Movimento anarchico di lingua italiana/
Dal 1945 al 1960
Immaginiamo che un compagno, da poco entrato nel Movimento,
dopo aver letto Bakunin, Kropotkin e Malatesta, voglia poi verificare
come i principi formulati dai pensatori, oltre che attivi militanti,
testè citati, siano stati declinati nel movimento anarchico
italiano dell'800 e del 900.
Si premette che l'immaginario lettore può disporre di
una letteratura abbondante, diversificata e qualificata, che
gli propone semmai l'imbarazzo della scelta. Ma per fermarsi
soltanto al 900 e più specificamente all'epoca storica
a noi cronologicamente meno lontana, quella cioè periodizzata
fra l'immediato secondo dopoguerra e gli anni 60 prima del
68, non vi è stato aspetto del movimento che non sia
stato studiato e analizzato.
Si dispone infatti delle biografie dei militanti e pensatori,
che hanno svolto ruoli diversi, taluni di primo piano, altri
di meno, nei 2 volumi del Dizionario Biografico degli Anarchici
italiani, vera e propria opera aperta in continuo accrescimento
digitale. Continue e approfondite ricerche aprono nuovi punti
di domanda sugli snodi cruciali del periodo, rappresentati dalle
scissioni della FAI rinata a Carrara e dalla nascita di nuove
organizzazioni anarchiche, diverse dalla FAI, come i GIA, oppure
come i Gruppi Anarchici d'Azione Proletaria.
Eppure ancor molto vi è da dire, da esaminare e da leggere,
come dimostra il libro di Fabrizio Giulietti L'anarchismo
in Italia (1945-1960) (Galzerano Editore, Casalvelino Scalo
– Sa 2018, pp. 400, € 25,00).
Esaurita la prefazione di Giampietro Berti, densa quanto scettica
e realistica sulle assai limitate possibilità concrete
che il movimento anarchico aveva di poter innescare un processo
rivoluzionario nell'immediato dopoguerra, dal momento che era
condizionato, come del resto tutta la sinistra, dagli effetti
nefasti della guerra fredda, si entra nel vivo della ricostruzione
storiografica.
L'autore, che da molti anni si dedica alla storia dell'anarchismo,
si muove agevolmente su tre piani: l'archivistico, il bibliografico
e saggistico e quello più propriamente interpretativo
delle fonti prese in esame. Ne consegue un quadro di riferimento
fattuale quanto più verosimile sia possibile, la rilettura
dei testi dedicati al periodo che sono valorizzati dal confronto
dell'uno con l'altro e delle vere e proprie scoperte storiografiche
e politiche, come si rileva dall'esame della rivista “Volontà”.
Sulla scorta di una ricostruzione esemplare delle prese di posizione
di “Volontà” nei riguardi dei GAAP, l'autore
fa emergere l'elevato spessore politico di Giovanna Caleffi
Berneri, la sua lungimiranza relativa alla progressiva erosione
dell'anarchismo tra le masse popolari, così come via
via viene messo in ombra dai partiti di massa, e l'impegno sociale
e politico della nostra compagna per sviluppare delle alternative
anarchiche e socialiste libertarie al declino dell'anarchismo,
tra i lavoratori e le masse popolari, intorno agli anni 50
e 60 in Italia.
Viene inoltre valorizzata dall'autore la dimensione rappresentata
dalla sensibilità politica degli anarchici dell'epoca
del quadro politico nazionale ed internazionale, così
come viene espressa nelle varie forme di comunicazione a disposizione
del movimento, fra cui soprattutto, all'inizio del periodo,
quella orale, attraverso la citazione del libro caposcuola di
Italino Rossi La ripresa del movimento anarchico e la propaganda
orale dal 1943 al 1950 edito nel lontano 1981.
