Rivista Anarchica Online




Un medico italiano in Chiapas/
Mai completamente affidabile

Quando scese dal furgone, Cippi Martinelli si trovò circondato dalla notte e dalla nebbia. Non sapeva dove si trovasse esattamente, ma subito gli piacquero gli sguardi che intravedeva dietro i passamontagna. Presto scoprì di trovarsi ad Oventic, che alcuni anni dopo diventò uno dei 5 Caracoles zapatisti.
Era il 1996 e il medico napoletano si era unito ad una brigata internazionalista in Chiapas. Da tempo era stanco del suo lavoro al Policlinico di Napoli e in territorio zapatista trovò quello che cercava: rebeldía e una relazione umana con i colleghi e i pazienti che in Italia non riusciva a trovare. In Chiapas, Cippi Martinelli ha imparato che bisogna capire chi è la persona e come la malattia la sta colpendo, che è necessario curare la malattia, non la persona.
Nel corso del tempo e grazie al suo lavoro instancabile, Cippi si è guadagnato la fiducia (almeno in parte) degli zapatisti. Lavorava come medico nella clinica di Oventic, visitava pazienti in altre zone liberate dall'insurrezione indigena del 1994 e dava corsi di formazione ai giovani zapatisti scelti dalle loro comunità per studiare come “promotores de salud”.
Un giorno la mayora Ana María, comandanta della zona Altos de Chiapas a cui aveva tolto una brutta ciste “senza neanche un bisbiglio”, chiese di parlargli. “Doc, potresti aiutarci a mettere giù un piano sanitario?”, gli chiese la giovane donna – jeans, maglietta e lunghi capelli neri, bassina e un po' grassottella – che presto divenne sua amica. Ovviamente Cippi accettò, attirato dal “fascino della costruzione dell'impossibile”. E grazie ai suoi consigli nacque il primo programma sanitario zapatista. Un sistema autonomo e ribelle che ha portato cure in comunità che non avevano mai visto un medico. Cliniche che forniscono un servizio spesso considerato superiore a quello degli ospedali pubblici, al punto che molti pazienti sono persone non zapatiste – Cippi racconta di aver curato anche un paramilitare che aveva attaccato i suoi compagni.
Nei momenti in cui non c'era molto lavoro, Cippi scriveva un diario personale, che decise di far leggere al suo amico Claudio Albertani. “Ho letto il manoscritto di Martinelli tutto d'un fiato, senza poter staccare lo sguardo dallo schermo del computer, perché questo è, fra l'altro, un libro d'avventure, l'aggiornamento di un romanzo salgariano”, scrive Albertani nella prefazione. Per questo la Biblioteca Franco Serantini ha deciso di pubblicare alcune pagine del diario del medico napoletano (Cippi Martinelli, Eternamente straniero. Un medico napoletano nella Selva Lacandona, BFS Edizioni, Pisa 2018, pp. 104, € 12.00).
Si tratta di un libro di testimonianza in cui troviamo le grandezze e limiti dello zapatismo, non a partire da un'analisi teorica ma dal suo vivere e lavorare sul campo. Cippi non è un uomo che si vanta della sua esperienza, non presume la sua conoscenza del mondo zapatista o i suoi contatti con la Comandancia General. Ma nel suo libro decide di raccontarsi e raccontare un mondo, una società ribelle, a cui ha deciso di dedicare buona parte della sua vita e che non per questo vede come una società perfetta; è forse impossibile idealizzare qualcosa che si conosce così da vicino.
Cippi racconta le sue sensazioni, riflessioni e dei momenti, anche difficili, vissuti in territorio zapatista. Scrive di quando ha pensato di lasciare tutto, narra di tensioni tra membri dell'EZLN, dell'uscita di alcuni di loro dall'organizzazione, di un ammanco di 9 mila euro nelle casse della clinica. Parla delle riunioni interminabili e della difficoltà di traduzione dall'italiano e spagnolo alle lingue indigene. Spiega come si può organizzare un corso di formazione per giovani medici con tubi di gomma, bambole, lattine e buste di plastica, e di come un'operazione chirurgica si possa fare nella penombra e con pochi strumenti.
Racconta di viaggi in camioneta per le strade sterrate del Chiapas, di lunghe camminate in sentieri pieni di fango, spesso al buio, con la paura di essere attaccati dall'esercito o dai gruppi paramilitari. Di quando gli hanno sparato contro e della tensione continua di vivere in un paese in cui gli stranieri non possono svolgere una militanza politica: della preoccupazione di essere fermato dalla polizia ed espulso dal Messico, o ancor peggio ucciso, o fatto sparire. Cippi Martinelli racconta dei suoi incontri con altri stranieri, anche italiani, che militavano nella parte militare o civile dell'organizzazione, come educatori nelle scuole autonome o volontari nelle cliniche. Parla della sua relazione con zapatisti e zapatiste, dell'amicizia, delle risate e degli scherzi, dei momenti di incomprensione.
Scrive della pioggia insistente – che protegge dagli attacchi militari per via del fango che rende le strade impraticabili –, del sole inclemente e dell'afa della Selva Lacandona, del freddo e della nebbia della regione Altos de Chiapas, del caffè bollente ma a volte un po' scialbo e dei tamales preparati con il mais fresco.
Verrebbe da dire che quello di Cippi è un libro scritto da una persona interna all'organizzazione, ma lui racconta che non è così. “Quello che mi è sempre pesato, e continua a pesarmi era ed è essere considerato eternamente uno straniero dai compagni zapatisti”, scrive Cippi Martinelli. “Nonostante tutto il tempo passato qui, nonostante tutte le situazioni vissute insieme, i rischi della guerra, i momenti buoni e quelli difficili, io ero sempre, in fin dei conti, uno straniero, e come tale mai completamente affidabile, salvo rare occasioni e sempre comunque da pochissime persone”.

Orsetta Bellani



Xenofemminismo/
Liberazione o aberrazione?

