migranti/2
Perché vengono tutti qui da noi
di Renzo Sabatini
Non c'è nulla di più ipocrita dello slogan “aiutiamoli a casa loro”. Decenni di “aiuti” avvelenati hanno impoverito il sud del mondo. Smettiamo di “aiutarli” e lottiamo per rendere i rapporti economici mondiali equi e liberi.
Cara gente bianca, nessuno vi chiede di scusarvi
per quello che hanno fatto i vostri antenati.
Vi si chiede piuttosto di smantellare il sistema di oppressione
che essi costruirono, che voi mantenete e del quale, ancora,
beneficiate.
(giovane attivista indigena in occasione dell'Australia Day,
gennaio 2018)
Rifugiati politici, migranti economici, sfollati, profughi di guerra, rifugiati climatici: abbiamo perfezionato l'arte di classificare gli esseri umani in viaggio, allo stesso modo in cui gli esploratori dei secoli scorsi catalogavano piante e insetti in ogni terra nuova attraversata dalla modernità. Siamo gli entomologi dell'umanità migrante.
Oggi il destino di chi arriva in Occidente in cerca di una vita nuova dipende dalla categoria nella quale sarà frettolosamente inserito all'arrivo. Chi è partito per cercare migliori opportunità, come hanno fatto gli italiani nel corso di quasi tutta la loro storia, finisce nel novero dei cosiddetti migranti economici. Per loro è previsto il rimpatrio immediato, come è accaduto ad un gruppo di cittadini del Bangladesh sbarcati a Malta dopo una traversata perigliosa: separati dal resto dei naviganti, sono stati rimandati a casa in fretta. Nel loro paese non c'è la guerra, quindi non hanno diritto di venire in Europa. La pacchia è finita.
In Italia i migranti economici li abbiamo fatti entrare fino a che ne abbiamo avuto bisogno, negli anni ottanta e novanta. Erano in genere irregolari, perché arrivare con le carte giuste era quasi impossibile. Per la maggior parte si inserivano rapidamente nel mercato del lavoro, andando a ricoprire le mansioni di cui gli italiani non volevano più sapere. Dopo qualche tempo emergevano dal nulla burocratico grazie a provvidenziali sanatorie. Senza troppi drammi qualche zona ha cambiato volto, un po' come quei quartieri torinesi che negli anni cinquanta e sessanta furono “colonizzati” dai migranti del sud Italia, nello sconcerto degli autoctoni, che però lucravano affittando al nero, ai nuovi arrivati, cantine umide e soffitte decrepite.
Non vogliamo saperne troppo
Oggi rifugiati e sans-papiers si aggirano fra noi come ombre, sempre più precari e sfruttabili. Di loro le autorità si interessano poco, non si parla troppo del caporalato e delle terrificanti condizioni di lavoro degli stagionali. La questione evoca altre epoche e altre terre, storie di piantagioni e di schiavi. Neanche noi comuni cittadini vogliamo saperne troppo, forse non ci piace avvertire il senso di colpa, assaporare lo sfruttamento nelle arance che spremiamo e nei pomodori che mettiamo nell'insalata. Se dovessimo indagare troppo sul dolore contenuto in ogni cosa che acquistiamo finiremmo per non dormire più, credo. Troppi prodotti sono incrostati di sangue.
Mi chiedo spesso perché sia così difficile cambiare prospettiva, guardare alle cose con gli occhi degli altri, per esempio di quelli che arrivano qui dal sud del mondo. Eppure quando riflettiamo sulle migrazioni degli italiani nei secoli scorsi ci appaiono chiare le ragioni di quelle partenze; ci offende sapere di quanto furono disprezzati e discriminati in certi paesi, quanti pregiudizi dovettero sfatare. Invece raramente ci soffermiamo a riflettere sulle ragioni che, negli ultimi decenni, hanno spinto tanti a migrare verso l'Europa. Non siamo tanto disponibili a guardare al mondo dal punto di vista di quella gente che rischia la vita sulle rotte dei contrabbandieri.
Tra nord e sud, divario sempre più ampio
Venti lustri sono passati da quando il presidente Truman lanciò
la sfida dello sviluppo mondiale in un memorabile discorso alla
nazione. Non solo la povertà mondiale persiste. Ma da
allora, il divario fra nord e sud del mondo si è fatto
più ampio: nel 1960 il rapporto di disuguaglianza fra
nazioni ricche e povere era di 1/32, negli anni duemila è
di 1/134. Nel 1975 i poveri assoluti erano stimati in 460 milioni.