In conclusione il libro di Giulietti contribuisce a fornire
un quadro di insieme di un movimento molto più vivo e
dialettico di quanto non si pensi, descritto in un periodo molto
difficile della sua storia più che secolare in Italia,
dalla cui lettura l'immaginario lettore potrebbe trarre, come
anch'io li ho tratti, spunti interessanti relativi alla valutazione
di quanto l'anarchismo attuale sia uguale e diverso rispetto
a quello pre 68.
Enrico Calandri
Scuola/
L'esperienza di un insegnante libertario
A mio avviso, se vi si riflette un attimo, l'agile libretto
di Rino Ermini La mia scuola: com'era e come l'avrei voluta
edito da La Fiaccola (Noto – Sr, pp. 141, € 8,00)
è una sorta di manuale per l'uso della scuola da parte
di un libertario desideroso di vedere dei risultati concreti
e verificabili, qui e oggi, della propria azione in un contesto
delicato come quello scolastico o, se si preferisce, una mappa
utile ad affrontare un percorso critico.
So
bene che, quando si tratta di un lavoro altrui, specie di quello
di un altro compagno che si apprezza, non si dovrebbe parlare
di sé. Ma quando parlo con Rino, o quando leggo qualcosa
che ha scritto, non posso fare a meno di pensare che il mio
attraversamento della scuola pubblica sino alla pensione sia
stato straordinariamente più leggero per un verso, e
più accidentato per un altro, con continui cambiamenti
di insegnamento, di ordine di scuola, di istituto. La conseguenza
è stata che non mi sono mai posto con la stessa intensità
l'obiettivo di modificarla.
Mi sono essenzialmente dedicato a combattere, come sapevo e
come potevo, la struttura gerarchica che la regge, più
che a praticare con le necessarie competenze una pedagogia libertaria
a tentarne, non so con quanto successo, una dialogica. Insomma
più che un insegnante libertario ritengo di essere stato
un libertario che faceva l'insegnante.
Pagato questo tributo alla mia, assai blanda, vanità,
è il caso di tornare al testo di Rino. Vale la pena rilevare
due cose. In primo luogo Rino non nasce come insegnante, ha
una ricca esperienza precedente di lavoro, in particolare ma
non solo nelle ferrovie – come narra in altri suoi scritti,
come in In prima persona. Autobiografia di un anarchico
edito sempre da La Fiaccola. Ciò gli fornisce, a mio
avviso, chiavi di lettura della realtà scolastica diverse,
e secondo me più ricche, di quelle di chi nasce e muore
insegnante.
In secondo luogo, lavora nella scuola a lungo, dalla fine del
1984 alle fine del 2013 ma insegna solo in due scuole, una media
inferiore e un istituto tecnico agrario. Ciò gli permette
di sedimentare le sue esperienze, di guardare l'evoluzione della
situazione e gli effetti della sua educazione come insegnante,
se vogliamo di programmare sul medio periodo la sua attività.
Su questo insiste quando afferma, ad esempio “se più
volte in un anno, o ogni anno, si è costretti a cambiare
posto è difficile che si possa lavorare bene, non essendo
concesso un ragionevole lasso di tempo necessario alla costruzione
di progetti di ampio respiro e a lunga scadenza con gli studenti
con cui si ha a che fare.”
Nel caso di Rino Ermini, quando si afferma “con
gli studenti con cui si ha a che fare” il con vuol
dire qualcosa di preciso e significa fare riferimento allo sforzo
continuo di praticare una pedagogia antigerarchica.
Se guardiamo alla struttura del testo, è interessante
vedere come Rino parta da una valutazione dei collegi docenti,
dalle relazioni fra docenti e dirigenti e poi fra i docenti
stessi, individuandone vari tipi. Ovviamente lo fa criticamente
e nel tentativo di ipotizzare come potrebbero essere in una
situazione diversa. Prosegue con lo stesso approccio quando
tratta dei consigli di classe, delle elezioni dei rappresentanti
dei genitori, della programmazione comune. Uno sforzo di descrivere
la realtà e di immaginarne un possibile superamento.