L'uscita del volume Xenofemminismo (di Helen Hester, Nero, Roma 2018, pp. 164, € 15,00) sembra collocarsi in un quadro tanto nuovo quanto fortemente problematico. Le proposte avanzate nel testo si possono inscrivere all'interno del movimento culturale transumanista che considera indesiderati alcuni aspetti del corpo naturale e da ciò ne fa derivare una prospettiva di trasformazione post umana.
Ci tengo a precisare che se fino ad alcuni anni fa questo tipo di proposte erano considerate, per lo più, stravaganze di un piccolo nucleo di teoriche e teorici accademici, oggi sembrano, invece, ottenere un consenso sempre più diffuso. Mi sembra, infatti, che queste prospettive inizino a influenzare non solo l'area postfemminista e transfemminista, ma perfino alcune aree interne al movimento anarchico come il queer-movement e il giornale Umanità Nova (dove possono essere letti alcuni articoli in favore dell'orizzonte transumanista). È un aspetto inedito, che a mio avviso non si dovrebbe sottovalutare. Come ha ben sottolineato anche Alex B., uno degli autori più apprezzati nell'arcipelago LGBTQIA1: “Alcuni degli articoli, delle riviste o dei libri che sostengono tesi transumaniste o post-umaniste in chiave femminista/queer cominciano a trovare spazio e legittimità anche in luoghi e situazioni di attivismo e di critica al sistema.2
Lo xenofemminismo si dichiara in forte disaccordo con le componenti essenzialiste, ecofemministe, primitiviste e più in generale con l'arcipelago ecologista. Si definisce: “una forma di femminismo tecnomaterialista, antinaturalista e abolizionista del genere3”. Può essere considerato un tentativo d'interpretazione e integrazione del cyberfemminismo e in particolare delle opere di Shulamith Firestone e Donna Haraway che più volte vengono citate nel testo. Queste teoriche avevano ravvisato nell'innovazione tecnologica il perno tramite il quale contrastare le condizioni sociobiologiche oppressive. Spingendosi oltre, lo xenofemminismo rivendica una “Politica per l'Alienazione4” intesa come trasformazione della natura esterna e interna: “Il nostro destino è legato alla tecnoscienza, dove nulla è tanto sacro da non poter essere riprogettato e trasformato in modo da allargare la nostra prospettiva di libertà5”.
Questa proposta ritiene che l'aspetto centrale per la liberazione femminile consista nella modifica della natura stessa del corpo della donna tramite l'utilizzo delle tecnologie. Hester si concentra in particolare su due proposte.
La prima è quella di contrastare il ciclo mestruale tramite lo sviluppo dello strumento Del-Em (un dispositivo che permette l'aspirazione del mestruo per mezzo di cannule e siringhe) al fine di limitare lo stato di differenziazione biologica che a suo parere incide sui ritmi vitali.
La seconda è quella di contrastare e superare la gravidanza considerata, riprendendo la definizione di Firestone, “la deformazione dell'individuo nell'interesse della specie6”. Per questa motivazione è fortemente sostenuta l'ectogenesi ossia la riproduzione che non avviene all'interno dei corpi delle donne, ma in un ambiente artificiale. Lo xenofemminismo è infatti convinto che “i sistemi socio-tecnici si prestano più chiaramente a una politica antinaturalista7” e dunque “considerare il corpo come un potenziale luogo di intervento tecnopolitico femminista può essere uno strumento per rifiutare l'inevitabilità della sofferenza8”.
Questo tipo di lettura trova un'eco anche nelle proposte di Carlo Flamigni, figura di primo piano dell'associazione Luca Coscioni legata al Partito Radicale, il quale da tempo sostiene che i modelli di ectogenesi “consentiranno alle donne di sottrarsi alla schiavitù delle gravidanze9”.

Un crescente malessere interiore
Mi sembra, però, che la tematica più interessante su cui riflettere sia quella relativa alla causa di una forte e diffusa espansione di queste idee antinaturaliste. Probabilmente, la cultura dominante e la fede nel progresso tecnologico illimitato, unite a uno stato di malessere interiore sempre più diffuso, stanno creando a queste proposte un terreno fertilissimo. Mi appare tangibile il fatto che un modello sociale, come quello diffuso nelle società occidentali, che abitua a un non equilibrato rapporto con il proprio corpo, a un'alienazione costante da questo, finisca poi per indebolire il rapporto con la nostra natura umana. A tal proposito, la comparazione tra le difficoltà che vivono nel parto le donne occidentali con quelle che si riscontrano in società non capitalistiche evidenzia quanto forte sia l'incidenza del modello alienante e oppressivo capitalistico.
In questo contesto di crescente malessere interiore, per molte donne occidentali il ciclo e la gravidanza arrivano ad essere vissuti non solo come degli eventi faticosi ma in molti casi estremamente spaventosi. Le proposte xenofemministe si diffondono, infatti, e non potrebbe essere altrimenti, proprio all'interno di quelle società in cui sempre più donne hanno difficoltà a rapportarsi con il proprio ciclo e sono sempre più diffuse problematiche legate al parto quali depressione post-partum, baby blues, birth trauma etc.
Le difficoltà vengono associate alla donna mentre questa condizione è generata direttamente dalla società capitalistica. È per questo che la crescita di queste nuove problematiche all'interno di una società sempre più alienata e tecnologizzata favorisce una disarmonia interiore e abitua a livelli di malessere tali da incoraggiare a sua volta quelle soluzioni che alimentano questi processi invece di ridurli, paradossalmente in una spirale senza fine.
In continuità con il contesto dominante, lo xenofemminismo fornisce delle risposte a quegli aspetti che vengono vissuti come sempre più avversi, proponendo una libertà individuale associata ad un'alienazione dal proprio sé (poiché sono gli strumenti che si sostituiscono al processo naturale).
L'autrice non ha dubbi: la libertà e una supposta autonomia possono essere raggiunte solo tramite la separazione da alcune parti del proprio corpo. È proprio la delega alla macchina che dovrebbe rendere più libere poiché da un lato le donne sarebbero meno vincolate al genere maschile, dall'altro aggirerebbero le difficoltà dovute alla natura umana.

