Columbus Day
Un milione di persone alla consueta parata in
memoria del navigatore genovese, alcune centinaia alla controcelebrazione.
Indovinate: a quale incontro hanno partecipato i nativi residenti
nella Grande Mela? E a quale è andato il nostro corrispondente
dagli Usa? A proposito, Cristoforo Colombo era proprio una personaccia,
schiavista, razzista, torturatore. I documenti storici lo confermano.
Ora non piangere
perché presto la notte finirà,
con le sue perle, stelle e strisce
in fondo al cielo.
(F. De André, M. Bubola, Verdi Pascoli, 1981)
“Per il cinquecentesimo anniversario della scoperta
dell'America accettai di partecipare alle celebrazioni con un
mio spettacolo e decisi di allestirlo ispirandomi alla Divina
commedia. L'idea di fondo era che cinque secoli prima gli europei
avevano discusso a lungo per stabilire se noi indigeni fossimo
o meno esseri umani e quando, alla fine, decisero che anche
noi avevamo un'anima, sentirono l'urgenza di convertirci. Ecco
perché ho voluto utilizzare Dante per descrivere il nostro
inferno e purgatorio qui, sulla Terra”.
Spentasi l'eco dell'ultimo applauso, cessata la danza circolare
che aveva coinvolto anche il pubblico in un crescendo di entusiasmo
collettivo, Josephine, sudata e affannata, era rimasta sul piccolo
palcoscenico a raccontarsi, con un bel sorriso ironico stampato
sul viso rotondo. Educatamente, ma senza remore, rispondeva
alle domande del pubblico.
“I bianchi ci hanno cristianizzati secoli fa, ma ancora
oggi non ci considerano uguali a loro. Da noi ci si aspetta
sempre che facciamo gli indiani, che ci comportiamo secondo
certi schemi da film western. È la storia della mia vita:
tutti cercano di inquadrarmi in qualche stereotipo. Vorrebbero
che uscissi di casa fluttuando come uno spirito, con le penne
in testa, mormorando una preghiera al Grande Spirito. Ma io
sono cresciuta e vivo nel Bronx, sono una donna come tante,
con una famiglia da mantenere, figli da mandare a scuola e conti
da pagare. Sono hopi1 e vado
orgogliosa delle mie radici, ma vivo qui, all'incrocio di tante
culture e se mi chiedono di definirmi rispondo che sono americana2
perché faccio parte della narrativa dell'intero continente.
Chiedo rispetto per la mia identità, ci tengo a far conoscere
la mia cultura e, a chi ha voglia di ascoltare, racconto cosa
significa vivere da amerindia in questo paese. Ma non chiedetemi
di fare l'indiana, non sono più la vostra tomtom Indian.3
Non chiedetemi di festeggiare Colombo. Non ho nulla contro gli
italiani, fanno parte quanto me di questa realtà, dove
vivo io ce ne sono tanti, pronipoti dei loro migranti. Ma non
capisco perché sentano il bisogno di celebrare un avventuriero
venuto a depredare, uccidere, schiavizzare”.
Sulle parole di Josephine, che qui ho citato andando a memoria,
ho riflettuto per giorni interi. Sulle prime mi ha un po' sorpreso
quella sua esortazione perché, vestita com'era in costume
tradizionale, con tanto di collane, sonagli alle caviglie e
una bella penna fra i capelli nerissimi, pareva davvero che
fosse appena uscita dal set di Ombre rosse. Ma so che aveva
ragione e la sua storia lo conferma: dopo dieci anni alle Nazioni
Unite a occuparsi di diritti dei popoli indigeni, Josephine
ha deciso un giorno di lasciare quella strana dimensione fatta
di meeting, briefing e corridoi ovattati, per tornare in mezzo
alla gente. Da anni si guadagna da vivere col gruppo da lei
stessa fondato, i “Silver Clouds”, band di artisti
indigeni di varie etnie, oggi discretamente nota. All'inizio
il gruppo accettava qualsiasi lavoro ma col tempo il progetto
è maturato e oggi rifiuta di rappresentare il folclore
stereotipato che farebbe cassetta. I componenti sono discendenti
di quegli indiani che, all'inizio del novecento, lasciavano
la fame e la disperazione delle riserve e arrivavano in città
in cerca di lavoro, solitamente mentendo sulle loro origini,
per non essere discriminati.
A New York, insomma, vivono tanti amerindi e, quando mi capita
di incontrarne, sono in genere affabili. Ci tengono a sottolineare
che non ce l'hanno con noi italiani, vorrebbero solo che la
smettessimo di celebrare Colombo. Non posso che essere d'accordo.