Vi è, a mio avviso, ovviamente uno scarto quando si parla
di uscite didattiche e viaggi di istruzione non come situazioni
perfette, ma al contrario come occasioni di fuoriuscita dal
grigiore burocratico, dall'istituito, dal previsto, dalla morta
routine. Insomma, oggi, sembrerebbe che gli unici possibili
spazi di libertà siano fuori dall'istituzione scolastica,
come dimostrano i capitoli su scrutini, debiti e crediti, provvedimenti
disciplinari.
Insomma, un universo che ha vissuto processi di innovazione
determinati dalle lotte degli anni '70, ma che ha gradualmente
riassorbito la spinta all'innovazione pur non potendo del tutto
liquidarne le tensioni interne.
In un certo senso, dunque, un diario individuale che parla di
una generazione, delle sue vittorie e delle sue sconfitte e
che cerca di trarne alcuni insegnamenti e alcune proposte.
A mio avviso, non è poca cosa.
Cosimo Scarinzi
Letteratura per l'infanzia/
“Da quando è crollato il ponte”
“Oggi tuttavia non si può soltanto piangere, è tempo di imparare qualcosa.”
(10 ottobre 1963, Tina Merlin)
“Da quando è crollato il ponte” è
una delle espressioni più frequenti negli ultimi tempi
a Genova e non solo. A partire dalle narrazione di quell'evento,
spesso percepito come surreale e impossibile, sino alla rabbia
di esuli e vittime di quel disastro, si indica quel giorno come
un confine, un prima e un dopo, un muro fra ciò che era
e ciò che è. Accanto al ricordo permane ancora
vivo il terrore, il rumore, l'odore di quella “caduta”
accompagnato dalla percezione che la linea netta del “da
quando il ponte è crollato” abbia tragicamente
trasformato la quotidiana esistenza di innumerevoli persone,
ma altresì abbia influenzato l'immaginario comune. Accanto
alla perdita di vite, case, spazi, passaggi che necessitano
di un'urgente e immediata soluzione, si sgretola, più
silenziosamente e senza quasi accorgercene ciò che intendiamo
per “ponte”. Il suo significato e l'immaginario
entro cui lo pensiamo si trasforma.
Cosa
farne ora di questa parola?
Se penso a quei giorni percepisco chiaramente la mia personale
sensazione: lì tutti abbiamo perso molto, forse tutto,
e in quella moltitudine anche ricordi d'infanzia. Quel tempo
in cui i ponti erano qualcosa da inventare, costruire, disegnare,
per far sì che due cose si potessero collegare, unire
e incontrare. Ed è proprio all'infanzia a cui penso,
nominata più volte fra le nostre parole, è proprio
l'infanzia che se n'è andata sotto quelle macerie.
È proprio l'infanzia, quella che resta che piange di
singhiozzi, è proprio l'infanzia quella che guarda con
occhi sgranati ad un qualcosa che prima c'era ed ora non c'è
più, è a quell'infanzia che dobbiamo portare cura
e attenzione.
Mi riferisco all'infanzia dei bambini e delle bambine e l'infanzia
che ognuno di noi tiene a cuore in sé. Di fronte ad essa
si è aperto un vuoto, uno spazio di desolazione, una
rottura da ripensare, ricolorare e comprendere. Quel “mostro
del ponte spezzato” ha cambiato l'orizzonte e il paesaggio
della città in cui prima “il ponte” era immerso,
un paesaggio che è fisico, emotivo, relazionale, concettuale.
Adesso si tratta di prendere per mano l'infanzia condividere
con lei domande e pensieri su quella mostruosità, ma
altrettanto, in questa dolorosa e spaesante resilienza collettiva,
mantenere anche un altro immaginario, quello del ponte come
passaggio, incontro, arco temporale fra un punto e l'altro.
“Così, saltando di pietra in pietra,
i due bambini si incontrarono in mezzo al fiume.