In armonia con la natura
Un altro aspetto dello xenofemminismo rispetto al quale mi trovo in totale contrapposizione riguarda la natura del tipo di strumenti che questo rivendica: strumenti che presuppongono un forte apparato tecnologico prerogativa dei soli luoghi occidentali e che tanto contribuisce alla distruzione della natura. Infatti, se da una parte il modello proposto da Hester sembra escludere le popolazioni fuori dai contesti capitalistici, dall'altro si mostra in continuità con le logiche sviluppiste del capitalismo ben “descritte” dalle sproporzionate impronte ecologiche e dai continui disastri ambientali.
Questo limite è particolarmente evidente nel capitolo Futurità xenofemministe, che presenta una forte critica ai movimenti ecologisti colpevoli di concentrarsi eccessivamente sulla figura del “Bambino” inteso come il beneficiario privilegiato dell'intervento politico. Intervento che restringerebbe le libertà degli adulti a causa della costante minaccia di limiti legali volti a tutelare proprio il “Bambino”. La contrapposizione tout-court supportata da Hester tra la sfera della libertà individuale e quella relativa alla preoccupazione per la vita dei futuri esseri umani, rischia, inoltre, di non cogliere il legame esistente tra la dimensione sociale e la sfera personale. Vivere rispettando gli equilibri naturali e in armonia con la natura non è uguale a trascorrere la propria esistenza assistendo allo svilimento del contesto naturale e al crescente malessere della propria specie in nome di... una supposta libertà personale.

E lo scambio emotivo tra madre e feto?
Un ulteriore aspetto fortemente problematico che emerge nelle proposte avanzate da Hester riguarda la sfera della psiche del “Bambino”. Nello specifico della riproduzione affidata ad una macchina, in cui dovrebbe avvenire la formazione e lo sviluppo del feto, i problemi di carattere psicologico che si verificherebbero sono quantomeno allarmanti.
Gli studi sulla psicologia prenatale (ad esempio, Emerson 1993,1994; Laing 1976) hanno ben messo in evidenza l'importanza di un positivo scambio emotivo tra madre e feto (positivo, è bene sottolinearlo, anche per la madre) e le ricerche degli ultimi anni confermano che le esperienze prenatali hanno un forte impatto sulla futura vita del feto stesso. Al contrario, se la gestazione avverrà all'interno di un macchinario, i futuri esseri umani che così si formeranno avranno problematiche interiori talmente profonde da non essere probabilmente nemmeno intuite da chi, invece, non ha sperimentato l'ectogenesi e la sostituzione di una macchina alla propria madre.
Infine, un'ultima osservazione riguarda il legame esistente tra le proposte avanzate nel libro e il possibile sviluppo delle società capitalistiche. La crisi di prospettive di queste ultime, legata ad un'accettazione inerziale dei suoi valori, richiede con sempre maggiore urgenza dei cambiamenti. E così vengono presentate come emancipatorie soluzioni che al contrario amplificano il livello d'oppressione: “Bambini” la cui gestazione avviene all'interno di una macchina, donne che eliminano il mestruo con strumenti tecnologici, società modellate sulla tecnopolitica xenofemminista. Semplici aberrazioni o obiettivi strategici della società ipercapitalistica?

Marco Piracci

  1. Lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex, asessuax.
  2. Alex B., Trans non è transhuman, 2018. Disponibile online: https://roundrobin.info/wp-content/uploads/2018/10/Trans-non-è-transhuman.pdf (URL consultato il 16/1/2019).
  3. Cfr. Helen Hester, Xenofemminismo, Nero, Roma 2018, p. 15.
  4. Cfr. Laboria Cuboniks, Xenofemminismo. Una politica per l'Alienazione, 2015. Disponibile on-line: www.laboriacuboniks.net/it/index.html (URL consultato il 3/1/2019).
  5. Ibidem.
  6. Cfr. Shulamith Firestone, La dialettica dei sessi: autoritarismo maschile e società tardo-capitalistica, Guaraldi 1971, p. 207.
  7. Cfr. Helen Hester, Xenofemminismo, op. cit., p. 26.
  8. Ibidem, p. 26.
  9. Cfr. Carlo Flamigni, “Fecondazione assistita, non c'è alcun vuoto”, L'Unità, 11 Luglio 2014. Disponibile online: https://www.radicali.it/20140711/fecondazione-assistita-non-c-alcun-vuoto/ (URL consultato il 17/1/2019).