Molti anni fa, in tutt'altro contesto, mi capitò di conoscere
un giovane apache. Era la prima volta che incontravo un “nativo”
del Nordamerica e stringergli la mano fu, per me, molto emozionate,
ma non aveva nulla a che fare coi personaggi che popolavano
i fumetti della mia infanzia, né assomigliava ai fieri
guerrieri visti nelle foto che, durante l'adolescenza, corredavano
le mie letture di formazione sul tema: esile, indossava jeans
e maglietta e portava occhiali sottili e rotondi da intellettuale.
Era riservato, parlava poco e sembrava sempre distaccato, lontano.
In quegli anni la sua gente era mobilitata contro la costruzione
dell'osservatorio astronomico di Monte Graham, in Arizona, una
montagna che gli apache considerano particolarmente sacra. All'impresa,
scoprii con sconcerto, partecipava anche il Vaticano, con un
suo telescopio: come se i pronipoti di Cochise avessero deciso
di piazzare una tenda per le cerimonie proprio in cima alla
cupola di San Pietro, senza nemmeno chiedere il permesso.4
Quell'incontro mi provocò emozioni contrastanti: lui
asseriva che non potesse esserci vero dialogo fra noi, perché
i nativi americani hanno una spiritualità di cui gli
europei sono incapaci e che non capiscono, attaccati come sono
alle cose materiali. Aveva eretto un recinto attorno a sé
e lo insospettiva la mia curiosità. È stata, credo,
un'occasione persa per entrambi e i nativi sono dovuto venirmeli
a cercare fra i grattacieli di New York. Sono anonimi indiani
metropolitani mimetizzati fra la folla della grande città,
ma alcuni di loro, quando arriva il momento di celebrare Colombo,
si cambiano d'abito, dipingono faccia e corpo e mettono copricapi
piumati per ricordare a tutti, con orgoglio, che ce l'hanno
fatta, che sono ancora qui, sopravvissuti al genocidio.
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Randall Island, New York, ottobre 2018 - Un momento dell'evento organizzato dai nativi per contestare la celebrazione di Colombo |
Ma gli europei vennero per conquistare
Non so quanto siano cambiati i testi scolastici dai miei tempi,
immagino però che ancora oggi Colombo vi sia descritto
come il geniale, coraggioso navigatore che, per caso, scoprì
l'America. Persino la versione italiana di Wikipedia propone
l'immagine di un uomo sostanzialmente buono che, se commise
qualche atto malvagio, fu più per adattarsi allo spirito
del tempo che per indole cattiva.
Ma, a differenza dei vichinghi, che avevano visitato queste
sponde cinque secoli prima, per nulla interessati a reclamare
la scoperta di un nuovo mondo, gli europei vennero per conquistare.
Il 12 ottobre 1492 è il D-Day di un'invasione e, a partire
da quella data fatidica, il destino del mondo intero prese un
nuovo corso. Per le genti che abitavano questo nuovo mondo è
iniziata una storia di carneficine, schiavitù, deportazioni
e violenze inenarrabili. Popoli, lingue, etnie, persino imperi
sono stati cancellati dalla faccia della terra ed i superstiti,
dall'Alaska alla Terra del Fuoco, sopravvivono appena, umiliati
ovunque, i loro diritti calpestati.
L'eco delle fucilate non si è del tutto spenta eppure,
a ottobre, qui negli Stati Uniti, ancora si celebrano le gesta
del navigatore genovese. Non dappertutto, è giusto ricordarlo:
la diatriba attorno alla discussa figura di Colombo ha portato
talvolta a positivi ripensamenti. In quattro stati e in una
cinquantina di città la festività ufficiale è
stata tolta dai calendari o sostituita da una nuova ricorrenza,
in genere nota come Indigenous Day, in un tentativo di
riconciliazione tardivo, ma apprezzato.5
Ma a New York Colombo è davvero una grossa faccenda e
lo si festeggia in grande stile, con la classica parata che
sfila lungo la Quinta Avenue, con tutto l'armamentario assai
pacchiano di maschere, carri, bande musicali, palloncini e bandierine
che tanto piace agli americani. Non mancano le autorità
cittadine che, prima di andarsi a godere la sfilata, sedute
sui palchi d'onore, depositano corone di alloro sotto la statua
del navigatore, come fosse stato un martire o un eroe.
Di buonora cittadini e turisti si sistemano lungo il percorso
e, accalcati alle recinzioni, trascorrono ore in piedi ad agitare
le mani e a scattarsi selfie, sperando di cogliere il passaggio
di qualche vip luccicante di lustrini.