Si guardarono a lungo e sorrisero,
felici di potersi finalmente parlare.”
Il ponte dei bambini
Per fare questo ci corre incontro la narrazione che ci concede,
nel suo racconto, di sperimentare un altro reale immaginario.
Due narrazioni, la prima un albo illustrato scritto da Max Bollinger
e da Štĕpán Zavřel, Il ponte dei bambini
(Bohem Press Italia, Trieste 2008, pp. 32, € 15,00)
e la seconda un romanzo di Aidan Chambers, Quando eravamo
in tre (Rizzoli, Milano 2008, pp. 462, € 17,00).
L'opera di Zavřel e Bollinger è straordinaria perché
parte da un desiderio di libertà che si esprime non soltanto
nella narrazione, ma anche attraverso segni pittorici, poetici
e visionari. Zavřel e Bollinger con il loro “ponte
dorato dei bambini” rappresentano di fronte ai nostri
occhi “pieni di meraviglia di colore e parole semplici”,
l'impegno all'amicizia e alla solidarietà. Un ponte e
dei bambini ci restituiscono un immaginario politicamente necessario.
La sua narrazione ci porta dentro a quel segreto, proprio dell'infanzia,
di cedere il passo “ad altro da sé” proprio
costruendo ponti. Il bambino e la bambina della storia sanno
far scoprire a noi lettori, e ai loro genitori, che ancor prima
di questa “costruzione di ponti” dovrebbero esistere
il desiderio dell'incontro e che questo possa avvenire nella
quotidianità.
È
importante che nel nostro immaginario non si perda questa intenzione.
“Sarebbe un delitto.
Lo capisco, che c'è bisogno di una risistemata, ma
non così.
Voglio dire, questo posto è ricco di storia.
Non ci avevo mai pensato finora.
Centinaia di anni di gente
che ha attraversato il ponte,
milioni di persone probabilmente.”
Aidan Chambers
Quando eravamo in tre di Aidan Chambers, ci porta ad
un'altra storia di ponte, in un luogo pronto ad accoglierci
e ospitarci, un rifugio che darà vita a cambiamenti,
trasformazioni e passaggi.
Il racconto è per un'infanzia da ragazzi e ragazze
e adulta che trova forza nell'affrontare le vicende di Jan,
Tess e Adam e del loro ponte. Tess e Jan ci accompagnano nel
ripercorrere la loro storia. Tutto ha inizio quando, un giorno,
Jan decide di diventare il custode di un ponte per riuscire
così a vivere come un eremita “soltanto per esistere
ed essere se stesso”. Questo lavoro, che appare inizialmente
come insignificante in un luogo sperduto nel nulla, lo conduce
e ci conduce, a prendere contatto con l'idea che un ponte possa
significare molto di più di ciò che s'immagina.
Stare lì da soli a osservare la gente che passa sul ponte,
solo per attraversarlo e non per fermarsi, ne fa emergere la
sua natura più intima. Una paradossale condizione, fermi
nel passare, che ci fa comprendere come un ponte possa essere
non solo qualcosa che si supera, ma qualcosa sul quale possiamo
fermarci, guardare di sotto, guardare al di là, guadare
altrove. Jan ci mostra il guardare al di sotto, a se stessi,
a ciò che abbiamo dentro noi, Tess il guardare al di
là, l'altra riva quella che ci sembra diversa, ma familiare
e Adam è l'altrove, ciò neppure ci sembra di questo
mondo. Il ponte permette di giocare a tutto questo e
avere contatto con la molteplicità. Jan, che ricorda
Janus, dio dei ponti, delle porte, dei passaggi e degli archivolti,
colui che ha facce e vede di qua e di là. Adam, l'inatteso,
l'errante. Tess la custode antica.
