Rivista Anarchica Online


Messico

La ribellione indigena

di Claudio Albertani

A venticinque anni dall'inizio dell'esperienza zapatista in Chiapas, un attivista italiano che risiede in Messico da quarant'anni analizza grandezza e limiti di questa esperienza.


La coscienza umana non muore mai.
Si addormenta, vegeta, cade a volte in uno stato letargico, però arriva il momento in cui si sveglia e, in qualche modo, recupera il tempo perduto.

Raoul Vaneigem

Un quarto di secolo, una vita. Da dove cominciare?
Dai ricordi. Il 31 dicembre del 1993, il Messico si disponeva a inaugurare il Trattato di Libero Commercio con l'America del Nord, firmato pochi mesi prima con gli Stati Uniti e il Canada (Tlcan, o Nafta in inglese). Io vivevo qui dal 1979 e avevo percorso il paese in lungo e in largo, un po' come hippie e un po' come giornalista. Ero un fervente lettore di Malcolm Lowry, D. H. Lawrence e Jack Kerouac e, come loro, ero rimasto ipnotizzato dalla bellezza di queste terre, ma anche dalle sofferenze che trasudano.
Del Messico mi affascinavano le culture indigene e il passato: la rivoluzione, le avventure di Ricardo Flores Magón e l'epopea di Emiliano Zapata, di cui ancora discorrevano i vecchi nei villaggi. Amavo i cieli tersi della Sierra Madre, i paesaggi sontuosi del tropico e ancor più il clima mite dell'altopiano; mi attraeva perfino Città del Messico che conservava una dimensione umana e non era la metropoli mostruosa di oggi. Per molti di noi, reduci dei ruggenti anni settanta, il Messico era una specie di oasi di libertà, un rifugio che ci aveva permesso di conoscere nuovi orizzonti e, soprattutto, stare alla larga dall'Italia, in preda alla depressione e al pentitismo.
Sapevo bene, al tempo stesso, che il paese corrispondeva ancora alla lapidaria descrizione che ne aveva fatto Victor Serge, il rivoluzionario russo-belga che qui era morto nel 1947: “un paese a due colori, senza classi medie o con una classe media insignificante: in alto, la società del dollaro; in basso, la primitività, e spesso la miseria, dell'indio”.1 Lo stesso paese profondamente razzista che descrive il regista Alfonso Cuarón, in Roma, film di successo, recentemente presentato al festival di Venezia.

Contro la corrente

Quel 31 dicembre, i principali quotidiani e telegiornali festeggiavano l'imminente entrata del paese nello sfavillante regno della merce e la gente affollava i supermercati per il cenone della notte di San Silvestro, che qui chiamano Noche buena. Mentre il presidente Carlos Salinas de Gortari, dell'inossidabile Partido Revolucionario Institucional (Pri), celebrava il vertice della sua carriera, molto lontano dai bagliori della città, migliaia di miliziani dell'allora sconosciuto Ejército Zapatista de Liberación Nacional (Ezln) avanzavano silenziosi nella notte. Poche ore dopo, all'alba, facevano irruzione nella storia occupando militarmente sette città del Chiapas: San Cristóbal de Las Casas, Las Margaritas, Altamirano, Oxchuc, Huixtán, Chanal e Ocosingo.
Risiedevo a Tepoztlán, un villaggio del Morelos, però conoscevo bene il sud-est, giacché lavoravo presso Noticias de Guatemala, un'agenzia di stampa, oggi estinta, che seguiva le lotte sociali del martoriato paese centroamericano. Andavo e venivo con frequenza, quasi sempre in macchina o in autobus e, quando potevo, mi fermavo a dormire a San Cristóbal, punto di sosta e bella cittadina coloniale. Sapevo che il Chiapas rassomigliava molto al Centroamerica ed ero stato più volte nella Selva Lacandona dove, accanto alle disastrate popolazioni maya locali, sopravvivevano a stento migliaia di rifugiati guatemaltechi, anch'essi in gran parte maya, che fuggivano da una terribile guerra di sterminio.
Il primo gennaio, un sabato, festeggiavano l'anno nuovo a casa mia due amici guatemaltechi, entrambi militanti della Unidad Revolucionaria Nacional Guatemalteca (Urng), il pool di organizzazioni guerrigliere che lottava da decenni per cambiare le condizioni di vita nel vicino paese. Ricordo ancora il loro piglio, tra il perplesso e l'eccitato, quando, verso mezzogiorno, una collega giornalista mi telefonò da San Cristóbal per avvisarmi che era scoppiata la rivoluzione... Era l'epoca in cui le guerriglie centroamericane battevano in ritirata e la stessa Urng, militarmente ancora solida, ma certo non vincitrice, stava cercando di concludere in maniera degna estenuanti trattative di pace che si protraevano da anni.