La festa è particolarmente irrinunciabile per gli italoamericani,
i pronipoti dei nostrani migranti economici di altri tempi.
Per loro è Colombo il vero eroe dei due mondi e sembrano
confondere le caravelle di fine quattrocento con le navi che
sbarcarono i loro bisnonni, con le valigie di cartone legate
con lo spago, a cavallo di ottocento e novecento. Per questo
alla parata, accanto alle immancabili stelle e strisce, si agita
anche un sorprendente mare di bandiere tricolori.
Eppure, già da tempo, la verità su Colombo è
venuta a galla: i documenti storici lo inchiodano alle sue responsabilità
di uomo senza scrupoli, avido e crudele. Già nella seconda
spedizione, al comando di 17 navi e 1200 uomini, Colombo navigò
per il Caribe catturando migliaia di indigeni da spedire in
Spagna come schiavi e soggiogò quei pacifici ed ospitali
Arawak, descritti con parole quasi poetiche nel diario di bordo
del suo primo viaggio,6 costringendoli
a cercare oro per lui. Adottò anche la pratica di far
mutilare gli schiavi che, alla fine di ogni massacrante giornata
lavorativa, non avessero riportato al campo base un sufficiente
quantitativo di pepite. Fra violenze, esecuzioni e turni di
lavoro estenuanti, due anni dopo l'arrivo di Colombo già
125.000 nativi erano stati uccisi.7
Quando provo a parlarne con gli italiani di New York trovo però
solo orecchie sorde e cuori chiusi: Colombo non si discute.
Egli per loro è ancora un mito, l'eroe solitario e romantico
che sfidò gli oceani per dimostrare che la Terra è
rotonda e vanno orgogliosi alla sfilata, col tricolore in bella
mostra, quasi che l'America l'avesse scoperta non per la corona
di Spagna ma per dar lustro a loro, italiani d'oggi nella terra
promessa.
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Randall Island, New York, ottobre 2018 - Gerald Bundy, esponente dei powhatan renape. Nel volantino del riquadro, recante una stampa d'epoca raffigurante le raccapriccianti torture imposte dagli spagnoli ai nativi, è scritto: “Chiariamoci: il tipo si smarrì, trovò un posto dove già viveva della gente e ne reclamò il possesso per l'Europa, poi torturò e massacrò migliaia di nativi, aprendo la strada al mercato degli schiavi. E ci chiedete ancora di celebrare questa merda?” |
Solo un rispettoso silenzio
Secondo la stampa quest'anno quasi un milione di persone ha
assistito alla parata. Invece alle controcelebrazioni, che da
pochi anni si tengono sui prati fangosi dell'isola di Randall,
nell'East River, eravamo pochi: appena qualche centinaio nei
momenti di maggiore affollamento. C'era bella gente però,
una bella atmosfera. C'era un clima umano che mi ha fatto pensare
agli anni belli in cui si contestava, sicuri di poter cambiare
il mondo.
C'erano gli indiani, ovviamente, in jeans o con abiti tradizionali,
sempre disponibili a raccontarsi, quando intuiscono che il tuo
interesse è genuino. Incontrarli non mi emoziona come
un tempo, ma provo il piacere intenso della condivisione. Non
sono gli indiani improbabili dei film ma persone in carne ed
ossa con le quali, nell'atmosfera caotica da accampamento improvvisato
della festa, fra teepee e bancarelle, è stato
possibile riconoscersi come appartenti ad una comune umanità.
Ho raccolto così qualche storia, non sugli orrori del
passato, ma su quelli di oggi.
Kim, giovane artigiana cheyenne, mi ha raccontato della sua
riserva nel Sud Dakota, dove ancora oggi si muore di fame, di
malattie banali e di mancate opportunità. Fuori da quei
confini c'è una società diffidente e razzista,
malata di obesità e indifferenza. I giovani lasciano
la riserva e vanno a vivere in città in cerca di opportunità,
ma nella società dei bianchi sono dei reietti. Maltrattati
dalla polizia, sfruttati dai datori di lavoro, finiscono per
ingrossare le fila degli emarginati e trovano consolazione nell'alcol.
Gerald, che vendeva magliette ammassate disordinatamente in
due grandi cesti, mi ha raccontato la storia recentissima della
nazione indiana a cui appartiene, i powhatan renape, del New
Jersey. Sei anni fa sono stati depredati della terra da una
lobby di affaristi con buoni agganci politici. Una legge ad
hoc ha sancito l'espulsione del gruppo dalla riserva dove risiedeva
da decenni. Da un giorno all'altro l'intera tribù si
è ritrovata dispersa, senza un posto dove andare. L'ennesima
ingiustizia già da tempo scomparsa dalle cronache. Gerald
e i suoi cercano di racimolare la somma necessaria per provare
a ottenere giustizia in tribunale, come in un film americano.