Chambers con una scrittura limpida, decisa e schietta ci fa
sapere cosa vuol dire “vivere su un ponte” con il
suo profondo richiamo che unisce le cose separate. Jan, Adam
Tess ci suggeriscono che ogni cosa va dotata di significato
e niente succede e basta. Ci aiutano a risignificare “un
ponte crollato” con un “ponte vissuto e abitato”;
ci ricordano anche, attraverso un racconto di Kafka, che il
“ponte dei legami” si sorregge solo se chi si affida
ad esso è sorretto nella reciprocità.
Come dicono Adam e Tess i ponti uniscono cose che altrimenti
non si incontrerebbero, consentono di attraversare, di andare
da una parte all'altra. In tutte e due le direzioni. Che sono
muri con un buco in mezzo. Che le cose e le persone ci passano
sopra e sotto. Che sono luoghi dove la gente s'incontra, dove
si rifugia, dove si affaccia a guardare cosa c'è sotto.
Da dove si pesca, si gioca ai bastoncini di Pooh, e a volte
si deve pagare per passare. E da dove a volte ci si butta.
The toll bridge, titolo originale del romanzo, fa comprendere
che a volte “il prezzo che si può pagare per passare
un ponte” è intollerabile.
Adam, Jan e Tess sono la custode e i custodi dell'immaginario
del ponte e lo difendono da quegli usurpatori e parassiti
che lo intendono vendere, e per farlo essere ciò che
non è. Grazie a quel tempo passato sul ponte, e non solo
attraverso il ponte, comprendiamo che non possiamo essere utenti
di ponti, occupatori di ponti, sfruttatori di ponti, assassini
di ponti, perdiponti, ma solo custodi di ciò essi
sono e ci fanno pensare di essere: le pietre che nel formare
insieme l'arco colmano vuoti.
Come ci sorprende, nella nebbia, il ponte di De Conno nel suo
Buon viaggio e come ci accompagna Beatrice Masini
attraverso le sue parole “quando cammini per conto
tuo e stai bene così. E quando incontri qualcuno e ti
accorgi che stai bene anche così, con qualcuno”,
ci sorprenderà e accompagnerà al tempo stesso
la lettura di queste pagine forti, tenere e fitte di densità
di esistenze.
Tutti lì vicino, possiamo attraversare e sostare ponti,
anche quelli che fanno paura.
Andare incontro a mondi che non conosciamo e camminare sui passi
di montagna, ponti naturali, con il naso all'insù lottando
così, insieme, contro mostri e le mostruosità.
Silvia Bevilacqua
Donne/
C'è vita oltre il matrimonio, il convento, il bordello
Mi sembra che tutti quelli che osano ribellarsi, in qualsiasi epoca, siano proprio quelli che rendono la vita possibile: sono i ribelli che spostano in avanti i confini dei diritti, passo dopo passo.
Natalie Clifford Barney
Un luogo comune non ancora completamente estinto è quello
che vede la figura della donna realizzarsi principalmente nel
ruolo di moglie e madre. Luogo comune così radicato nell'intimità
costitutiva, che ancora oggi per molte di noi pare non esista
una piena libertà di scelta, esente da condizionamenti,
interamente liberata dalla rappresentazione maschile del mondo.
Il
libro di Valeria Palumbo Piuttosto m'affogherei. Storia vertiginosa
delle zitelle (edizioni Enciclopedia delle donne, Milano
2018, pp. 284, € 16,00) ci accompagna attraverso la complessa
vicenda di quelle donne che, in epoche diverse, quindi con modalità
e stratagemmi differenti, hanno provato a non camminare lungo
un percorso già stabilito, e si domanda: Davvero era
stato impossibile, in passato, nelle società occidentali,
non scegliere tra matrimonio, convento e bordello? (...) Non
era probabile che ci fosse stata qualcuna che, in barba alle
norme che impedivano, di fatto, a una donna di muoversi in libertà
fuori di casa e di mantenersi con il suo lavoro, avesse comunque
voluto scegliere la solitudine? E che nesso c'era tra questa
scelta e la castità o l'inclinazione sessuale? Si erano
battute per la “singletudine” soltanto lesbiche
e sessuofobiche? (...) Infine, che relazione c'era tra certe
forme di aggregazione religiosa delle donne, tra certi cenacoli
di artiste, che magari sorgevano all'ombra del convento, e la
scelta di non sposarsi?