Giuseppe Pinelli/
Il 1969, l'USI e l'impegno sindacale

Che dire ancora di Giuseppe Pinelli, anarchico e partigiano, che con la sua coerenza e tenacia ha saputo dare un grande contributo all'attivismo anarchico e nonviolento del secolo scorso? Con il libro Il ferroviere di San Siro. Giuseppe Pinelli e la ripresa dell'Unione Sindacale Italiana a Milano (coedizione Associazione Culturale “Pietro Gori” Milano e Unione Sindacale Italiana USI-CIT, Milano 2018, pp. 86, € 10,00), il curatore Franco Schirone è riuscito a far emergere aspetti dell'impegno di Pinelli che poco sono stati sviluppati, pur se menzionati nei numerosissimi testi su Pinelli e su Piazza Fontana pubblicati in quasi cinquant'anni da quella strage di Stato perpetrata da criminali fascisti manovrati da organi dello Stato e da militari.
L'opera viene introdotta da una intervista realizzata da Laura Tussi alla figlia Claudia Pinelli, dove emergono parole e significati trasmessi da una famiglia che ha subito una gravissima ingiustizia, un assassinio, ma che al contempo ha saputo trasformare la vicenda in una grande lotta di verità e giustizia. Claudia scrive di “come un partigiano anarchico, un ferroviere, sia riuscito a inceppare la macchina dello Stato e a smuovere una coscienza civile”.
L'esperienza dell'USI (Unione Sindacale Italiana) a Milano abbraccia quel periodo di forte pulsione sociale e di grandi rivendicazioni del mondo del lavoro, sempre più deluso dall'azione dei sindacati confederali. Giuseppe Pinelli è tra i principali promotori, responsabile della sezione USI-Bovisa; lo ricorda in un'interessante intervista Ivan Guarnieri, compagno di Pino, che ne racconta l'attività.
Enrico Moroni, nella sua testimonianza, parla della seconda sezione, l'USI-Centro, con sede in una piazza molto particolare... appunto Piazza Fontana, in uno stabile occupato, l'ex-hotel Commercio, in disuso da diversi anni, trasformato in Casa dello Studente e del Lavoratore da studenti e lavoratori che non potevano permettersi di pagare un affitto. L'ex-Hotel Commercio rappresenta anche la lotta contro le carovane dello sfruttamento dei lavoratori. Viene fatta anche un'approfondita analisi della lotta alla Fiat di Milano per rivendicare un salario dignitoso e maggiori tutele e diritti. Il testo, inoltre, è ben documentato da immagini, volantini e articoli di quel periodo storico di grandi lotte sociali: il 1969.
Negli anni, molte sono state le iniziative a ricordo di Giuseppe Pinelli. Sono ricordate in particolare quelle allo spazio occupato Micene, considerato il luogo della memoria, a poca distanza da quella che all'epoca del suo assassinio era l'abitazione di Giuseppe Pinelli e della sua famiglia.
Un toccante pensiero di Claudia Pinelli, “A mio padre”, fa capire al lettore quelle vibrazioni e sensazioni che attraversano la vita di suo padre: “il freddo è intenso”, “eravate belli”, “quanto impegno nella tua vita” e altre parole e frasi che colpiscono il lettore.
A chiudere l'opera, l'ultima lettera di Giuseppe Pinelli, scritta nel pomeriggio del 12 dicembre 1969, poche ora prima del suo fermo, indirizzata a Paolo Faccioli (un anarchico allora detenuto) nella quale Pinelli descrive l'essenza dell'anarchismo che “non è violenza. La rigettiamo, ma non vogliamo nemmeno subirla: l'anarchia è ragionamento e responsabilità”.
Ammetto che la lettura di questo libro trasmette un pezzo di storia e di valori che adesso sento ancora più miei. Un invito alla lettura affinché la violenza del potere sia annullata dalla forza della verità.

Fabrizio Cracolici



Il caso Camenish/
Contro un sistema sempre più totalizzante

Marco Camenisch resta uno dei più antichi militanti antinucleari. Uno dei tanti giovani ecologisti che dall'inizio degli anni Settanta, soprattutto negli Stati Uniti e nell'Europa di lingua tedesca, hanno saputo sviluppare una critica all'atomo e alle conseguenti devastazioni ambientali, mettendo per la prima volta in discussione le logiche - non solo economiche - della modernità industriale.
Marco nasce in un paesino delle Alpi Retiche, nel Canton Grigioni (svizzera sud-orientale) e crescendo vive lo scempio delle montagne e del territorio con estrema sofferenza. Ed è il pericolo atomico, sdoganato ad uso civile e pacifico, la molla che fece scattare in lui la ribellione contro le aziende elettronucleari ben cosciente, da anarchico, che l'ecologismo radicale ha senso nella generale critica antiautoritaria al consolidato sistema di dominio tecno-industriale.
Con la dura e spropositata condanna a 10 anni per dei sabotaggi esclusivamente materiali, le autorità di Coira vollero dare a suo tempo una punizione esemplare a Marco e un chiaro segnale alle varie “teste calde” che nelle montagne grigionesi, sull'onda contadina ecologista, stavano iniziando a creare seri problemi di ordine pubblico in un tranquillo angolo della Svizzera con Davos e St. Moritz, fiore all'occhiello dei VIP di mezzo mondo; aspetto questo non secondario nel calare la mannaia giudiziaria, contribuendo così a radicalizzare in Marco quel senso di rivolta senza vie di ritorno.
Tutto il resto è stata conseguenza: l'evasione da Regensdorf, undici anni di latitanza, la cattura in Toscana, 25 anni di carcere tra Italia e Svizzera, il vasto e variegato circuito internazionale di solidarietà creatosi nel corso degli anni e dei decenni.
La grande sfortuna di Marco resta l'essersi trovato clandestinamente in Val Poschiavo a visitare madre, fratello e la tomba del padre nei giorni in cui fu ucciso il doganiere Kurt Ploser. Una responsabilità da cui si è sempre dichiarato estraneo.
Non la pensarono così i giudici di Zurigo che lo condannarono per l'omicidio o, ancor più grave, il Consiglio Federale che nel rapporto sull'estremismo in Svizzera del 1992 parlò di Camenisch quale autore materiale dell'omicidio in questione senza che alcun tribunale si fosse ancora espresso in merito. Del resto solo incastrandolo per omicidio era possibile tenerlo “legittimamente” in galera per un quarto di secolo; con continue vessazioni, ad iniziare da quelle della giudice inquirente Claudia Wiederkehr, (guarda caso figlia del direttore della NOK, cioè l'azienda elettrica sabotata da Marco nei 1979); blocco di corrispondenza e colloqui, trasferimenti improvvisi, carcere duro e istigazione al suicidio con l'isolamento totale nella fortezza di Thorberg.
Da questa odissea si è sviluppato l'interesse del giovane autore, Norman Lipari (nato nel 1989, anno della caduta del muro di Berlino e dell'Impero sovietico), che con il libro L'affare Camenish (La Baronata, Lugano 2017, pp. 176, € 15,00) ha messo in campo un'interessante ricerca, agile, scorrevole e ben documentata. Un libro da considerarsi, a tutti gli effetti, un prezioso lavoro di storia contemporanea scritto - direi - con precisione svizzera.
L'autore cerca infatti di analizzare situazioni e dinamiche che hanno fatto dell'anarchico Camenisch il grigionese più conosciuto e apprezzato nel resto del mondo. È certo incredibile pensare all'indifferenziato movimento cresciuto in sua solidarietà nel corso di due decenni e mezzo di carcere, con una costellazione di contatti solidali, corrispondenze continue e infinite traduzioni con l'idea di fare da ponte tra piccole e grandi realtà di lotte ecologiste, rivoluzionarie e tendenzialmente antiautoritarie.
La miriade di azioni in sua solidarietà hanno avuto un effetto domino tanto da diffondersi in ben tre continenti, coagulando anarchici, ecologisti radicali, comunisti rivoluzionari, indigeni Mapuche, Pémon e zapatisti dell'America Latina, cristiani del dissenso e una discreta moltitudine di giovani e persone comuni indignate per la sistematica distruzione dell'ecosistema.
Oltre a una forte resistenza alla prigionia Marco Camenisch è riuscito a dialogare con questa umanità eterogenea, facilitando spesso dei contatti nel ricercare una comunanza su questioni concrete, per essere contro un sistema sempre più totalizzante e crudele senza per questo perdere la dimensione solare nel gusto della vita e nel piacere della libertà.