“La festa è bella che rovinata”

Il momento non era favorevole. Dopo la fine vergognosa del mal chiamato “socialismo reale”, i movimenti sociali sembravano assopiti e i partiti che ancora si proclamavano di sinistra vivevano una crisi terminale. Il pensiero unico imperava nel mondo intero, mentre il capitalismo di stampo neoliberista era spacciato come il solo orizzonte possibile, il punto di approdo necessario di ogni civiltà. Negli Stati Uniti, Francis Fukuyama proclamava trionfalmente la fine della storia e, dall'altra parte dell'Atlantico, Margaret Thachter rincarava la dose: “There is no alternative” (Non c' è alternativa).
In Messico, le cose non andavano meglio: il movimento 500 Años de Resistencia Indígena, Negra y Popular perdeva colpi, dopo l'importante ciclo di manifestazioni continentali, contestazioni e contro-celebrazioni del quinto centenario (1992). Come è normale, non mancavano le proteste e le manifestazioni di scontento, soprattutto per via delle continue frodi elettorali, però l'opposizione era demoralizzata e disorganizzata. Sebbene non vi fosse traccia di un movimento operaio indipendente, sparuti gruppi di contadini e indigeni continuavano a resistere nelle zone rurali. Negli ambienti di sinistra, si tentava di rompere il cordone ombelicale con il modello sovietico e alcuni ex-comunisti cercavano di costruirsi una fiammante rispettabilità “neoliberista”. Uno di questi, il noto politologo Jorge Castañeda, aveva appena pubblicato un libro che decretava la scomparsa della guerriglia.2
Seguirono momenti di scetticismo, perché le reti sociali non esistevano ancora e il primo gennaio in Messico non solo non escono i giornali, ma neppure si trasmettono notizie per radio e televisione. Nondimeno, presto si seppe che era tutto vero e che non si trattava di una rivolta spontanea, ma di una vera e propria insurrezione armata, preparata e pianificata scrupolosamente durante gli anni.
Un'organizzazione militare, appunto l'Ezln, dichiarava guerra allo stato messicano e pubblicava un manifesto, la Dichiarazione della Selva Lacandona, che, basandosi sulla costituzione messicana, rivendicava il diritto del popolo a rovesciare il governo sostenendo la lotta degli indigeni contro la povertà e la disuguaglianza. Invece del marxismo-leninismo, il documento invocava principi elementari della giustizia sociale come pane, salute, educazione, casa, pace, democrazia, libertà... “Siamo il prodotto di 500 anni di lotte”, vi leggiamo tra l'altro. “Stiamo morendo di fame e di malattie curabili. (...) La nostra è una misura disperata, però giusta”.3
Erano parole semplici, ma incisive che fecero presa su milioni di persone in Messico e nel mondo intero. “Non credo ai miei occhi”, scrisse Gianni Proiettis da San Cristóbal. “Sono due ragazzine con lunghe trecce nere, il profilo maya, le carabine a tracolla. Si aggiustano i fazzoletti rossi intorno al collo e mi sorridono. (...) La festa, per quanto riguarda il governo messicano, è bella che rovinata”.4 Nel frattempo, i miliziani dell'Ezln avevano assaltato la caserma Rancho Nuevo, nei pressi di San Cristóbal, e liberato i detenuti (salvo i narcotrafficanti) del carcere. A Las Margaritas, fecero prigioniero il generale Absalon Castellanos, ex governatore del Chiapas, accusato aver organizzato torture, sequestri e morti di attivisti indigeni. Lo liberarono il 16 febbraio, condannandolo a vivere il resto dei suoi giorni con la vergogna di essere stato perdonato dalle persone alle quali aveva arrecato tanto male.
Dopo la sorpresa iniziale, l'esercito scatenò una dura controffensiva con un massiccio spiegamento di forze e intensi bombardamenti aerei. In pochi giorni, vi furono più di 400 morti (le cifre reali non le sapremo mai), in parte tra i civili e in parte a Ocosingo, dove era rimasto intrappolato un contingente dell'Ezln tra il due e il quattro di gennaio. Una delle perdite più sentite fu il sub comandante Pedro, capo di stato maggiore dell'Ezln, militante di origine urbana. Morì a Las Margaritas, vittima di una pallottola vagante.