Oggi sono più di un miliardo: raddoppiati.
Si badi bene che il dato riguarda solo coloro che racimolano
meno di un dollaro al giorno. La statistica tiene in conto quindi
solo della possibilità o meno di sfamarsi, non di altri
bisogni primari come abitazione, vestiario, salute, istruzione.
Basterebbe spostare l'asticella ad un reddito minimo di cinque
dollari al giorno e il conteggio dei poveri salirebbe in un
istante a quattro miliardi e mezzo di persone.
Ma davvero c'è qualcuno convinto che uno o cinque dollari
al giorno siano una soglia sufficiente per vivere, ovunque nel
mondo? Sopravvivere un poco, forse, tirare avanti un'esistenza
brutale e disumana, coi figli che muoiono di stenti. È
facile elaborare statistiche, chiusi nei palazzi del potere,
a Washington o a Parigi, profumatamente retribuiti, per barare
poi anche sulla conta dei poveri.
Nelle aule universitarie si spiegano le differenze fra le economie
con la teoria del vantaggio comparato, secondo la quale ciascun
paese tende a specializzarsi nella produzione dei beni sui quali
ha un vantaggio rispetto ad altre nazioni. Nei paesi poveri,
che hanno abbondante manovalanza e bassi salari, il vantaggio
risiede nelle attività ad alta intensità di manodopera:
miniere, agricoltura, piccola industria manifatturiera. I paesi
ricchi, che hanno abbondanza di capitale, si specializzano invece
nella produzione di beni ad alta intensità di capitale.
Nella teoria economica ortodossa questa specializzazione viene
intesa come correlata all'ordine naturale delle cose, come se
povertà e ricchezza fossero tali per motivi casuali.
Ma se si guarda a tutto questo attraverso la lente dello storico,
la teoria non regge in questi termini. Non esiste un ordine
naturale: i paesi non sono poveri a causa della loro posizione
geografica o per un presupposto deficit culturale, ma per complesse
cause storiche. Il divario odierno fra nord e sud è frutto
di cinque secoli di sfruttamento e gli artefici hanno lavorato
a questo risultato dai palazzi del potere a Madrid, Lisbona,
Parigi, Londra, Bruxelles, Roma, Washington.
Dominio coloniale su tre continenti
Da Eduardo Galeano a Susan George, da Vandana Shiva a Jason
Hickel, sono molti gli studiosi che hanno cercato di spiegare
come Europa e Stati Uniti abbiano fondato le loro fortune sulla
sistematica spoliazione del sud del mondo. I loro studi dovrebbero
essere adottati da scuole e università per spiegare ai
giovani il mondo odierno, le cause del sottosviluppo, le conseguenze
della globalizzazione dei mercati: le questioni cruciali del
nostro tempo insomma. Meditando su quelle letture potrebbero
trovare una risposta alle domande che sentiamo fare sempre più
spesso da tanti che vivono con disagio questo presente: perché
non cessa il flusso? Perché vengono tutti qui da noi?
Secondo questi studiosi, la storia dei migranti che solcano
in precari gommoni il Mediterraneo è cominciata con un
viaggio per mare nella direzione opposta, con Colombo che, cercando
l'Asia, finì per scoprire l'America, senza nemmeno accorgersene.
È iniziato a delinearsi allora il mondo come lo conosciamo
oggi.
Molti studi mostrano come, all'epoca di Colombo, il tenore di
vita delle masse, in vaste aree dell'Asia e dell'America Latina,
fosse migliore che in Europa e la speranza di vita maggiore.
Conquistando il nuovo continente l'Europa ribaltò le
sorti e cambiò la storia. Le enormi ricchezze strappate
al nuovo mondo, le fortune costruite sulla pelle dei popoli
amerindi sterminati e degli schiavi trasportati dall'Africa,
fornì all'Europa l'accumulazione primaria di capitale
che consentì la rivoluzione industriale. L'Europa prima,
gli Stati Uniti poi, non hanno acquisito il controllo del mondo
per una qualche investitura divina ma grazie alla conquista,
al saccheggio, al genocidio, al controllo delle rotte mondiali
del commercio e delle economie dei paesi del sud.
