Rivista Anarchica Online





Dietro il turismo sciistico, un mondo

Ora che è inverno abito, senza volerlo, su una pista da sci. Continuo a sostenere di non averlo scelto io, nel senso che avevo preso una baita per l'estate tra i boschi e i pascoli dei 1800 metri, e solo dopo mi è venuto il desiderio di restare lassù tutto l'anno. Allora ho scoperto che cosa diventava quel mio pascolo con la neve. Ho cominciato a capire il lavoro che c'è dietro una pista da sci, quello che si svolge quando gli sciatori non ci sono. Poi ho visto arrivare loro: volpi, lepri e caprioli per tre mesi all'anno scompaiono, e al loro posto gli esseri umani sfrecciano davanti a casa dalle nove di mattina alle cinque di pomeriggio; se la neve è abbondante usano perfino il tetto per fare il salto.

Mi piacciono i lavoratori della neve

Gli sciatori non mi piacciono – arrivano in massa dalla città, capiscono poco del paesaggio che attraversano, usano la montagna come un supermercato, dove il prodotto è il divertimento che comprano coi loro soldi – però mi piacciono i lavoratori della neve.
Sono i miei amici montanari. Uno d'estate fa il muratore, un altro sale con le mucche in alpeggio, un altro ancora è un artigiano: in inverno diventano gattista, addetto all'innevamento programmato, operatore di rinvio. Sono stati i loro nonni a scoprire che la neve, fino ad allora un ostacolo alla misera economia di montagna, poteva rivelarsi una risorsa.
D'inverno prima si emigrava, o ci si chiudeva in casa ad aspettare primavera; poi si è capito che i cittadini andavano matti per questo gioco che è scivolare giù dai pendii innevati, e a prepararglieli bene, in modo che non facessero fatica e non corressero pericoli, avrebbero portato soldi e lavoro. Tanto che oggi è quella, l'economia di montagna, l'unica ragione per cui i montanari non sono andati via tutti. Ho riletto da poco Il mondo dei vinti, l'inchiesta con cui Nuto Revelli indagava, nei primi anni Settanta, l'estinzione della civiltà alpina: i giovani scappavano in pianura per lavorare in fabbrica, i vecchi testimoniavano un mondo che di lì a poco non sarebbe esistito più.
Così, per quanto gli sciatori non mi piacciano, e mi rattristi vedere la montagna ridotta a prodotto di consumo, devo riconoscere che soltanto lo sci ha arginato quell'esodo. Un amico mi racconta di come è cominciato dalle nostre parti: suo padre e due cugini si misero insieme, disboscarono un terreno che fino a quel momento non rendeva che legna da ardere, fecero costruire uno skilift. Fu l'occasione per portare al villaggio la corrente elettrica, prima non c'era nemmeno quella. I tre soci improvvisati erano pastori, contadini e muratori come tutti quassù, non pensavano di trovare l'oro bianco, solo di fare qualche soldo con un gancio a motore e un pendio. Non sono passati quarant'anni da allora.
In questo tempo il lavoro della neve si è trasformato in un'industria. Lo sci mantiene intere comunità e non può dipendere dalle incertezze del meteo, dagli scherzi del cambiamento climatico, dagli inverni tardivi o di poca neve. Ecco perché a monte della pista vengono costruite grandi vasche interrate, a volte delle dimensioni di bacini artificiali. Per riempire questi nuovi laghi di montagna, scavati dalle ruspe durante l'estate, spesso i torrenti d'alta quota non bastano: allora l'acqua viene pompata dal basso, contro la forza di gravità e la montagna, fatta risalire per centinaia di metri dai fiumi di fondovalle. Dalle vasche, una rete di condutture sotterranee porta l'acqua ai cannoni, che non sono miracolose macchine della neve, solo potenti spruzzatori. Una miscela di acqua e aria, sparata in cielo quando la temperatura è abbastanza bassa (sotto i -4°C), diventa quella polvere di ghiaccio a cui gli sciatori ormai sono abituati, e che chiamano neve.
Così ogni sera il mio amico cannoniere va su e giù per la pista con la motoslitta, a controllare che i cannoni stiano lavorando bene. Ciascuno illuminato da un faro punteggiano la montagna, e il loro rumore di compressori è ciò che abbiamo nelle orecchie mentre, sul balcone di casa, dividiamo un bicchiere.