Alt al massacro

Presto, si venne a sapere che tra i ribelli spiccava un tale Marcos, un giovane non-indigeno, la cui immagine con pipa, passamontagna e cartuccera fece rapidamente il giro del mondo. Di statura media, sui 35-40 anni, bianco, occhi chiari, Marcos era dotato di un lungo naso, notevoli capacità comunicative e una buona dose di auto-ironia, virtù poco frequente nelle guerriglie latinoamericane. Divenne rapidamente l'idolo dei giornalisti che si litigavano l'onore di intervistarlo. Ricordo che un giorno alla domanda: “Voi appartenete alla teologia della liberazione?”, lui rispose più o meno così: “No. Noi ci liberiamo senza teologia.”
La stampa reagì in maniera disordinata. Alcuni intellettuali (fra i quali spiccano Antonio García de León, Carlos Montemayor, Pablo González Casanova, Rodolfo Stavenhagen e alcuni altri) si pronunciarono rapidamente a favore dell'apertura di trattative di pace. Però vi furono anche opinioni niente affatto indulgenti. Il 2 gennaio, La Jornada - che poi sarebbe diventato uno dei principali canali di comunicazione dell'Ezln - pubblicò un articolo di fondo molto duro, intitolato “No ai violenti”.
Sullo stesso quotidiano, il poeta Octavio Paz scrisse: “È una ribellione irreale, condannata al fallimento. Non corrisponde alla situazione del nostro paese, né alle sue necessità e aspirazioni attuali”.5 Molti si rifiutavano di credere che una guerriglia di quelle dimensioni potesse insediarsi in Messico. “Sembrava – scrisse in seguito lo storico Enrique Krauze – che fosse caduto su di noi un meteorite, non dallo spazio siderale bensì dal passato”.6 Gli insorti non erano reliquie della storia, bensì uomini e donne in carne ed ossa, il prodotto assolutamente “contemporaneo” dei disastri causati dal capitalismo.
Al tempo stesso, la gente comune, quella che alcuni chiamavano “società civile”, cominciò ad organizzarsi per frenare la guerra. A partire dal 10 gennaio, centinaia di migliaia di persone manifestarono a Città del Messico e altrove. Fu una reazione spontanea, di massa, ed è uno dei ricordi più belli che conservo di quei giorni agitati.
In tali circostanze, il 12 gennaio il governo Salinas dovette cedere alla pressione popolare decretando il cessate il fuoco unilaterale. Il 15, le parti accettarono la mediazione di Samuel Ruiz, il vescovo di San Cristóbal, che gli indigeni chiamavano Tatic (“padre” in tzotzil), e che godeva della loro fiducia, ma non di quella del governo che, a torto, lo considerava il vero istigatore della ribellione.