Piero Tognoli



Risorgimento “altro”/
Contro la retorica nazionalista e militarista

Sulle note patriottiche de La bella Gigogin, quest'avvincente “antistoria” (Luciano Bianciardi, Antistoria del Risorgimento. Daghela avanti un passo!, Minimum fax, Roma 2018, pp. 256, € 16,00), ennesima riedizione di un noto testo bianciardiano uscito per la prima volta nel 1969 (ed. Bietti), racconta – con la giusta dose di ironia e sarcasmo – un altro Risorgimento o, per meglio dire, un Risorgimento “altro”. Sesto libro pubblicato da Bianciardi, scritto apposta per un pubblico di ragazzi e dedicato a Marcellino, il figlio avuto dalla nuova compagna, la scrittrice e poetessa Maria Jatosti, Daghela avanti un passo! è un romanzo di passioni dedicato all'epopea dell'unità nazionale italiana.
È il proseguimento del filone garibaldino già inaugurato con Da Quarto a Torino (1960) e con il romanzo sperimentale La battaglia soda (1964). Non avrà poi molta fortuna l'idea di farne un libro da adottare nelle scuole e, ben presto, l'iniziale prefazione rivolta Al ragazzo che legge sarà sostituita con una nuova prefazione intitolata stavolta Prefazione al lettore adulto.
Lo scrittore toscano reinterpreta alla sua maniera l'immaginario collettivo e le narrazioni ormai consolidate, inficiate prima dal fascismo e quindi dal regime democristiano in perfetta continuità, con una frattura notevole nei confronti di quella retorica nazionalista e militarista fino ad allora davvero pervasiva nell'acculturazione scolastica. Chi, ancora tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, avesse frequentato le classi elementari e le scuole medie italiane, capirà molto bene di cosa stiamo parlando.
Anarchico, bastian contrario e volutamente provinciale, prototipo dell'anti-intellettuale, allergico ai grattacieli di Milano e a quell'ambiente neo-impiegatizio moderno eppure così falso, – con i ragionieri tutti precisini e le segretarie che sculettano –, Luciano Bianciardi (1922-1971) ama profondamente i minatori e la gente della sua Maremma. Così la “diseducazione sentimentale”, che accompagna i nuovi orizzonti mentali dell'epoca del boom economico in salsa meneghina, merita in pieno la sua scrittura graffiante e i suoi strali. L'interpretazione gramsciana sul Risorgimento quale “rivoluzione mancata” certo non è del tutto estranea all'argomentare del nostro. Ma lasciamo da parte, almeno per questa volta, la storiografia. Bianciardi, in quegli anni così convulsi, proprio perché innamorato dell'epopea risorgimentale, saga autenticamente popolare sacrificata alla ragion di Stato, ci rivela che il re è nudo. E cioè, per fare un esempio, che le quattro icone per antonomasia dell'unità nazionale (Vittorio Emanuele II, Cavour, Mazzini e Garibaldi) – quelle che, tutte insieme appassionatamente, hanno fatto da sempre capolino dai sussidiari di 5^ – ebbene, proprio quelle raffiguravano in realtà soggetti protagonisti in perfetto disaccordo fra di loro, fake news si direbbe oggi. Il modo di raccontare è didascalico, didattico e divulgativo, più simile a un saggio che a un romanzo e il testo è proprio quello che ci sarebbe piaciuto avere alle medie.
“La verità – argomenta in conclusione l'autore (p. 238) – è che fra questi uomini spesso non vi fu concordia, ma avversione e odio, discrepanza e irresolutezza. La verità è che il Risorgimento fece l'Italia quale poi ce la siam trovata noi italiani, lacerata e divisa. Divisa fra italiani ricchi e italiani poveri. Fra italiani del Nord e italiani del Sud. Fra italiani dotti e italiani analfabeti...”
Nella postfazione Pino Corrias (pp. 239-244) annota le ragioni profonde della narrazione bianciardiana, tutta emozionale, nata dalle nostalgie dell'infanzia e dalla memoria dei racconti del babbo ascoltati “nella piccola penombra della casa di Grosseto”, ma anche frutto di una “tremenda incazzatura”, covata all'osteria e meditata seduto sui gradini del Duomo, in quella ormai per lui inestricabile “giungla merdosa”, rappresentata dal mondo dell'editoria e dalle chiese democristiana e comunista. “Ultimo bohémien” nella definizione di Giovanni Arpino, lo scrittore maremmano ha interpretato, nel suo sentire, la purezza degli ideali dei ragazzi in camicia rossa, prima che diventassero “bottino” dei piemontesi opportunisti in procinto di dispensare tasse e colpi di baionetta ai nuovi sudditi.
Ai temi risorgimentali lo scrittore maremmano dedica complessivamente ben cinque lavori. Oltre a quelli citati e al presente, ci sono: Aprire il fuoco (1969) e il postumo Garibaldi (1972).
“Adopera la tecnica dell'anacronismo deliberato, trasporta nell'Ottocento i suoi disincanti, sposta di un secolo avanti le Cinque Giornate. Ma non è uno scherzo. Si sente davvero un ex garibaldino deluso da tutto, l'ultima camicia rossa della storia. E, come aveva già fatto l'eroe della sua infanzia, anche lui si consegna all'esilio...” (p. 13).
Quell'epopea, per l'autore de La vita agra, marca un incredibile corto circuito passato/presente, un ripiegamento, appunto, verso l'auto-esilio: segnale di fuga esistenziale e fallimento. E infatti, la produzione risorgimentale di Bianciardi collima con gli anni più cupi della sua vita.
Dalle Cinque Giornate a Bezzecca e a Mentana, passando per Calatafimi e l'Aspromonte: il testo, seguito dalla postfazione di Corrias, è articolato in sedici capitoli e in un epilogo, preceduti da un accurato profilo bio-bibliografico sull'autore.