Sappiamo bene che proprio sull'intreccio costituito tra verginità,
maternità e matrimonio si è formato gran parte
del controllo sociale su noi donne e che la chiesa cattolica
ha ulteriormente calcato la mano facendo passare per buona l'idea
di una vergine/madre fornendo così un “modello
impossibile” da raggiungere e dalle conseguenze devastanti.
Cercando di dipanare proprio questo intricato rapporto, e mostrandone
in maniera documentata le molteplici varianti, prende forma
un libro che ha il grande pregio di riuscire ad affrontare temi
corposi con leggerezza e spirito ironico, così da farne
una piacevole lettura. Di certo è un testo dal quale
partire per sviluppare ulteriori approfondimenti e la ricchissima
bibliografia che chiude il volume ci suggerisce proprio questa
opportunità. Ciò che sembra superato per sempre
a volte può ripresentarsi con sembianze anche peggiori
e i nostri tempi, in questo senso, sono pieni di inquietudine.
Conoscere il passato è sempre importante per non farsi
prendere alla sprovvista e senza strumenti di difesa.
Si parte dai miti e si arriva alla storia moderna, da quando
Artemide ottenne dal padre Zeus di restare vergine e non doversi
mai sposare, fino all'anarchica pensatrice statunitense Voltairine
de Cleyre (contemporanea di Emma Goldman – nata nel 1866
la prima e nel 1869 la seconda – che sbadatamente non
viene citata) che nel 1890 fece una spietata e lucida analisi
del matrimonio (Sex Slavery, conferenza tenuta nel 1890
e pubblicata postuma nel 1914 nel volume Selected Work
e ora disponibile sul web). Nella conferenza attaccava le leggi
dell'epoca che rendevano, di fatto, il marito proprietario della
moglie, dei suoi beni e dei figli, mostrando così l'ipocrisia
di un sistema legale e morale che incatenava le donne, permettendo
ogni cosa agli uomini, e invitava le donne a ribellarsi anche
se non tutte, purtroppo, furono d'accordo con lei.
All'interno della lunga carrellata di personaggi che si conclude
intorno alla metà del secolo scorso, gli spunti interessanti
sono davvero molti; ricordo i movimenti penitenziali femminili
sorti intorno al tredicesimo secolo, quelle comunità
chiamate delle beghine che si organizzavano in piccoli
monasteri autonomi, fuori dalle mura delle città, vivendo
come monache, studiando e discutendo di religione, ma senza
alcuna regola imposta poiché intuivano come questo avrebbe
immediatamente innescato lotte di potere.
Il medioevo fu un periodo in cui una gran schiera di figure
femminili si piazzarono lungo quei margini che mischiavano i
confini tra devozione, misticismo e stregoneria e che meriterebbe
ben più di un capitolo. Allo stesso modo come non desiderare
di andare più a fondo nella conoscenza di tutte quelle
scrittrici nubili, vissute tra Settecento e Ottocento quali
Jane Austen, Charlotte Brontë, George Sand, Louisa May
Alcott, Emily Dickinson, ciascuna di loro una porta che si apre
rivelando, insieme a mondi interiori, la cultura dell'epoca
che le vide protagoniste. E lo stesso vale per le scrittrici
del Novecento – una fra tutte la grande Virginia Woolf
– che nei loro romanzi raccontano un mondo che la scrittura
maschile aveva frainteso o addirittura ignorato, quello delle
donne non sposate viste come figure autentiche – non le
caricature descritte nei romanzi maschili –, personaggi
tormentati, che fanno fatica a confrontarsi col loro tempo,
i loro desideri e anche i loro stessi pregiudizi.
