Un medico italiano in Chiapas/
Mai completamente affidabile
Quando scese dal furgone, Cippi Martinelli si trovò
circondato dalla notte e dalla nebbia. Non sapeva dove si trovasse
esattamente, ma subito gli piacquero gli sguardi che intravedeva
dietro i passamontagna. Presto scoprì di trovarsi ad
Oventic, che alcuni anni dopo diventò uno dei 5 Caracoles
zapatisti.
Era il 1996 e il medico napoletano si era unito ad una brigata
internazionalista in Chiapas. Da tempo era stanco del suo lavoro
al Policlinico di Napoli e in territorio zapatista trovò
quello che cercava: rebeldía e una relazione umana
con i colleghi e i pazienti che in Italia non riusciva a trovare.
In Chiapas, Cippi Martinelli ha imparato che bisogna capire
chi è la persona e come la malattia la sta colpendo,
che è necessario curare la malattia, non la persona.
Nel corso del tempo e grazie al suo lavoro instancabile, Cippi
si è guadagnato la fiducia (almeno in parte) degli zapatisti.
Lavorava come medico nella clinica di Oventic, visitava pazienti
in altre zone liberate dall'insurrezione indigena del 1994 e
dava corsi di formazione ai giovani zapatisti scelti dalle loro
comunità per studiare come “promotores de salud”.
Un
giorno la mayora Ana María, comandanta
della zona Altos de Chiapas a cui aveva tolto una brutta ciste
“senza neanche un bisbiglio”, chiese di parlargli.
“Doc, potresti aiutarci a mettere giù un piano
sanitario?”, gli chiese la giovane donna – jeans,
maglietta e lunghi capelli neri, bassina e un po' grassottella
– che presto divenne sua amica. Ovviamente Cippi accettò,
attirato dal “fascino della costruzione dell'impossibile”.
E grazie ai suoi consigli nacque il primo programma sanitario
zapatista. Un sistema autonomo e ribelle che ha portato cure
in comunità che non avevano mai visto un medico. Cliniche
che forniscono un servizio spesso considerato superiore a quello
degli ospedali pubblici, al punto che molti pazienti sono persone
non zapatiste – Cippi racconta di aver curato anche un
paramilitare che aveva attaccato i suoi compagni.
Nei momenti in cui non c'era molto lavoro, Cippi scriveva un
diario personale, che decise di far leggere al suo amico Claudio
Albertani. “Ho letto il manoscritto di Martinelli tutto
d'un fiato, senza poter staccare lo sguardo dallo schermo del
computer, perché questo è, fra l'altro, un libro
d'avventure, l'aggiornamento di un romanzo salgariano”,
scrive Albertani nella prefazione. Per questo la Biblioteca
Franco Serantini ha deciso di pubblicare alcune pagine del diario
del medico napoletano (Cippi Martinelli, Eternamente straniero.
Un medico napoletano nella Selva Lacandona, BFS Edizioni,
Pisa 2018, pp. 104, € 12.00).
Si tratta di un libro di testimonianza in cui troviamo le grandezze
e limiti dello zapatismo, non a partire da un'analisi teorica
ma dal suo vivere e lavorare sul campo. Cippi non è un
uomo che si vanta della sua esperienza, non presume la sua conoscenza
del mondo zapatista o i suoi contatti con la Comandancia
General. Ma nel suo libro decide di raccontarsi e raccontare
un mondo, una società ribelle, a cui ha deciso di dedicare
buona parte della sua vita e che non per questo vede come una
società perfetta; è forse impossibile idealizzare
qualcosa che si conosce così da vicino.
Cippi racconta le sue sensazioni, riflessioni e dei momenti,
anche difficili, vissuti in territorio zapatista. Scrive di
quando ha pensato di lasciare tutto, narra di tensioni tra membri
dell'EZLN, dell'uscita di alcuni di loro dall'organizzazione,
di un ammanco di 9 mila euro nelle casse della clinica. Parla
delle riunioni interminabili e della difficoltà di traduzione
dall'italiano e spagnolo alle lingue indigene. Spiega come si
può organizzare un corso di formazione per giovani medici
con tubi di gomma, bambole, lattine e buste di plastica, e di
come un'operazione chirurgica si possa fare nella penombra e
con pochi strumenti.
Racconta di viaggi in camioneta per le strade sterrate
del Chiapas, di lunghe camminate in sentieri pieni di fango,
spesso al buio, con la paura di essere attaccati dall'esercito
o dai gruppi paramilitari. Di quando gli hanno sparato contro
e della tensione continua di vivere in un paese in cui gli stranieri
non possono svolgere una militanza politica: della preoccupazione
di essere fermato dalla polizia ed espulso dal Messico, o ancor
peggio ucciso, o fatto sparire. Cippi Martinelli racconta dei
suoi incontri con altri stranieri, anche italiani, che militavano
nella parte militare o civile dell'organizzazione, come educatori
nelle scuole autonome o volontari nelle cliniche. Parla della
sua relazione con zapatisti e zapatiste, dell'amicizia, delle
risate e degli scherzi, dei momenti di incomprensione.
