La palla al piede
La storia di uno sbarco all'aeroporto di New
York.
Tra soprusi, umiliazioni e la cattiveria di routine di chi “difende”
le frontiere.
“L'aspetto più inumano della nostra società
è che gli uomini valgono meno delle monete. Infatti il
mercato del denaro è libero (...) gli uomini, invece,
prima di presentarsi ai punti di imbarco e sbarco, devono attraversare
oceani di folla e di carte bollate. Va già bene che non
abbiano ancora istituito il marchio di fuoco.”
(Fabrizio De André, appunti pubblicati postumi)
Non dimentico l'emozione del mio primo volo, quando un Jumbo
della KLM mi portò oltre le nuvole e al di là
dell'oceano. Piloti e hostess mi apparvero allora quasi eroici,
navigavano sicuri le rotte transoceaniche, mi trasportavano
da un continente all'altro senza peso né timore, proiettandomi
in poche ore in una dimensione altra, fatta di gente diversa,
parole nuove, profumi inconsueti.
Turismo di massa e voli low cost hanno fatto crescere una generazione
di giovani viaggiatori più disincantati, abituati a salire
sugli aerei come si sale sugli autobus affollati dell'ora di
punta. I piloti hanno perso quella patina da eroi fatti di una
stoffa speciale. Ma, quando dall'altoparlante si annuncia la
discesa a JFK, l'aeroporto internazionale di New York, c'è
ancora chi è capace di emozionarsi: la Grande Mela esercita
pur sempre un fascino misterioso. Chi non vede l'ora di immergersi
nel caos della metropoli che non dorme mai, però, deve
portare pazienza e affrontare la fila tortuosa che avanza lentamente
verso i punti di controllo, dove bruschi poliziotti verificano
passaporti e visti, prendono impronte digitali, fotografano
cornee e fanno domande insidiose con aria indifferente. Quegli
strani individui, facce comuni, uniformi da film e pistole alla
cintura, hanno il potere di decidere se farti varcare o meno
la soglia che ti separa dal sogno americano. Piccoli e grandi
drammi si consumano quotidianamente in frontiera, svelando a
volte il volto feroce dell'autorità costituita.
Questa è la storia della disavventura capitata a Paolo
e Marina, due giovani italiani, all'arrivo a JFK. Un piccolo
dramma, atto unico iniziato nello scenario confuso di un posto
di frontiera, in un pomeriggio di fine dicembre. È la
storia di uno sbarco sfortunato e di una vacanza finita male.
Una storia di sorprese, umiliazioni e piccoli sadismi. Il racconto
della cattiveria di routine di chi difende la palizzata immaginaria
di un forte, assalito ad ogni ora da orde di indiani con la
valigia, stralunati e maleodoranti dopo molte ore di viaggio.
All'arrivo i due ragazzi, poco più che ventenni, hanno
compilato la dichiarazione doganale e si sono messi in fila,
come tutti. Avevano familiarità con l'ambiente e le procedure,
perché erano già venuti a New York poche settimane
prima, muniti del visto turistico che qualunque italiano può
farsi online. Il negozio per cui lavoravano in Italia aveva
chiuso i battenti qualche tempo prima e loro, aiutati dalle
famiglie, avevano deciso di combattere la depressione con una
vacanza nel loro paese dei sogni. Probabilmente, con l'occasione,
si erano anche guardati attorno in cerca di opportunità
lavorative, come fanno tanti. Tornati in Italia per trascorrere
il Natale in famiglia, si erano poi nuovamente imbarcati, con
l'obiettivo di passare un gelido capodanno alle cascate del
Niagara.
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New York, aeroporto JFK - La scultura di un artista italiano, Gianni Cianfrocca, donata dopo l'attentato alle torri gemelle dell'11 settembre 2001; il titolo dell'opera è “Amor di Patria” |
Alle frontiere, sospetti e interrogatori
In tutto questo non c'era nulla di illecito però, in
tutto il mondo, i doganieri si insospettiscono quando due giovani
turisti, con pochi soldi, fanno avanti e indietro: pensano che
ci sia sotto qualcosa di losco, che quei ragazzi non siano affatto
turisti ma vengano per lavorare o per qualche altro scopo sordido.
