politiche demografiche
Figli per la patria
di Francesca Palazzi Arduini
Molte dittature hanno legato il discorso della razza a quello demografico, limitando i diritti delle donne. E anche oggi in Italia e nei paesi dell'Est Europa...
Si è costituito nel settembre
di quest'anno un gruppo che si definisce innanzitutto “cattolico”
e che vanta 150 parlamentari tra Lega, Forza Italia, M5S e altri.
Il loro motto è “Vita, famiglia e libertà”,
ma su quest'ultima ci sarebbe molto da ridire, oltre che sui
primi due termini. È una lobby di stampo misogino, classe
dirigente del “popolo” del Family Day, in realtà
una minoranza, mai presenziata finora dal politico Bergoglio1,
che tra parrocchia e bar sport riesce a mettere assieme: padri
separati, mariti delusi, mogli premiate, preti imbestialiti,
nostalgici del Duce, visionari della razza, uomini che odiano
le donne...
Spicca tra questi scalmanati della riscossa il braccio destro
del medico Gandolfini (“Difendiamo i nostri figli”),
l'avvocato Pillon, che su L'Espresso viene definito “concrezione
avvocatesca in cui l'ansia declaratoria di un Domenico Scilipoti
si agglutina con la determinazione al cilicio di una Paola Binetti.”2
Il disegno Pillon
La strategia del “depotenziare” le leggi sgradite
tramite la loro disapplicazione è già nota per
la Legge 194 su gravidanza e sua interruzione, ma l'ulteriore
passo di questa armata Brancaleone è stato pretenzioso:
demolire l'attuale normativa sul divorzio, allungandone i tempi
e soprattutto inserendo all'interno del giudizio una serie di
figure aggiuntive atte a sanzionare le donne e i bambini, se
necessario, che non intendono accettare un affido genitoriale
assolutamente paritario, astrattamente definito.
Nel
nostro Paese, per il retaggio di sopraffazione, violenza, sessismo
che spesso è la ragione stessa del divorzio, imporre
una parità a priori nella genitorialità non è
solo autoritarismo ma sopruso, un non riconoscimento della realtà
della vita familiare.
L'avvocato Pillon e gli estensori del disegno di legge presentato
al Senato (“Norme in materia di affido condiviso, mantenimento
diretto e garanzia di bigenitorialità”) si sono
inventati una parità nelle condizioni psicologiche e
salariali tra padri e madri, che di fatto schiaccia le donne
facendole tornare ad una condizione di ricatto totale, con l'imposizione
della “bigenitorialità perfetta e l'obbligo di
dividere a metà il tempo da passare coi figli, e niente
assegni di mantenimento”.
Per questo, agli inizi di settembre, D.i.Re – la rete
nazionale che unisce oltre cento centri antiviolenza e case
rifugio – ha lanciato una petizione contro il disegno
di legge ed è subito iniziata la mobilitazione mentre
il disegno è in Commissione. Altra cosa più grave
è l'orecchio del Parlamento sordo alle accuse, giustificatissime,
di interesse privato del Pillon nella proposizione di questo
disegno di legge, che prevede come obbligatoria e a pagamento
la figura del Mediatore familiare, il cui compito sarebbe quello
di ridisegnare l'assetto dei divorziati in merito alla gestione
dei figli. Pillon è un mediatore familiare e sul suo
sito professionale si vanta delle tante opportunità che
darà alla sua categoria il disegno “in corso di
approvazione”!
Il fascismo e la questione demografica
Il preambolo del disegno di legge richiama inoltre alle leggi
di altri Paesi, lamentando che altrove esiste un maggiore tasso
di affidi condivisi... ma certo non richiamerebbe la maggiore
densità di coppie omogenitoriali presenti nell'Europa
civile! Gli estensori citano la Convenzione per i diritti del
fanciullo per comprovare, dicono, l'universalità del
loro disegno... ma nella Convenzione non si fa cenno alla bigenitorialità
perfetta e tantomeno vi si obbliga.3
La strategia volta a legare le donne a un iter più lungo
e meno garantista per il divorzio, affiancata a quella di depotenziamento
del diritto ad abortire e a usare una contraccezione valida
non può ignorare la questione demografica, cavallo di
battaglia delle paure razziste di “inquinamento”
della stirpe italiana. Una paura e un bisogno di controllo sulla
stirpe che è antica quanto il Patriarcato.