Giorgio Sacchetti



Carlo Tresca/
Contro il fascismo, lo stalinismo e la mafia

Tra gli strumenti a disposizione nella lotta per una vita degna di essere vissuta e compresa, la letteratura, nel genere storico romanzesco, da sempre ha assunto un ruolo fondamentale, per ricordare, interpretare gli avvenimenti e forse suonare l'allarme concernente il rischio di un pessimo futuro. Appartiene a questa tipologia letteraria il libro di Enrico Deaglio La zia Irene e l'anarchico Tresca (Sellerio editore, Palermo 2018, pp. 288, € 14,00).
L'autore con fluida capacità narrativa, facendo succedere un episodio ad un altro ed intrecciando i diversi episodi fra di loro, senza smarrire il filo conduttore del racconto, mi ricorda Nuova York, il romanzo del grande scrittore nordamericano del mondo del lavoro John Dos Passos, difensore fra l'altro di Sacco e Vanzetti. Anche in questo caso, come nel libro dello scrittore americano, gli episodi si intrecciano e molti di questi sono resi con tecnica che rimanda all'immediatezza cinematografica. Un importante corredo iconografico rende ancora più intensa e dinamica la narrazione. Il centro nodale della narrazione è rappresentato dalla leggendaria figura di Carlo Tresca, stroncato in un agguato da diversi colpi di pistola con esecutori conosciuti e mandanti non particolarmente cercati, ma eloquentemente indicati nel romanzo, dei quali si è ampiamente dibattuto nella ricerca storica pregressa.
La realtà antidemocratica della prima metà del ’900, fatta di guerre e rivoluzioni, della micidiale guerra per il potere nel movimento operaio combattuta dal comunismo mondiale principalmente contro gli anarchici, lo shock fra le file democratiche filocomuniste a causa del patto Hitler-Stalin e dell'alleanza tra i due totalitarismi, balzano fuori con chiarezza dalle pagine del libro. È un libro, quasi un promemoria, molto documentato su tutte le nefandezze che i comunismi di obbedienza moscovita hanno fatto o hanno tentato di fare agli anarchici, sopratutto in Spagna e in Nord America, dove si svolge la maggior parte dell'azione, sia quella storica rivisitata che quella attuale agita dal nipote della zia Irene, e dall'altra protagonista, Rita, che condivide la ricerca dei mandanti dell'assassino di Carlo Tresca.
Il romanzo si articola su tre piani, legati tra loro in modo convincente, tale da produrre nel lettore la percezione di avventurarsi in regioni della storia e della cronaca sconosciute, eppure note. Il primo piano delinea e racconta la figura di Carlo Tresca, talmente amato e popolare tra gli italo-americani antifascisti per le sue doti umane, morali ed intellettuali e per la sua rettitudine, da essere indicato, nelle convulse trattative che si svolsero tra l'emigrazione antifascista italo-americana e il governo americano, all'approssimarsi della caduta del regime fascista in Italia, come il leader di un governo italiano in esilio, pronto a recarsi in Italia con l'esercito alleato.
Se Carlo Tresca è sconosciuto al grande pubblico, non lo è però agli anarchici, che in Italia alla sua figura hanno dedicato impegno editoriale e studi circostanziati, primo fra tutti Giuseppe Galzerano, che ha curato e editato molti anni fa in italiano la biografia di Carlo Tresca di Nunzio Pernicone, lo storico italo-americano dell'anarchismo recentemente scomparso. In altre parole la bibliografia su Carlo Tresca è più vasta di quella riportata nella sezione Fonti e ringraziamenti del libro, anche perché, in qualsiasi storia dell'antifascismo italiano negli Stati Uniti, le figure di Galleani e di Tresca e delle rispettive correnti ne sono parte integrante.
Da Roma, ormai stremata, attanagliata dalla paura dell'invasione islamica, sottoposta allo stato d'assedio, percorsa da raid fascisti e da file indifferenti di cittadini in attesa paziente di sorbire il gelato fra un'esplosione e l'altra, si origina il secondo piano del romanzo. Quello della vera e propria trasferta in America dei protagonisti, dopo che la zia Irene, funzionaria del Ministero dell'Interno nei servizi di spionaggio, ha lasciato in eredità a suo nipote, tramite un gruppo di suoi colleghi in pensione, impegnati politicamente contro il degrado politico nel quale versa il Paese, una valigia piena di segreti. Con l'incarico, forse suo, forse dei suoi colleghi, di far luce sull'assassinio di Carlo Tresca.
Insensibilmente il secondo piano si intreccia e si fonda con il terzo piano del romanzo, tessuto con i fili di acciaio di diversi tipi di potere che nascono da lontano, sia temporalmente che geograficamente e che giungono ai giorni nostri. Concentrazione di poteri che, anzi, a leggere il romanzo, sembra configurare la attualità di violenza dominante e sprezzante verso i deboli e gli oppressi con il marchio indelebile di un eterno presente senza speranza. L'autore suggerisce, con il suo romanzo, che se si vuol comprendere la storia dei giorni nostri, è necessario ritornare alla prima metà del secolo, quando dagli accordi in America e in Italia tra i diversi poteri di allora, legali e malavitosi, venne strutturato il futuro del Paese come sarebbe stato.
Se il protagonista della ricerca, ad un certo punto della narrazione, rileva che “quella che sto studiando è una storia di mafiosi, nazisti, comunisti, anarchici; tutte categorie di persone che non esistono più. Però ci sto ritrovando un po' lo stesso clima che si respira oggi.” È da augurarsi che non si debba mai arrivare, nonostante l'attuale crisi che attraversa la società che conosciamo, ad un tale grado di sfacelo come narrato nel libro di Deaglio.