Bilancio provvisorio

Visitai le zone del conflitto tra il 20 e il 27 gennaio come traduttore (inglese-spagnolo) al seguito di una delegazione indigena internazionale, promossa da Rigoberta Menchú, premio Nobel della pace 1992.7 In un piccolo autobus, affittato per l'occasione ed equipaggiato con grandi cartelli di pace, la nostra carovana percorse centinaia di chilometri nelle regioni del conflitto conoscendo villaggi e campi di rifugiati. Entrammo anche in un carcere dove erano detenuti dei presunti prigionieri zapatisti, la gran maggioranza dei quali si proclamava innocente. In molti luoghi, ricevemmo la denuncia di casi di tortura, sequestro, assassinio e minacce a organizzazioni di difesa dei diritti umani.
Sebbene fosse già in vigore la tregua, i segni della guerra erano un po' ovunque. Il palazzo del comune di San Cristóbal era ancora occupato dall'esercito che, con mezzi blindati, impediva l'accesso alla piazza principale. Non c'erano turisti e, ovunque, si notava la presenza di una gran quantità di militari. Per le strade, i posti di blocco facevano pensare alla Bosnia, più che al Messico che conoscevo e amavo. I pochi veicoli non governativi che circolavano erano di giornalisti che portavano bandiere bianche e scritte “prensa”. Moltissimi i blocchi stradali con soldati in assetto di guerra, carri armati e mitragliatrici puntate contro i passanti. Noi ci chiedevamo: se in Messico succedono queste cose, come andrà a finire nel resto del mondo?
Sono passati venticinque anni. Non direi che il Messico sia cambiato in meglio: in America Latina, il Messico continua ad essere il paese con la maggiore concentrazione della ricchezza e il saccheggio dei popoli indigeni non si è arrestato.
Sono sicuro tuttavia che se non ci fossero stati gli zapatisti il Messico sarebbe un paese molto peggiore. Essi – e prima di loro i movimenti guatemaltechi e sudamericani – hanno il merito non solo di aver denunciato le inaccettabili condizioni di povertà in cui versano i popoli originari, ma anche la ricchezza delle loro culture, cosmovisioni e concezioni del rapporto tra l'essere umano e la terra. Benché il razzismo non sia stato debellato, essere indigeni oggi è meglio di essere indigeni allora. Come ha scritto Hermann Bellinghausen, non c'è un solo popolo indigeno del Messico che non sia in debito con gli zapatisti.8
Grazie al ciclo storico che comincia il primo gennaio del ‘94, oggi non è possibile pensare esclusivamente ai diritti dell'individuo: bisogna ammettere che gli esseri umani vivono in collettività e che queste posseggono specifiche caratteristiche culturali, etniche, linguistiche e religiose. Nel febbraio del 1996, l'Ezln e il governo messicano firmarono gli Accordi di San Andrés, una serie di impegni volti a garantire un nuovo rapporto tra lo stato, la società ed i popoli indigeni. È vero che tali accordi non sono mai stati rispettati, però continuano ad essere un'importante piattaforma di lotta che dà coesione al movimento. Nello stesso anno, in ottobre, gli zapatisti contribuirono a fondare il Congreso Nacional Indígena (Cni), la prima organizzazione di portata nazionale, indipendente dallo stato.
A partire dagli anni duemila, nel contesto della violenza paramilitare scatenata dallo stato messicano contro i movimenti indigeni (si ricordino, tra gli altri, i massacri di Acteal e El Bosque e, fuori dal Chiapas, quelli di Aguas Blancas e El Charco, tra molti altri), l'Ezln si è ripiegato nei territori che controlla: una parte de Los Altos, regione montagnosa del Chiapas centrale, e alcune fasce della Selva Lacandona. Lontano dai riflettori della politica, ha messo in pratica un progetto di autonomia regionale, le giunte di buon governo o “caracoles” (“lumache” in spagnolo), collettività basate sul principio della rotazione delle cariche, il mutuo appoggio e la proprietà comune della terra. Ha creato scuole alternative, istituzioni culturali e un sistema sanitario efficace che abbina la medicina tradizionale a quella occidentale.9
Ma vi è molto di più. Gli zapatisti hanno forgiato un discorso politico che ha rinnovato le lotte sociali a livello planetario e ha contribuito a creare il primo grande movimento sociale contro la globalizzazione neoliberista. In un'epoca caratterizzata dalla dittatura del denaro, essi hanno difeso “uno stile di vita fondato sulla solidarietà, la gratuità e la creatività che sostituisce il lavoro”.10 Hanno dato vita a incontri “intergalattici” dove, a differenza, per esempio, dei vecchi partiti comunisti, non hanno mai preteso di offrire soluzioni valide ovunque e per tutti, ma hanno sollevato le questioni centrali del nostro tempo: la fine della civiltà del denaro, la riscoperta della comunità, la democrazia diretta, l'identità e la differenza, il potere.11
Gli zapatisti hanno fatto questo e altro. Meritano dunque il rispetto e la solidarietà di tutti coloro che lottano per un mondo migliore. Oggi, tuttavia, essi si ritrovano soli. “Ve lo dico chiaro e tondo. Siamo soli esattamente come venticinque anni fa. (...) Ci ignorano”, afferma amaramente il sub-comandante Moisés, attuale portavoce dell'Ezln.12 Come spiegarlo? Non si tratta unicamente del logoramento naturale di un movimento che resiste da un quarto di secolo senza arrendersi.
Nel corso di questi anni, sono sfilate per le montagne del sud-est messicano decine di migliaia di persone provenienti da una ventina di paesi che hanno interagito con l'Ezln e le comunità in resistenza. Non sempre, tuttavia, i rapporti umani nati nei territori liberati sono cresciuti all'insegna della cooperazione e della fraternità. Vale la pena leggere in proposito il citato libro di Giuseppe Martinelli che mette in giusta luce la grandezza, ma anche i limiti dell'esperienza zapatista.