Dopo le Americhe il dominio coloniale è stato esteso
a tre continenti. L'Africa addirittura è stata spartita
a tavolino fra le potenze europee, nella conferenza di Berlino
del 1884, come fosse terra nullius, a disposizione per
il saccheggio. La storia del colonialismo è piena di
notizie agghiaccianti, molte delle quali, ancora oggi, coperte
dal segreto, oppure spiegate come fatalità o inevitabili
necessità dei tempi che furono. Alla fine del settecento,
per distruggere l'industria cotoniera indiana che faceva concorrenza
a quella britannica, gli inglesi non esitarono a ricorrere ad
ogni mezzo, fino a mandare l'esercito a fratturare le dita dei
tessitori.
Nello stesso periodo, a seguito dell'umiliante rifiuto cinese
di aprire i mercati ai loro prodotti, gli inglesi, per rappresaglia,
introdussero clandestinamente l'oppio in Cina, provocando indicibili
sofferenze e le guerre che costarono alla Cina lunghi decenni
di occupazione. Smantellando sistematicamente le economie tradizionali
di quei grandi paesi, provocarono le terribili carestie che,
fra la fine dell'ottocento e l'inizio del novecento, causarono
trenta milioni di morti in India e almeno altrettanti in Cina.
La feroce dominazione belga portò alla morte violenta
di dieci milioni di congolesi, circa la metà della popolazione
della colonia. I meravigliosi palazzi che arricchiscono Bruxelles,
le monumentali stazioni ferroviarie che ammiriamo all'arrivo
in città, furono tutte opere pubbliche realizzate grazie
alle risorse sottratte al Congo al prezzo di enormi sofferenze.
Si potrebbe continuare a lungo, soffermandosi sulle atrocità
commesse da francesi, spagnoli, portoghesi, tedeschi e italiani
nei rispettivi domini coloniali.1
Dopo la seconda guerra mondiale i paesi del sud, stretti nei
confini determinati a tavolino dai dominatori europei, conquistarono
finalmente l'indipendenza. Molti, guidati da rivoluzionari istruiti
in Europa, adottarono il modello economico keynesiano, teso
alla redistribuzione della ricchezza, con risultati spesso sorprendenti:
per la prima volta da cinque secoli le economie di Africa, Asia
e America Latina, cominciarono a crescere e la povertà
a diminuire. Si formarono nuove alleanze e nacquero interessanti
esperimenti post-coloniali. Ma Europa e Stati Uniti stavano
gradualmente perdendo l'accesso alle materie prime e il controllo
dei mercati: presto scatenarono la controffensiva.
La crisi del debito estero, inaspettata manna per l'Occidente
È impressionante leggere la storia di quel trentennio
del novecento dal punto di vista della rivalsa dell'Occidente.
Con il colpo di stato in Iran, nel 1953, si aprì l'epoca
dei rovesciamenti di governo orchestrati dagli Stati Uniti e
da vari paesi europei per riassumere il controllo del petrolio,
delle materie prime e dei mercati. Un uragano che ha attraversato
il sud, colpendo tre continenti e che ha lasciato dietro di
sé una scia impressionante di sangue e devastazione.
L'elenco sarebbe lunghissimo. Basti qui ricordare la sorte di
tutti i più importanti leader africani, dal ghanese Nkrumah,
costretto all'esilio, al burkinabé Sankara e al congolese
Lumumba, brutalmente assassinati. Basti ricordare gli interventi
armati, le invasioni, i golpe orchestrati dalla CIA per spazzare
via governi considerati pericolosi, in Guatemala, Nicaragua,
Colombia, Venezuela, Brasile, Argentina, fino al Cile di Allende.
Basti ricordare la School of the Americas, scuola per
dittatori e aguzzini ed i Chicago Boys di Milton Freeman,
formati per imporre il mercato selvaggio in tutto il mondo.
Il
colpo definitivo al sogno di emancipazione delle ex colonie
è arrivato però poco più avanti, quando
è scoppiata la crisi del debito estero, insperata manna
dal cielo per l'Occidente. Negli anni settanta i petroldollari
dei paesi arabi, investiti a Wall Street, avevano fornito alle
banche occidentali enorme disponibilità di valuta, che
venne utilizzata per concedere ai governi del terzo mondo grandi
prestiti a tasso d'interesse composto.2
Quando, nel 1982, il Messico si dichiarò insolvibile,
inaugurando la crisi del debito, i governi occidentali non si
lasciarono sfuggire l'occasione.
L'operazione avvenne alla luce del sole, mascherata come la
mano benevola dell'occidente tesa a salvare i destini dei poveri
del mondo. Il braccio armato furono alcune istituzioni antidemocratiche,
saldamente in mano a Europa e USA: l'Organizzazione Mondiale
del Commercio, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca
Mondiale, presto specializzatasi nell'imporre ai paesi poveri
i famigerati piani di aggiustamento strutturale.