Magliette in cambio di futuro.
Rimuginando queste storie sono tornato su quei prati all'alba,
per salutare il sole assieme agli indiani. Non ho passione per
riti e cerimonie, ma mi sembrava importante esserci. Arrivando,
intirizzito, proprio mentre i primi raggi iniziavano a rischiarare
l'orizzonte, è stato bello scoprire che anche molti altri,
alcune centinaia, avevano trovato la forza di sfilarsi dal tepore
delle loro case. Non credo vi fossero politici o giornalisti.
Niente slogan, striscioni o cartelli. Solo un rispettoso silenzio,
interrotto a tratti dalle risate dei bambini. Al mio arrivo
il grande cerchio già si era formato e ciascuno salutava
a suo modo il sole, il vento, il Grande Spirito, Dio o qualche
altra divinità o nessuna affatto. Non aveva importanza:
si era lì, tutti assieme, per testimoniare la comune
umanità, per un atto di necessaria solidarietà,
per immaginare un futuro migliore per tutti. Di questi tempi
non è poco.
Rivolto il pensiero, lo sguardo e il corpo ai quattro punti
cardinali, ci siamo infine rivolti verso il centro del cerchio,
siamo tornati a guardarci negli occhi, ciascuno col proprio
inconfondibile volto. Qualcuno allora ha afferrato un microfono:
“Noi, nativi di tante tribù, siamo qui, oggi, per
celebrare il fatto che non siamo scomparsi, che su questa terra
ci siamo ancora, che le noste culture, nonostante tutto, continuano”.
A pochi chilometri dal nostro cerchio la gente già cominciava
a disporsi lungo il percorso della sfilata, formando una linea
continua di persone che non si guardano negli occhi. Ma Colombo
per me è stata una brutta faccenda e, finché vivrò
nell'impero, quella parata non mi vedrà. Starò
piuttosto vicino a quelli come Gerald, a quelle come Kim, senza
slogan, né bandiere.
Chissà, forse un giorno davvero la notte finirà,
con le sue stelle arrugginite in fondo al cielo. L'erba stenta
di quei prati si trasformerà nei verdi pascoli della
profezia di Wovoka, seppellita nella neve, assieme al mio cuore,
a Wounded Knee.8
Santo Barezini
- Gli hopi fanno parte della cultura pueblo. La loro riserva confina con quella
navajo, in Arizona.
- Josephine ha utilizzato lo spagnolo Americana, non l'inglese American,
con riferimento quindi all'intero continente.
- Uno dei termini dispegiativi utilizzati con riferimento agli indigeni negli
USA. Tomtom (tradotto in italiano “tam tam”) non
deriva, come si crede comunemente, dalle lingue indigene,
ma è un termine introdotto dagli inglesi per descrivere
i vari tipi di tamburi che fanno parte della cultura di tutte
le tribù.
- A dispetto delle proteste l'osservatorio è stato realizzato ed ha iniziato
le operazioni nel 1993. Il Vaticano è presente con
una sua struttura denominata VATT (Vatican Advanced Technology
Telescope).
- Gli stati che hanno abolito la festività sono Minnesota, Vermont, Alaska
e South Dakota.
- Colombo aveva stabilito la base operativa sull'isola di Hispaniola, oggi divisa
fra Haiti e Repubblica Dominicana.
- Tra le tante pubblicazioni consultabili sul tema suggerisco: Eduardo Galeano,
Le vene aperte dell'America Latina (Uruguay, 1971);
Dee Brown, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee (USA,
1970); Howard Zinn, A Peoples' History of the United States
of America (USA, 1980) e il recentissimo di Jason Hickel,
The Divide (Regno Unito, 2017).
- Nell'inverno del 1890 si diffuse nelle grandi pianure dell'ovest la profezia
dello sciamano paiute Wovoka secondo la quale, se gli indiani
avessero ballato la sua danza degli spettri, in primavera
gli invasori sarebbero stati spazzati via da un diluvio, i
guerrieri uccisi sarebbero risorti, le mandrie di bisonti
e cavalli avrebbero ripopolato le praterie. Wovoka assicurava
che danze e preghiere avrebbero reso invulnerabili i credenti
alle pallottole dei bianchi. Il 18 dicembre di quell'anno
l'orrenda carneficina di Wounded Knee (Sud Dakota) mise fine
alle speranze indiane e la profezia di Wovoka venne presto
dimenticata.
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