Scrive della pioggia insistente – che protegge dagli attacchi
militari per via del fango che rende le strade impraticabili
–, del sole inclemente e dell'afa della Selva Lacandona,
del freddo e della nebbia della regione Altos de Chiapas, del
caffè bollente ma a volte un po' scialbo e dei tamales
preparati con il mais fresco.
Verrebbe da dire che quello di Cippi è un libro scritto
da una persona interna all'organizzazione, ma lui racconta che
non è così. “Quello che mi è sempre
pesato, e continua a pesarmi era ed è essere considerato
eternamente uno straniero dai compagni zapatisti”, scrive
Cippi Martinelli. “Nonostante tutto il tempo passato qui,
nonostante tutte le situazioni vissute insieme, i rischi della
guerra, i momenti buoni e quelli difficili, io ero sempre, in
fin dei conti, uno straniero, e come tale mai completamente
affidabile, salvo rare occasioni e sempre comunque da pochissime
persone”.
Orsetta Bellani
Xenofemminismo/
Liberazione o aberrazione?
L'uscita del volume Xenofemminismo (di Helen Hester,
Nero, Roma 2018, pp. 164, € 15,00) sembra collocarsi in
un quadro tanto nuovo quanto fortemente problematico. Le proposte
avanzate nel testo si possono inscrivere all'interno del movimento
culturale transumanista che considera indesiderati alcuni aspetti
del corpo naturale e da ciò ne fa derivare una prospettiva
di trasformazione post umana.
Ci
tengo a precisare che se fino ad alcuni anni fa questo tipo
di proposte erano considerate, per lo più, stravaganze
di un piccolo nucleo di teoriche e teorici accademici, oggi
sembrano, invece, ottenere un consenso sempre più diffuso.
Mi sembra, infatti, che queste prospettive inizino a influenzare
non solo l'area postfemminista e transfemminista, ma perfino
alcune aree interne al movimento anarchico come il queer-movement
e il giornale Umanità Nova (dove possono essere letti
alcuni articoli in favore dell'orizzonte transumanista). È
un aspetto inedito, che a mio avviso non si dovrebbe sottovalutare.
Come ha ben sottolineato anche Alex B., uno degli autori più
apprezzati nell'arcipelago LGBTQIA1:
“Alcuni degli articoli, delle riviste o dei libri che
sostengono tesi transumaniste o post-umaniste in chiave femminista/queer
cominciano a trovare spazio e legittimità anche in luoghi
e situazioni di attivismo e di critica al sistema.2”
Lo xenofemminismo si dichiara in forte disaccordo con le componenti
essenzialiste, ecofemministe, primitiviste e più in generale
con l'arcipelago ecologista. Si definisce: “una forma
di femminismo tecnomaterialista, antinaturalista e abolizionista
del genere3”. Può
essere considerato un tentativo d'interpretazione e integrazione
del cyberfemminismo e in particolare delle opere di Shulamith
Firestone e Donna Haraway che più volte vengono citate
nel testo. Queste teoriche avevano ravvisato nell'innovazione
tecnologica il perno tramite il quale contrastare le condizioni
sociobiologiche oppressive. Spingendosi oltre, lo xenofemminismo
rivendica una “Politica per l'Alienazione4”
intesa come trasformazione della natura esterna e interna: “Il
nostro destino è legato alla tecnoscienza, dove nulla
è tanto sacro da non poter essere riprogettato e trasformato
in modo da allargare la nostra prospettiva di libertà5”.
Questa proposta ritiene che l'aspetto centrale per la liberazione
femminile consista nella modifica della natura stessa del corpo
della donna tramite l'utilizzo delle tecnologie. Hester si concentra
in particolare su due proposte.
La prima è quella di contrastare il ciclo mestruale tramite
lo sviluppo dello strumento Del-Em (un dispositivo che permette
l'aspirazione del mestruo per mezzo di cannule e siringhe) al
fine di limitare lo stato di differenziazione biologica che
a suo parere incide sui ritmi vitali.
La seconda è quella di contrastare e superare la gravidanza
considerata, riprendendo la definizione di Firestone, “la
deformazione dell'individuo nell'interesse della specie6”.
Per questa motivazione è fortemente sostenuta l'ectogenesi
ossia la riproduzione che non avviene all'interno dei corpi
delle donne, ma in un ambiente artificiale. Lo xenofemminismo
è infatti convinto che “i sistemi socio-tecnici
si prestano più chiaramente a una politica antinaturalista7”
e dunque “considerare il corpo come un potenziale luogo
di intervento tecnopolitico femminista può essere uno
strumento per rifiutare l'inevitabilità della sofferenza8”.
Questo tipo di lettura trova un'eco anche nelle proposte di
Carlo Flamigni, figura di primo piano dell'associazione Luca
Coscioni legata al Partito Radicale, il quale da tempo sostiene
che i modelli di ectogenesi “consentiranno alle donne
di sottrarsi alla schiavitù delle gravidanze9”.