Il sospetto è il loro mestiere.
Per questo quando è arrivato il loro turno le cose non
sono andate per il verso giusto. In piedi, davanti a quel banco,
col poliziotto che li guardava dall'alto in basso, i ragazzi
hanno capito che qualcosa non andava, perché il ritmo
delle domande era uscito dalla consuetudine. Sono arrivati i
rinforzi e i due sono stati portati via, rinchiusi in stanze
separate con altri fermati, tutti più o meno stralunati,
in attesa di “intervista”. Per Paolo e Marina il
tempo ha cominciato a scorrere lento, il pomeriggio si è
fatto sera, la sera notte e di tutta questa storia non vedevano
la fine. Pareva loro di essere finiti in un film: lunghi periodi
trascorsi immobili, seduti su una sedia, senza sapere cosa fare,
alternati a improvvisi, interminabili interrogatori. A turno
i poliziotti entravano nella stanza, ogni volta un poliziotto
diverso, sempre le stesse domande. L'armamentario degli sgherri
era munito di provocazioni e pressioni psicologiche. Tablet
e telefonini sono stati violati, i social controllati, alla
ricerca delle prove dell'inganno. Ma le forze dell'ordine hanno
dovuto accontentarsi delle solite banalità da turisti,
tipo i selfie sul ponte di Brooklyn e le panoramiche sulle luci
della città scattate dalla terrazza del Rockfeller Center.
Paolo, sebbene inquieto, ha mantenuto una certa calma, sicuro
di riuscire a chiarire l'equivoco. Marina, invece, si è
innervosita, la voce le si è incrinata e una poliziotta
le ha urlato: “perché fai quella vocetta da gatta
fottuta”? Lei è scoppiata a piangere.
È finita che lui lo hanno rilasciato, ma con l'ordine
di lasciare il paese entro pochi giorni. A lei è stato
detto invece che sarebbe stata imbarcata sul primo volo utile
per Milano. Separarli è stato un gesto deliberato e crudele:
in quei momenti avrebbero avuto bisogno l'uno dell'altra.
Paolo, solo e disorientato, preoccupato per le sorti di Marina,
ha trovato un alloggio e ha cominciato a contattare freneticamente
i genitori in Italia, le autorità di frontiera e la compagnia
aerea, per avere notizie di Marina. Ma per tre giorni di lei
nessuno ha saputo più nulla.
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New York, Manhattan - L'ingresso anonimo del palazzo dove ha sede il Department of Homeland Security, autorità federale che gestisce anche la sicurezza in frontiera |
Il potere assoluto della polizia
Chi studia il funzionamento dei sistemi di polizia conferma che le prime ore dopo un arresto sono le più delicate. In quella fase la persona detenuta è maggiormente esposta ad abusi e violenze da parte delle forze dell'ordine. In seguito, quando l'arresto viene formalizzato da un magistrato, scatta il diritto alla difesa e si entra in un'istituzione carceraria che, perlomeno, ha delle regole. Ma nei furgoni della polizia e nelle celle delle questure, senza testimoni né aiuto legale e senza contatti col mondo esterno, i tutori dell'ordine esercitano un potere assoluto e incontrollato. In quei momenti le persone socialmente deboli, come prostitute, transessuali, rom, migranti stranieri e tossicodipendenti, sono a maggior rischio di subire abusi, dai maltrattamenti alla violenza sessuale. Accade ovunque nel mondo.