Si arriva alle ultime pagine avendo acquisito la consapevolezza
di quante furono quelle – anche se poche in senso assoluto
– che nei secoli cercarono di trovare modi per sopravvivere
all'emarginazione, alla violenza, per dare un po' di respiro
alle loro vite altrimenti soffocate.
Oggi non possiamo più accontentarci e per questo è
fondamentale non abbassare la guardia, soprattutto di fronte
ai biechi tentativi in atto di cancellare i diritti che ci permettono
di scegliere e decidere della nostra vita. Prendiamo esempio,
non dimentichiamo: potrebbe essere la funzione di questo libro.
Silvia Papi
Dal 68 al 78/
Un filmato sulla partecipazione di massa
Il
terrorismo, le stragi di Stato ne fecero un decennio terribile,
ferito, ma è altrettanto vero che, come dice Silvano
Agosti nel presentare il suo docu-film Ora e sempre: riprendiamoci
la vita: “In futuro, se ci sarà uno storico
onesto, sentirà come legittima la necessità di
avvicinare i dieci anni trascorsi dal 1968 al 1978 ai grandi
eventi che hanno saputo cambiare il mondo come la rivoluzione
francese e la rivoluzione russa”.
Dedicato all'ex-leader di “Lotta Continua” ammazzato
dalla mafia trent'anni fa, Mauro Rostagno, e a tutti quelli
come lui che hanno lottato per un mondo migliore, Ora e sempre
è un inappuntabile montaggio di immagini (in un bianco-nero
ripulito) girate in quei dieci anni da Agosti con lo spirito
di un documentarista di strada molto zavattiniano.
Un filmare, il suo, che vuole imprimere un metodo, tracciare
un segno di partecipazione attiva alle lotte politiche di quel
tempo. Ora e sempre non è ricordo, ma un rivisitare,
un lavoro di prospettiva e niente affatto di circostanza, uno
squarcio su scampoli di cronaca che hanno segnato in profondo
il nostro Paese.
Le immagini di Agosti sono forti, riprendono una sorprendente
agitazione di massa, scorrono sui cortei degli studenti contro
“la scuola dei padroni”, sulle esequie dei braccianti
ammazzati ad Avola dalla polizia, sulla folla smarrita dopo
le stragi di piazza Fontana a Milano e di piazza Della Loggia
a Brescia, sui comizi sindacali dove dal palco un passionale
Bruno Trentin sprona “alla lotta di massa lunga e inesorabile
fino alla vittoria”, sulle famiglie che difendono il diritto
alla casa, sulle assemblee degli operai delle officine Fiat,
su Alberto Moravia che grida “abbiamo perso un poeta”
ai funerali di Pasolini, sulle istantanee del rapimento di Aldo
Moro.
Incastrate tra uno spezzone di immagini d'archivio e l'altro,
ci sono poi le voci di Bernardo Bertolucci, Paolo Pietrangeli,
Mario Capanna, Massimo Cacciari, Franca Rame (che evoca lo stupro
subito), Nuto Revelli, Alberto Grifi, Pietro Valpreda. Le loro
testimonianze completano il manifesto di una forza, di un'energia,
di un miracolo che rese corpo unico e meraviglioso quel movimento
collettivo di protesta che voleva la fine dei poteri precostituiti
per (ri)prendersi seriamente la vita.
Presentato all'ultimo Festval di Locarno e ora nelle sale, il
film di Agosti (regista rimasto sempre ostile alle logiche del
cinema industriale) è uno “Stabat Mater”
per tutti quelli che lottarono e perirono sul campo, una meditazione
su un decennio di straordinaria partecipazione di massa, su
un inaudito coinvolgimento alla politica, alla vita civile,
che oggi ce lo possiamo solo sognare.
Mimmo Mastrangelo
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