Enrico Calandri



Antimilitarismo al Sud/
Un “blocco rosso” fino alla rivoluzione

Documentare gli intenti programmatici e le azioni di lotta del “movimento dei giovani sovversivi meridionali contro la guerra” e per la difesa dei bisogni delle classi popolari, negli anni del primo conflitto mondiale (1914-1918), è l'intento, ben riuscito, del saggio di Daria De Donno, da poco uscito col titolo Una “union sacrée” per la pace e per la rivoluzione (Le Monnier, Firenze 2018, pp. 196, € 15,00).
La De Donno, servendosi di un ampio materiale d'archivio (attingendo anche a quello, disponibile su Internet, nel sito del Ministero dei Beni Culturali, del Casellario Politico Centrale, che contiene migliaia di schede digitalizzate e offerte alla pubblica consultazione, sulle vicende biografiche e politiche dei militanti delle aree politiche dissidenti dell'Italia del primo novecento e del ventennio fascista), e traendo dati e informazioni da un vasto repertorio bibliografico – ricostruisce le azioni e le idee della gioventù di sinistra del meridione continentale che si oppose in modo determinato e combattivo alla “grande guerra”.
In particolare, la De Donno esamina l'attività dell'organizzazione giovanile del Partito Socialista Italiano, la FGSI (Federazione Giovanile Socialista Italiana), nata nel 1903 e subito abbastanza presente nelle regioni meridionali e in particolare in Puglia, dove, guidata da un giovane bracciante di Andria, Nicola Modugno, intraprenderà una decisa e aspra battaglia antimilitarista, opponendosi sia alle forze guerrafondaie (monarchiche, governative e conservatrici) sia alle correnti interne al PSI, tiepidamente neutraliste o orientate a un interventismo democratico, proponendo peraltro un'alleanza con tutta l'area giovanile antagonista meridionale, in primis con gli anarchici, per creare con loro un “blocco rosso”, una “union sacrée” che avrebbe dovuto “spingersi fino all'insurrezione armata che dal Mezzogiorno avrebbe potuto dare avvio alla rivoluzione proletaria europea”, contro l'”union sacrée” delle grandi potenze capitaliste (che con la guerra cercavano spazi ulteriori di dominio politico ed economico).
Il saggio della De Donno dando conto della molteplicità delle iniziative di questo fronte della gioventù meridionale sui generis, vivace e sovversivo, ne mostra l'aspetto oltremodo attivo, propositivo e rivoluzionario, largamente sconosciuto ai più e trascurato dagli studi storici. Viene fuori un'inedita e interessante storia della terza generazione di giovani proletari meridionali, composta in gran parte da contadini e artigiani, poco istruiti ma molto combattivi, raccolti in maggioranza nella FGSI e capaci di rapportarsi, col linguaggio dei fatti e della lotta politica concreta, con i leader più autorevoli del socialismo meridionale, come Amedeo Bordiga, che il movimento giovanile guarderà con interesse e sosterrà sin quando gli è possibile, e con i dirigenti nazionali del PSI, coi quali intratterrà un rapporto molto spesso conflittuale e sempre intransigente nel netto rifiuto della guerra, nella denuncia della totalità estraneità dei ceti popolari agli interessi di chi l'ha promossa, nell'invito ad abbattere il sistema economico-politico che l'ha prodotta: il capitalismo.
Prorompente – nel tumultuoso agire del movimento giovanile per contro-informare e organizzare le masse meridionale sulla necessità di boicottare e disertare l'intervento militare – emerge la figura di Nicola Modugno, formatosi giovanissimo alle idee dell'anarco-sindacalismo, poi diventato segretario della FGSI pugliese e collaboratore de “L'Avanguardia”, organo nazionale dei giovani socialisti, sulle pagine del quale tratterà i temi e le urgenze della “questione meridionale”; il suo declino politico sarà parallelo a quello dell'intera generazione sovversiva meridionale, perseguitata e repressa dalle forze dell'ordine, per propaganda e attività antipatriottica durante il conflitto, per l'impegno antifascista, con l'instaurarsi del regime mussoliniano, dopo la guerra. Incarcerato più volte, confinato e isolato politicamente, dopo la scissione del PCD'I dal PSI e i contrasti interni nello stesso PSI tra intransigenti e moderati, Modugno, declinando definitivamente il sogno insurrezionale, si riavvicinerà agli ambienti anarco-sindacalisti.
La sua fu una generazione di giovani meridionali “appartenenti al mondo rurale e artigianale/operaio” che, seppure sconfitti, “in un contesto sociale e politico poco dinamico”, svolse “un ruolo rappresentativo e di cambiamento”, mettendo in campo le energie e le forze migliori per dar corpo “alle attese insurrezionali da tempo covate” in un territorio ancor più immiserito dalla “brutalità” di una guerra che gli chiedeva insensatamente il sacrificio di uomini e risorse.