Struttura militare gerarchica

Dice Moisés: “Se abbiamo ottenuto qualcosa, è solo grazie al nostro lavoro e se abbiamo sbagliato, è solo colpa nostra. (...) Alcuni avrebbero voluto dirci cosa fare e cosa non fare, quando parlare e quando non parlare. Li abbiamo ignorati”. Non sono soltanto parole. È molto tempo che l'attitudine degli zapatisti si è indurita e questo spiega, almeno in parte, perché un buon numero di persone e organizzazioni hanno deciso di prenderne le distanze. Varrebbe la pena di chiedersi, ad esempio, che fine hanno fatto le reti di solidarietà europee.13 All'inizio del ’98, poco dopo il massacro di Acteal, fummo in grado di organizzare a Roma una manifestazione di protesta alla quale parteciparono circa 40 mila persone. Quante ne parteciperebbero adesso, se dovesse succedere nuovamente qualcosa di simile? È vero che l'Ezln, come tutti gli eserciti, ha una struttura militare gerarchica e autoritaria. È forse per questo che i suoi dirigenti preferiscono circondarsi di fedelissimi, piuttosto che accettare la critica fraterna di persone solidali ma anche pensanti. Una cosa è certa: nel corso di questi anni, coloro che si sono azzardati a esprimere dubbi sulle numerose svolte politiche, spesso discutibili, del comando zapatista, sono stati cacciati, quasi sempre accusati di colpe stravaganti.
Chiarisco che non alludo affatto ai partiti di sinistra o di destra con i quali l'Ezln è stato fin troppo indulgente, visto che nel 1994, favorì il voto per Cuauhtémoc Cárdenas del Partido de la Revolución Democrática (Prd) e nel 2000, concesse il beneficio del dubbio a Vicente Fox del Partido Acción Nacional (Pan). Mi riferisco invece ai collettivi autonomi e ai molti compagni che sono stati esclusi senza ragioni chiare. Si è perso in tal modo l'entusiasmo iniziale e sono rimasti principalmente “compagni di strada”, certamente generosi, ma non sempre efficaci e frequentemente settari. Il risultato è che a poco a poco gli zapatisti hanno perso la capacità di comunicazione che aveva fatto la loro fortuna al principio.
È lecito chiedersi, in tale situazione, cosa faranno gli zapatisti. Nonostante gli errori, il loro legato continua ad essere positivo. La lotta per la difesa della cultura e dei diritti degli indigeni è più valida che mai.
L'Ezln può esigere il compimento degli accordi di San Andrés, riprendere le trattative con il governo, strappare nuove concessioni e convertirsi, per questa via, in una cassa di risonanza dei movimenti indigeni che si oppongono ai mega-progetti. Infine, non possiamo dimenticare che gli zapatisti sono, insieme ai maestri, il principale bastione dell'opposizione organizzata in Messico ed uno dei riferimenti mondiali dei movimenti anticapitalisti. Il loro futuro importa a tutti coloro che hanno a cuore la causa umana.