La preoccupazione per un'Italia non più “bianca”
si lega alla difesa della razza di memoria fascista. Comunità
chiuse, provinciali o rurali, in decadimento, sono il combustibile
per paure millenarie di sopraffazione, invasione, che rinascono
e cementano società vittime di un degrado endemico.
Citiamo la filosofa Monia Andreani, la quale ricorda come una
certa eugenetica, di ispirazione cattolica e fascista, fosse
avversa a pratiche di sterilizzazione... e ancor più
a quei genetisti che auspicavano il “perfezionamento genetico”
tramite gli incroci razziali. Tutti, già dagli anni Venti,
vogliono “proteggere il genio della specie dal germe insidioso
della decadenza – successivamente chiamata disgenìa”.
Per i fascisti, e anche per altri/e, il problema del controllo demografico e della qualità dell'allevare i figli si pone come scambio tra concessioni statali alle donne (La Cassa di maternità per le lavoratrici) e garanzia delle donne di continuare il ruolo di cura della casa e della prole.4
Dalla nascita della Lega Nord in Italia il discorso sulla razza
si lega di nuovo a quello sulla demografia, riunendo a tavola
il cattolicesimo integralista e non-ospitale con il razzismo
di fondo della Lega e il neofascismo. Lo testimonia il libro
scritto a due mani da Ettore Gotti Tedeschi (ex Ior, la banca
vaticana) e dal leghista Lorenzo Fontana (ministro alla famiglia
e alla disabilità) La culla vuota della civiltà.
All'origine della crisi.
Il testo, presentato l'aprile scorso, riscrive una teoria del
capitalismo patriarcale e cattolico basato sulla convinzione
che “la crisi demografica è la vera origine della
crisi economica perché ha prodotto calo del Pil, consumismo,
corsa al ribasso dei costi di produzione, delocalizzazioni”.
La demografia viene interpretata per riaffermare la necessità
di un ritorno ad un capitalismo “buono”, che produca
in loco e offra pacchi dono alle famiglie numerose (o terreni
in comodato a chi figlia), e ad un orientamento politico che
trovi una soluzione al “calo di fertilità”
occidentale, tramite il ritorno a canoni tradizionali di coppia
eterosessuale con almeno due figli. Nascite sì, discriminando
però pesantemente le famiglie mono-genitoriali e quelle
omosessuali, vietando il ricorso alla medicina per il superamento
dell'infertilità o per l'inseminazione alle eterosessuali
non sposate e alle donne lesbiche.5
Le politiche familiari del gruppo di Visegrad
Il pensiero sulla demografia, dai manifesti pro-Vita del Cav
a quelli della ex ministra Lorenzin, al controllo preteso da
Salvini sui matrimoni “veri”, è vario e contraddittorio;
ma attualmente il governo Lega-M5S si ispira alla politica “sovranista”
e xenofoba del cosiddetto gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria,
Repubblica Ceca e Slovacchia) costituitosi nel 1991. Quali siano
le politiche demografiche in questi paesi ce lo spiega il prof.
Gianni Cimbalo, responsabile del Licodu, l'organismo di studio
inter-universitario che si occupa di libertà di coscienza
e diritti umani.
In
un suo recente saggio, Strategie sovraniste e politiche familiari
nell'Est Europa, Cimbalo delinea meticolosamente gli ordinamenti
in materia sia negli stati ora acquisiti dalla UE (Bulgaria,
Croazia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca,
Romania, Slovacchia, Slovenia, Ungheria) sia in alcuni di quelli
candidati (Albania, Repubblica di Macedonia, Montenegro, Serbia,
Bosnia Erzegovina, Kosovo, Turchia), sottolineando e provando
il legame tra politiche demografiche, esigenze di controllo
sociale e programmazione economica.6
Dopo la dissoluzione del blocco sovietico a partire dal 1989,
fa notare Cimbalo, l'emigrazione di massa, poi divenuta stanziale,
ha portato nei 16 Paesi ex socialisti ad una riduzione di circa
l'11% della popolazione negli anni tra il 1991 e il 2000, decremento
attuatosi anche nei paesi della ex Jugoslavia a causa del conflitto
intercorso. Il comportamento schizoide del gruppo di Visegrad
è simile a quello di altri di questi Paesi, nei quali,
scrive Cimbalo: “Da un lato si coltivava e si cercava
l'identità territoriale anche attraverso la pulizia etnica
(...) si ergevano frontiere a difesa di queste identità
(...) per poi richiedere di aderire all'Unione Europea, come
obiettivo ambito e soluzione possibile di uscire dalla crisi
economica”.