Fra questi luoghi pericolosi e infidi ci sono anche i varchi di frontiera, quei lembi di terra di nessuno dove non sei più nel tuo paese ma non sei ancora arrivato nell'altro e, se arrestato, perdi ogni diritto, non hai a chi appellarti, nessuno che possa aiutarti. Resti isolato dal mondo, alla mercé dei doganieri. Così è accaduto a Marina. Ha scoperto amaramente che, per essere maltrattati in frontiera, non è necessario avere la pelle scura o provenire da uno di quei luoghi che il presidente degli Stati Uniti chiama con disprezzo shithole countries, cioè paesi di merda. Può capitare a chiunque, per un capriccio del destino o per la cattiveria di un poliziotto zelante. Marina non ha ricevuto botte, né subito molestie, sia chiaro, ma il trattamento ricevuto è stato di enorme violenza psicologica e fisica. Un trattamento inaccettabile in qualsiasi luogo che ami definirsi civile, men che meno nel paese che offre il suo sistema di vita al mondo intero come esempio da imitare. La ragazza è entrata in un piccolo girone infernale, senza nemmeno che i suoi aguzzini avessero prova alcuna di un crimine commesso. È stato sufficiente il sospetto di un agente.
Poiché le hanno tolto il cellulare e vietato qualsiasi contatto col mondo esterno, a Marina non è stato possibile nemmeno parlare con la famiglia. Se non fosse stato per Paolo, i genitori l'avrebbero immaginata scomparsa nel nulla. Dopo altre quattro ore di snervante attesa, senza nemmeno il permesso di andare in bagno, la ragazza, sconcertata, è stata portata via con la palla al piede, come abbiamo visto solo in certi film. Per gli arrestati a JFK è infatti ancora in uso uno strumento di costrizione qui conosciuto come Chain and Ball: una corta catena assicurata alla caviglia, con una pesante palla di ferro all'altra estremità. Si tratta di un accessorio adottato dagli inglesi nel seicento per impedire la fuga dei detenuti.
Le umiliazioni nei centri di detenzione
Caricata così su un cellulare, assieme ad altri trattenuti in frontiera, Marina è stata portata in un centro di detenzione, in una località imprecisata del New Jersey. All'arrivo la ragazza è stata costretta alla doccia, assieme agli altri fermati, in un locale comune senza porte, né tende. Ha dovuto indossare la divisa da detenuta ed è stata sottoposta al rito umiliante delle foto identificative. È stata infine sbattuta in una piccola cella arredata solo di un letto di cemento e un gabinetto senza porta, sistemato a bella posta proprio di fronte allo spioncino della porta blindata da cui, ogni tanto, si affacciavano le guardie. La prima notte, coi capelli ancora umidi, Marina è stata lasciata al freddo, in pieno inverno, senza coperte. Nei giorni a seguire si sono accavallate varie notizie sulla sua partenza, continuamente smentite. È stato un susseguirsi di accompagnamenti all'aeroporto in catene e nuove traduzioni in cella.
Quando, finalmente, si è potuta imbarcare, a notte fonda del terzo giorno, è stata scortata all'imbarco, ancora con la palla al piede ed una grossa foto segnaletica che le pendeva sul petto, fra la costernazione e gli sguardi interrogativi degli altri passeggeri. Sullo stesso volo, per fortuita coincidenza, si imbarcava anche Paolo, che non ha potuto trattenere spavento e indignazione vedendola arrivare in quelle condizioni al gate. Marina lo ha salutato appena e ha rifiutato di rispondere alle sue domande, fino a quando l'aereo non ha preso il volo. Era terrorizzata e temeva che a bordo potessero esserci poliziotti in borghese pronti a portarla via se avesse detto qualche frase fuori posto. Solo quando l'aereo ha preso quota ha cominciato a sentirsi in salvo e a raccontare. In volo ha riassaporato la libertà che sul suolo americano le era stata brutalmente negata.
La storia finisce con l'arrivo a Milano, coi ragazzi che hanno potuto riabbracciare gli ansiosi genitori, corsi ad accoglierli a Malpensa.