Claudio Albertani

  1. Victor Serge, “Lettres à Antoine Borie (1946-47)”, Témoins. Cahiers indépendants, sul sito www.la-presse-anarchiste.net.
  2. Jorge Castañeda, La utopía desarmada. Intrigas, dilemas y promesas de la izquierda en América Latina, 1993, Messico, Joaquín Mortiz/Planeta.
  3. “Dichiarazione della Selva Lacandona” in Piero Coppo/Lelia Pisani (a cura di), Armi Indiane. Rivoluzione e profezie maya nel Chiapas messicano, Edizioni Colibrì, Milano, 1994, pp. 125-132. Pubblicato nel febbraio del ’94, però circolato poco, questo è il primo libro sulla ribellione zapatista uscito in Italia.
  4. Gianni Proiettis, “I miserabili maya non pazientano più. Battaglia con l'esercito lungo la rotta del turismo d'oro”, L'Unità, 3 gennaio 1994. Il governo messicano non ha mai perdonato a Proiettis il peccato di essere stato il principale cronista italiano della ribellione zapatista e lo ha espulso dal Messico il 15 aprile 2011.
  5. La Jornada, 7 gennaio 1994.
  6. Enrique Krauze, Redentores. Ideas y poder en América Latina, Editorial Debate, Messico, 2011, p. 461.
  7. Claudio Albertani, “La guerra delle formiche”, in Coppo/Pisani, op. cit., pp. 99-110.
  8. Hermann Belinghausen, “Las victorias del Ezln”, La Jornada, 31 diciembre 2018.
  9. Giuseppe Martinelli, Sempre straniero, le avventure di un medico napoletano nella Selva Lacandona, BFS, Pisa 2018.
  10. Raoul Vaneigem, “Zapatistas por la vida”, La Jornada, 20 gennaio 2019.
  11. Alessandro Simoncini (a cura di), Percorsi di liberazione. Dalla Selva Lacandona all'Europa. Itinerari, documenti, testimonianze del Secondo Incontro Intercontinentale per l'umanità e contro il neoliberismo di Madrid, Edizioni della battaglia, Palermo, 1997.
  12. Parole del Subcomandante Insurgente Moisés, 31 dicembre 2018, sul sito enlacezapatista.ezln.org.mx.
  13. Guiomar Rovira, Zapatistas sin fronteras. Las redes de solidaridad con Chiapas y el altermundismo, México, 2009, ERA e Claudio Albertani, «Pain it black, Blocchi Neri, Tute Bianche e Zapatisti nel movimento antiglobalizazione», varie edizioni, disponibile sul sito www.ecn.org.