In questo contesto di migrazione, impoverimento e disorientamento,
le politiche ottuse e xenofobe di respingimento dei migranti
sono adottate anche per evitare “la rinascita di enclave
etnico-religiose respinte appena pochi anni prima a costo di
guerre interetniche e interreligiose”.
Il controllo del territorio e della natalità resta quindi
il leitmotiv patriarcale sia in guerra che in pace. Le
politiche sovietiche di attenzione ai diritti della “donna-lavoratrice”
ma anche per single e disoccupate (l'aborto legale fu introdotto
nella Russia sovietica nel 1920), mutano a seconda delle esigenze
demografiche: l'aborto fu infatti di nuovo vietato nel 1926,
per poi divenire a pagamento nel 1930, ed essere permesso dal
1936 solo in caso di pericolo per la salute della donna. Solo
dal 1955 in poi la legislazione tornò a permettere l'aborto
legale nelle strutture pubbliche su richiesta della donna, per
essere di nuovo sottoposto ad ordinanza (intervento dissuasivo
di psicologi e assistenti sociali) dal 1987.
Come per magia le politiche demografiche si ammantano all'occorrenza
di regole restrittive e di controllo.
A fare marcia indietro inizia la Polonia, Paese a matrice cattolica,
nel 1993, restringendo il diritto all'aborto solo nei casi di
pericolo per la salute della donna.
Così anche l'Ungheria ha sottoposto di nuovo l'interruzione
di gravidanza a norme fortemente restrittive, dal 1992, e stabilisce
un'impegnativa politica di sussidio pubblico ai nuovi nati,
che ha fatto crescere nel 2014 del 3,2% le nascite rispetto
agli anni precedenti, anche se l'esodo dal Paese continua senza
sosta.
Repubblica Ceca e Slovacchia hanno invece una legislazione un
po' più garantista per le donne, anche se nel 1986 la
Slovacchia ha legiferato per una maggiore discrezionalità
del medico nelle procedure di interruzione di gravidanza, e
nel 2018 è stata presentata una proposta di legge fortemente
restrittiva. Ciascuno di questi Paesi riafferma comunque l'intenzione
di controllo patriarcale sul feto e sulla gravidanza, prevedendo
nei propri ordinamenti la protezione della vita a partire dal
concepimento.
Oltre al blocco di Visegrad, altri Paesi, quali Estonia, Lettonia,
Lituania, hanno messo mano alla legislazione nel vano tentativo
di porre un freno al decremento della popolazione causato dall'emigrazione,
imponendo alle donne maggiori restrizioni all'aborto. La Lituania,
paese a maggioranza cattolica, ha sostituito la legge che prevedeva
il diritto all'aborto (1982) con la clausola standard del diritto
solo in caso di minaccia per la vita della donna (1994). La
Lettonia ha fatto lo stesso nel 2003 e 2007, aumentando a dismisura
l'autorità e il giudizio del medico nel ricorso all'interruzione
di gravidanza. La Bulgaria, che come la Romania aveva mutuato
la legislazione sovietica sull'aborto, nel 1972 (sempre con
pretesa di controllo demografico) introduce un decreto, poi
ritirato, che vieta di abortire alle donne sposate senza figli
o con un solo figlio.
Sempre per motivi di controllo demografico, in Romania col leader
Ceauescu si introdusse una pesante norma che limitava sia il
ricorso all'aborto sia quello alla contraccezione, poiché
si opponevano “ai valori tradizionali della famiglia”.
Scrive Cimbalo: “Il feto è proprietà dell'intera
società. (...) Le donne con meno di 45 anni venivano
convocate sul posto di lavoro ed esaminate per riscontrare eventuali
segni di gravidanza dalla cosiddetta polizia mestruale”.
