persona personalmente”,
che anche nel decantato Salento avviene la stessa cosa. In un
campeggio dove ho soggiornato per il tempo necessario ad informarmi
di quanto stava accadendo a Melendugno per la TAP – e
anche constatare, nelle campagne circostanti, quante piante
di olivo fossero state annientate dalla burocrazia e quante
dalla Xylella fastidiosa –, ho discusso con molti giovani
lavoratori stagionali, i quali mi hanno raccontato la loro,
per nulla gratificante, situazione lavorativa.
foto ChiccoDodiFC/Depositphotos.com
Come si vede in tutto il Paese ci si approfitta dell'enorme
esercito di giovani disoccupati che chiedono di poter lavorare
nei settori turistici e soprattutto nella ristorazione. Schiavizzare
gli africani per sfruttare meglio e precarizzare tutti i lavoratori
è la tragica strategia che si persegue in tutta Italia.
Altro che il modello Riace. Gli stagionali, per gli strateghi
del lavoro nero, non devono continuare a pretendere la contrattualizzazione
del lavoro, il rispetto delle regole, della persona, del lavoratore
ma dovrebbero, secondo loro, sentirsi persino fortunati se paragonati
al modello schiavista di Rosarno con i lavoratori stipati nei
campi, sotto le tende, riscaldati da stufe assassine e sopraffatti
dalla violenza razzista di alcuni residenti e dalla ndrangheta.
Cosa si nasconde dietro il sorriso di molti (fortunatamente
non di tutti) albergatori? Inquadramenti irregolari, salari
bassi, vessazioni, chef assunti con altri contratti, bagnini
utilizzati come factotum, violazione dei diritti elementari.
Adesso è giunto il momento di dire basta!
Angelo Pagliaro
angelopagliaro@hotmail.com
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