Un giorno, forse, quei “piani” saranno annoverati
fra i crimini contro l'umanità commessi nel ventesimo
secolo. Hanno causato infatti indicibili sofferenze che durano
fino ad oggi. Con quei piani i paesi debitori sono stati costretti
ad adottare misure drastiche orientate alla restituzione del
debito estero che però, a causa del meccanismo dell'interesse
composto, non si riuscirà mai ad estinguere. Con quei
piani le materie prime sono state privatizzate, i sistemi sanitari
e scolastici smantellati, i lavoratori pubblici licenziati in
massa, le terre sottratte ai contadini. Grandi masse sono state
gettate nella disperazione.
Ogni sacrificio è stato giustificato con il sacro dovere
di ripagare le banche: l'aggiustamento strutturale è
stata la maggiore causa di impoverimento del ventesimo secolo.
Oggi le economie di quei paesi sono praticamente controllate
dalle società transnazionali, attraverso il WTO3
e finché saranno in vigore le regole attuali non c'è
speranza all'orizzonte per le masse del sud del pianeta. I cambiamenti
climatici, causati in gran parte dall'Occidente, ma le cui conseguenze
si avvertono per ora soprattutto nelle zone equatoriali, stanno
aggravando la disperazione, a causa della siccità che
avanza.
Per questo la gente continua a partire e il flusso dei migranti
non si ferma, a dispetto della Libia divenuta carcere e del
Mediterraneo trasformato in cimitero. Ecco perché vengono
tutti qui da noi.
La balla dell'“aiutiamoli a casa loro”
In tutto questo l'Italia ha svolto un ruolo non secondario. Nel 1975 i leader delle maggiori economie mondiali si incontrarono in Francia per concordare la strategia comune di contrasto alla crescita del costo delle materie prime. L'incontro fu presieduto da Henry Kissinger, una delle figure più sinistre della scena internazionale di quegli anni. Nacque allora il G7 e, fin dall'inizio, l'Italia ne ha fatto parte. Quell'alleanza si è prefissata l'obiettivo di mutilare le economie dei paesi del sud per ristabilire il pieno accesso occidentale a risorse e mercati, un piano portato a compimento con i piani di aggiustamento strutturale.
Dunque, per oltre trent'anni l'Italia, una delle economie più forti del pianeta, ha svolto un ruolo chiave e può essere annoverata a pieno titolo fra i responsabili del premeditato impoverimento del sud del pianeta. Quei migranti economici che oggi respingiamo sono anche nostre vittime. La loro povertà è stata il prezzo dell'opulenza dei tempi della Milano da bere, di bottegai e impiegati che volevano passare vacanze esotiche negli alberghi di lusso in Thailandia e in Messico o provare l'ebrezza del continente nero nei club Méditerranée in Senegal. Il prezzo di quel benessere volgare che oggi ci sta sfuggendo di mano e già rimpiangiamo, incattiviti.
Se guardiamo obiettivamente a questa storia scopriamo che non c'è nulla di più ipocrita dello slogan “aiutiamoli a casa loro”. Decenni di “aiuti” avvelenati hanno impoverito il sud del mondo, impedendone lo sviluppo. Smettiamo piuttosto di “aiutarli” e lottiamo per rifondare i rapporti economici mondiali sul piano della giustizia, dell'equità e della libertà. Questo chiede il movimento anti-globalizzazione che, nel 1999, a Seattle, ha messo a nudo, davanti al mondo intero, le malefatte del WTO.
Non abbiamo colpa se Colombo inciampò nelle Americhe cambiando la storia, ma se non ci impegniamo a smantellare il sistema di sfruttamento di cui anche noi beneficiamo, restiamo complici. Non ha davvero senso continuare a urlare che non possiamo accogliere tutti, se contribuiamo a perpetuare i motivi che spingono tanti a partire.
Renzo Sabatini
- Per le nefandezze coloniali italiane si possono leggere gli studi di Angelo del Boca, in particolare “Italiani, brava gente” (Ed. Neri, 2005), compendio delle pagine più cupe e violente della nostra occupazione in Libia, Etiopia, Eritrea ed Albania.
- L'infernale meccanismo per cui gli interessi si aggiungono periodicamente al capitale iniziale, producendo a loro volta interessi, cosicché il debitore non riesce a intaccare il capitale e finisce per “restituire” una somma molte volte superiore a quella inizialmente prestata.
- World Trade Organization, l'Organizzazione Mondiale del Commercio.
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