Il tasso di fertilità però, dopo una repentina
crescita, calò di nuovo drasticamente per effetto dell'alto
numero di aborti clandestini; si stima che tra il 1966 e il
1989 diecimila donne siano decedute per questo. Con la sua politica
demografica il regime causò anche la piaga degli orfanotrofi-lager.
Alla sua caduta il divieto di aborto fu tra le prime norme ad
essere abrogate.
Aborto e patriarcato nei Balcani
Il legame tra normativa su aborto, contraccezione e patriarcato
risalta egualmente nei Balcani occidentali. L'Albania, sottolinea
Cimbalo, è segnalata da uno studio congiunto UNFPA e
World Vision come il primo paese nei Balcani, seguito da Macedonia
nordoccidentale, Montenegro e Kosovo, per numero di aborti selettivi
praticati per evitare la nascita di donne, a causa di una visione
“clanica” della famiglia, nella quale la sopravvivenza
del nome familiare è legata alla discendenza maschile.
Legalizzando l'aborto nel 1952, e con altri provvedimenti, la
Repubblica Federale Jugoslava ridusse negli anni quasi del tutto
gli aborti clandestini. Con la Costituzione del 1974 la Jugoslavia
divenne uno dei soli tre paesi al mondo che includeva nella
Carta i diritti riproduttivi.
Dopo la dissoluzione della Federazione, negli stati della diaspora
sono rimasti orientamenti giuridici volti a legalizzare e regolamentare
l'aborto entro le prime dieci settimane dal concepimento. Scrive
Cimbalo che in Bosnia, Erzegovina e Croazia “ogni dibattito
e iniziativa di revisione della legge in materia di aborto è
congelato a causa delle violenze perpetrate sulle donne durante
il conflitto”. Questo ha portato a rigettare le ripetute
richieste di abrogazione e modifica avanzate da movimenti antiabortisti
e dalla Chiesa cattolica croata.
Che le politiche demografiche siano legate a fattori economici
ma anche alle esigenze del patriarcato è indubbio; nel
momento in cui questi stimoli identitari prevalgono, gli stessi
scambi economici, culturali, e commerciali diventano un “pericolo”
e ispirano un'ideologia sovranista per la quale la “globalizzazione”
è veicolo di contagio e di erosione del potere demiurgico
maschile sui numeri della nazione.
Francesca Palazzi Arduini
- 10 ottobre 2018, all'udienza generale, Bergoglio definisce l'aborto un “ricorrere
a un sicario per risolvere un problema”, legando simbolicamente
il favore cattolico al diritto all'accoglienza al divieto
cattolico di aborto terapeutico. Il problema resta che il
corpo della donna è un luogo pubblico, e che la vita
viene considerata dotata di individualità sin dal concepimento.
- Susanna Turco, L'Espresso online, 25 settembre, “Il DDL Pillon e la strategia per svuotare i diritti”.
Su Pillon “A-Rivista Anarchica” aveva già
pubblicato “Prendersi
cura è anche Lgbt” (“A” 413,
febbraio 2017), considerazioni su una sua conferenza anti
“gender”.
- “Principio sesto: il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità ha bisogno di amore e di comprensione. Egli deve, per quanto è possibile, crescere sotto le cure e la responsabilità dei genitori e, in ogni caso, in atmosfera d'affetto e di sicurezza materiale e morale. Salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separato dalla madre”.
- Ricorda Andreani: “Nel 1925 viene istituita l'ONMI come ente che divenne nel 1933 organo del ministero dell'Interno (guidato da Mussolini) con il compito di promuovere l'allattamento materno e le buone pratiche della relazione di cura nei primi mesi della vita dei figli”. “L'ideologia più virilista è quella che riesce a dare un ruolo collettivo e di massa alle donne in campagna e in città attraverso il ruolo materno e l'investimento assistenziale”.
- Secondo una recente ordinanza (Tribunale di Pordenone, luglio 2018), il divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita per le coppie di donne sarebbe in contrasto, in particolare, con l'articolo 2 della Cost., poiché tale esclusione non garantisce il diritto fondamentale alla genitorialità (consistente nell'aspirazione ad avere un figlio) dell'individuo sia come singolo sia nelle formazioni sociali (biodiritto.org, 2 luglio 2018).
- www.licodu.cois.it.
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