Silvestro Livolsi



1968-1977/
Controcultura e rivolta, anche in provincia

A cinquant'anni dal mitico '68, sul finire dell'anno scorso è uscito per le edizioni Aska di Firenze l'ultimo libro di Giorgio Sacchetti dal titolo Pugni chiusi (pp. 368, € 20,00). Sacchetti è docente universitario a contratto di Storia contemporanea con curricula accademici significativi, ma in questo suo lavoro più volte si distacca dalla traccia classica del saggio storico e si appropria del metodo di analisi, che potremo dire era, della rivolta studentesca di quegli anni; un'analisi che parte dal basso e si fonda sul confronto e la condivisione di esperienze. Tant'è che il libro inizia con la Prefazione, scritta da Claudia e Silvia Pinelli, che si avvia con l'affermazione «C'è stato un tempo in cui il Noi è stato più importante dell'Io» e termina con la testimonianza di Marco Noferi: «Poi quegli anni passarono, finì il “noi” e arrivò il '77 anche in Valdarno, con le sue paure, il suo “io”, il sesso affrettato, le fughe, la fragilità». Così il testo attraversa il periodo tra il 1968 e il 1977 leggendolo dalle esperienze dei vari protagonisti e non solo quelle delle dieci testimonianze, che occupano quasi un terzo del volume, «fiore all'occhiello del libro» come si legge nella quarta di copertina, ma anche le tante citate nei capitoli precedenti. Poi i due sottotitoli del libro, Storia transnazionale di un Sessantotto di periferia e Gauchisme, controculture e rivolta giovanile in provincia di Arezzo (1968-1977), ci delimitano anche uno spazio geografico che è quello di Arezzo e dell'alto Valdarno dove il giovane Giorgio vive quegli anni, conoscendo direttamente i protagonisti dei quali racconta le esperienze e ai quali fa raccontare la loro storia diventando il curatore di un'opera collettiva, come lui stesso la definisce, e nello stesso tempo dimostrando come in quello «scenario globale e temporalmente molto esteso» del lungo Sessantotto, non esistessero più né centro né periferie e i fatti locali appartenessero pienamente al «primo evento simultaneo dello storia, che ha coinvolto e sconvolto gli assetti di potere politico e sociale ai quattro angoli del mondo» (p. 12).
Sacchetti utilizza una molteplicità di fonti diverse per ricavarne un racconto storico dove non esiste più una gerarchia delle fonti, ma l'insieme delle testimonianze e dei materiali raccolti che spinge verso la ricerca della verità; non è soltanto data dalla documentazione dei fatti, ma anche da come questi sono stati vissuti nelle emozioni dei protagonisti. Per questo nel libro le fonti orali hanno la prevalenza e l'autore svolge con abilità il ruolo dello storico che documenta i fatti e conserva le emozioni dei testimoni: «perché anche noi abbiamo inteso i racconti soggettivi e le storie di vita come degne di accedere nel novero ufficiale degli strumenti di conoscenza sul Novecento», scrive nel Prologo. Parallelamente le esperienze individuali vengono filtrate e osservate attraverso fonti provenienti da una ricca selezione di documenti come volantini, ciclostilati, riviste e giornali del periodo studiato. Dagli stessi archivi è tratta anche l'ampia galleria fotografica (oltre un centinaio di foto) che arricchisce il volume.
I temi trattati da Giorgio Sacchetti in questo libro sono molti perché il Sessantotto ha coinvolto la società in tutti gli aspetti della vita; è stato un momento di rottura che ha prodotto un'onda lunga di cambiamenti nella mentalità. Nell'Introduzione Paolo Brogi traccia quelle che per lui sono le coordinate del libro: da un lato la psichiatria e antipsichiatria e dall'altro le lotte operaie e l'internazionalismo contro ogni forma di totalitarismo.
C'è un Sessantotto, scrive Sacchetti, «che parte da molto lontano e che ha i suoi prodromi negli epocali sconvolgimenti che si registrano, sui versanti sociopolitico e culturale, già dal decennio precedente. È così che nascono e si consolidano vaste aree di dissidenza: a sinistra con i famosi fatti di Ungheria del 1956 e il disvelarsi, sempre più palese, del volto totalitario del comunismo; nel mondo cattolico con l'avvento di papa Roncalli e il conseguente rinnovamento conciliare; nelle nuove generazioni, quelle dei nati nell'immediato dopoguerra, con la rapida diffusione delle controculture e degli stili di vita “anglosassoni” e globalizzati, prima fra tutte la dirompente musica rock» (pp. 34-35). Entra in crisi il partito e prendono corpo due correnti di pensiero: quella marxista e quella socialista-libertaria; insieme alla matrice culturale cattolica sono i tre filoni che guidano il pensiero di quegli anni. Ma la «vocazione giovanile alla trasversalità e alla rottura generazionale» (p. 43), la voglia di contrapporre il “popolo dei lavoratori” al partito o il “popolo di Dio” alle gerarchie ecclesiastiche mette sempre tutto in discussione, prima di tutto l'obbedienza.
Il libro dedica spazio anche al nuovo linguaggio del Sessantotto e del post-sessantotto, generato da intellettuali anche molto diversi tra loro, che trova i luoghi principali di espressione nelle assemblee studentesche e che produce volantini, ciclostilati, giornalini scolastici o parrocchiali fino alle prime radio libere. E poi la musica, elemento globalizzante di questa voglia di cambiamento, con interpreti che sono l'immagine di un mondo nuovo, di un nuovo modo di comunicare, di una generazione che si oppone al consumismo, al materialismo, al conformismo, ai modelli precostituiti e cerca spazi di libertà.
Prima di lasciare spazio alla memoria dei protagonisti con le loro testimonianze dirette, l'autore riporta le Cronologie del periodo dei fatti avvenuti nella provincia di Arezzo mettendo in evidenza il clima “caldo” di quegli anni senza perdere di vista il panorama internazionale.
Pugni chiusi racconta così l'ultima rivoluzione, il modo in cui sono stati sovvertiti «in maniera profonda tutto il sistema di valori esistente, l'idea stessa di potere costituito, i modi di concepire il corpo, il sesso, i rapporti tra sessi, la famiglia, i linguaggi, i consumi, perfino i dress code» attraverso «il primo evento globale della storia che ha investito, simultaneamente e grazie alla potenza dei nuovi media come la televisione, il nord e il sud del mondo, l'est e l'ovest: contro il colonialismo e la segregazione razziale, contro le disugualianze e lo sfruttamento nel sistema capitalistico, contro l'oppressione del mondo comunista». Resta «”uno stato d'animo”, un'etica. Perché il Sessantotto forse non avrà cambiato la politica, ma ha rivoluzionato le esistenze. Così quei ragazzi inquieti hanno aperto una breccia ed hanno assestato un colpo tremendo “al basso ventre” della società gerarchica» (p. 113-115).

Claudio Cherubini