Hanno fatto in tempo a celebrare il capodanno da persone libere, ma nessuno può sapere come Marina supererà i traumi dell'arresto, delle catene, dello spavento e delle umiliazioni subite. Se si sveglierà di notte in preda alla paura, se camminerà di giorno passi incerti, assalita dall'angoscia. Se avrà bisogno di psicologi e dottori o basterà il tempo a lenire il dolore. È difficile capire cosa passi per la testa di una persona improvvisamente travolta da un arresto ingiustificato, che si è ritrovata isolata dal mondo e trattata come una criminale, angosciata per la famiglia senza notizie.
Qualcuno dirà che in fondo sono stati solo tre giorni, ma quando la pena non ha scadenza il tempo si dilata e il futuro appare terribilmente incerto e spaventoso.
Paolo e Marina sono nomi di fantasia, per proteggere la privacy dei protagonisti, ma la loro piccola disavventura è vera. Non è una storia originale, perché il terrore è di routine alle frontiere. Non posso dimenticare un episodio di tanti anni fa, raccontatomi da un amico, testimone di una discussione scoppiata alla frontiera fra Egitto e Libia per il sequestro di un apparecchio radiofonico. Il doganiere libico estrasse la pistola e fece fuoco senza esitazione, uccidendo l'indignato cittadino egiziano che esigeva la restituzione dell'apparecchio. Il cadavere sanguinante rimase a lungo al suolo mentre le formalità doganali proseguivano fra indifferenza e paura.
Nemmeno i cittadini statunitensi passano sempre indenni le loro stesse frontiere: i loro movimenti sono registrati. Jerry, un'amica del New Jersey, mi raccontò alcuni anni fa del suo rientro da una vacanza a Cuba, quando venne chiusa in una stanzetta e interrogata per ore, sospettata forse di spionaggio, minacciata di sanzioni, accusata di collaborazionismo per aver comprato oggettini da regalare, favorendo così l'economia del paese “nemico”. A distanza di anni la voce di Jerry tremava ancora di rabbia. L'avevano trattata con disprezzo e si era sentita minacciata, al rientro nel suo stesso paese. Anche lei ricorda con orrore gli altri, gli “alieni”, tenuti in catene con la palla al piede.
La libertà è sempre minacciata
Sono tanti gli orrori che accadono in frontiera e di quasi tutti nessuno conosce la cronaca. La disavventura di Paolo e Marina è solo una piccola storia fra le tante. Il racconto del brusco risveglio da un piccolo sogno. Una parabola senza pretese su quanto la libertà sia sempre minacciata, anche nel paese della libertà. Marina è finita in carcere senza colpa, è stata umiliata, tenuta in catene davanti a tutti e in quei momenti il mondo le è crollato addosso. Nel foglio di via che le hanno consegnato sta scritto che per due anni non potrà fare ritorno negli Stati Uniti. Scacciata senza colpa, ha ricevuto il suo marchio di fuoco proprio nella città che aveva appena iniziato ad amare. Me la immagino seduta in silenzio nella quiete del salotto di casa, intenta a curarsi ferite invisibili. Immagino Paolo che si aggira come un leone in gabbia fra le pareti domestiche e sconta la sua impotenza.
Libertà e catene
Il Presidente vuole costruire tremila chilometri di muro per sigillare anche la frontiera meridionale e fra questi confini mi aggiro smarrito, come un fantasma in gabbia, straniero senza meta, fra gente ignara. Vedo i miei concittadini correre lesti alle loro occupazioni. Per loro New York è il melting pot che accoglie tutti e immagino non sappiano che, proprio qui dove la statua della libertà offre il suo abbraccio al mondo, è ancora in uso per lo straniero Ball and Chain, simbolo di quell'esercito imperiale combattuto due secoli fa in nome del diritto alla felicità di tutti gli esseri umani. I newyorchesi certo ignorano che la loro amata patria impartisca, con tanta leggerezza, tanto inutile dolore.
Santo Barezini
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