Brusson (Aosta) - In primo piano, la baita di Paolo Cognetti
il cui tetto viene usato dagli sciatori come trampolino

Adesso la pista è pronta

Poi quella neve, che si accumula in gobbe davanti ai cannoni, va tirata lungo la pista come fosse asfalto su una strada. Allora entrano in azione i gattisti, che fanno su e giù per il resto della notte. Il gatto delle nevi è un bulldozer in grado di risalire le pendenze più elevate, di lavorare a trenta gradi sotto zero o nella bufera; il suo compito è quello di spianare i cumuli creati dai cannoni o dal vento, riempire le buche, compattare la neve fresca, insomma preparare la bella pista liscia che gli sciatori troveranno la mattina.
I gattisti sono i miei preferiti, sono gente silenziosa e solitaria, non hanno l'abbronzatura dei maestri di sci ma le facce tirate e pallide dei lavoratori della notte.
La mattina presto arrivano i pisteur, che passano quando l'impianto è ancora chiuso e allestiscono la pista di tutto quello che serve, e che era stato tolto la sera prima. Usano trapani a batteria per piantare pali nel ghiaccio, sistemano le reti di sicurezza, rimettono cartelli e segnali. Poi salgono gli operatori di rinvio, ovvero chi sta alla partenza e all'arrivo degli impianti, quello che ti infila il piattello dello skilift sotto il sedere, quello che ti dà una mano a scendere dalla seggiovia: sono gli operai non specializzati, gli ultimi assunti, quelli pagati meno. Anche loro mi piacciono (infatti prima dell'assunzione devono fare un esame del sangue, per dimostrare di non essere alcolisti). Adesso la pista è pronta ad aprire: arrivano i maestri di sci con le loro file di bambini al seguito, arrivano gli sciatori. Aggiungete i bigliettai, i noleggiatori di materiale, chi lavora nei bar e ristoranti ai piedi delle piste: così lo sci mantiene tutti i miei amici montanari.
Più in alto di tutti c'è l'amministratore delegato, che non è un mio amico. Un po' più in basso di lui il direttore di pista, che invece lo è: è una guida alpina con cui sono andato in Nepal e ho scoperto che di rado, in inverno, dorme sonni tranquilli, perché se succede qualcosa in pista è sempre colpa sua. È lui l'organizzatore generale, lui a decidere se un impianto può aprire o no, sempre lui a sovrintendere la sicurezza. Che vuol dire, per esempio, chiudere in caso di troppo vento o di rischio valanghe; ma chiudere in una domenica d'inverno per un grande comprensorio significa perdere milioni di euro, ecco perché, invece che attenderle, le valanghe si preferisce provocarle, farle venir giù quando non c'è nessuno.
Così, dopo ogni grossa nevicata, il mio amico sale in motoslitta o in elicottero a monte della potenziale valanga (le valanghe cadono sempre negli stessi posti, lui le conosce una per una). Fa le sue analisi e valutazioni del rischio e, se è il caso, decide di piazzare una carica di esplosivo (il che richiede un deposito specifico, il permesso della questura, trasporti e addetti specializzati). Bum!: la valanga viene giù, il pendio scaricato dalla neve è messo in sicurezza, la pista può essere preparata e aprire alle nove in punto, i milioni di euro sono salvi.
La domenica mattina una fila di auto risale i tornanti della valle, arrivano gli sciatori. Si calcola che tra abbonamento giornaliero, noleggio materiale, pasti e bevande, portino almeno cento euro ciascuno in questo mondo dei vinti, da dove i miei amici, grazie a loro, non sono andati via.

La prima tenera erba

È lavoro, economia, vita degli uomini. Lo capisco. Eppure, chissà perché, non vedo l'ora che tutto sia finito, che arrivi quell'ultima domenica di marzo, che la ruota della seggiovia giri un'ultima volta e poi si fermi, i cannoni tacciano, i gatti delle nevi imbocchino la porta dei garage. Allora il gattista tornerà un muratore, il cannoniere un idraulico, l'operaio un pastore. La pista diventerà una lingua ghiacciata lasciata a sciogliersi, per essere stata molto pressata resterà fino a maggio nelle zone in ombra, uno strano zoccolo grigiastro in mezzo al pascolo, tra la prima erba tenera che i caprioli usciranno dal bosco a brucare.

Paolo Cognetti