Un crescente malessere interiore
Mi sembra, però, che la tematica più interessante
su cui riflettere sia quella relativa alla causa di una forte
e diffusa espansione di queste idee antinaturaliste. Probabilmente,
la cultura dominante e la fede nel progresso tecnologico illimitato,
unite a uno stato di malessere interiore sempre più diffuso,
stanno creando a queste proposte un terreno fertilissimo. Mi
appare tangibile il fatto che un modello sociale, come quello
diffuso nelle società occidentali, che abitua a un non
equilibrato rapporto con il proprio corpo, a un'alienazione
costante da questo, finisca poi per indebolire il rapporto con
la nostra natura umana. A tal proposito, la comparazione tra
le difficoltà che vivono nel parto le donne occidentali
con quelle che si riscontrano in società non capitalistiche
evidenzia quanto forte sia l'incidenza del modello alienante
e oppressivo capitalistico.
In questo contesto di crescente malessere interiore, per molte
donne occidentali il ciclo e la gravidanza arrivano ad essere
vissuti non solo come degli eventi faticosi ma in molti casi
estremamente spaventosi. Le proposte xenofemministe si diffondono,
infatti, e non potrebbe essere altrimenti, proprio all'interno
di quelle società in cui sempre più donne hanno
difficoltà a rapportarsi con il proprio ciclo e sono
sempre più diffuse problematiche legate al parto quali
depressione post-partum, baby blues, birth
trauma etc.
Le difficoltà vengono associate alla donna mentre questa
condizione è generata direttamente dalla società
capitalistica. È per questo che la crescita di queste
nuove problematiche all'interno di una società sempre
più alienata e tecnologizzata favorisce una disarmonia
interiore e abitua a livelli di malessere tali da incoraggiare
a sua volta quelle soluzioni che alimentano questi processi
invece di ridurli, paradossalmente in una spirale senza fine.
In continuità con il contesto dominante, lo xenofemminismo
fornisce delle risposte a quegli aspetti che vengono vissuti
come sempre più avversi, proponendo una libertà
individuale associata ad un'alienazione dal proprio sé
(poiché sono gli strumenti che si sostituiscono al processo
naturale).
L'autrice non ha dubbi: la libertà e una supposta autonomia
possono essere raggiunte solo tramite la separazione da alcune
parti del proprio corpo. È proprio la delega alla macchina
che dovrebbe rendere più libere poiché da un lato
le donne sarebbero meno vincolate al genere maschile, dall'altro
aggirerebbero le difficoltà dovute alla natura umana.
In armonia con la natura
Un altro aspetto dello xenofemminismo rispetto al quale mi trovo
in totale contrapposizione riguarda la natura del tipo di strumenti
che questo rivendica: strumenti che presuppongono un forte apparato
tecnologico prerogativa dei soli luoghi occidentali e che tanto
contribuisce alla distruzione della natura. Infatti, se da una
parte il modello proposto da Hester sembra escludere le popolazioni
fuori dai contesti capitalistici, dall'altro si mostra in continuità
con le logiche sviluppiste del capitalismo ben “descritte”
dalle sproporzionate impronte ecologiche e dai continui disastri
ambientali.
Questo limite è particolarmente evidente nel capitolo
Futurità xenofemministe, che presenta una forte
critica ai movimenti ecologisti colpevoli di concentrarsi eccessivamente
sulla figura del “Bambino” inteso come il beneficiario
privilegiato dell'intervento politico. Intervento che restringerebbe
le libertà degli adulti a causa della costante minaccia
di limiti legali volti a tutelare proprio il “Bambino”.
La contrapposizione tout-court supportata da Hester tra
la sfera della libertà individuale e quella relativa
alla preoccupazione per la vita dei futuri esseri umani, rischia,
inoltre, di non cogliere il legame esistente tra la dimensione
sociale e la sfera personale. Vivere rispettando gli equilibri
naturali e in armonia con la natura non è uguale a trascorrere
la propria esistenza assistendo allo svilimento del contesto
naturale e al crescente malessere della propria specie in nome
di... una supposta libertà personale.
E lo scambio emotivo tra madre e feto?
Un ulteriore aspetto fortemente problematico che emerge nelle
proposte avanzate da Hester riguarda la sfera della psiche del
“Bambino”. Nello specifico della riproduzione affidata
ad una macchina, in cui dovrebbe avvenire la formazione e lo
sviluppo del feto, i problemi di carattere psicologico che si
verificherebbero sono quantomeno allarmanti.
Gli studi sulla psicologia prenatale (ad esempio, Emerson 1993,1994;
Laing 1976) hanno ben messo in evidenza l'importanza di un positivo
scambio emotivo tra madre e feto (positivo, è bene sottolinearlo,
anche per la madre) e le ricerche degli ultimi anni confermano
che le esperienze prenatali hanno un forte impatto sulla futura
vita del feto stesso. Al contrario, se la gestazione avverrà
all'interno di un macchinario, i futuri esseri umani che così
si formeranno avranno problematiche interiori talmente profonde
da non essere probabilmente nemmeno intuite da chi, invece,
non ha sperimentato l'ectogenesi e la sostituzione di una macchina
alla propria madre.
Infine, un'ultima osservazione riguarda il legame esistente
tra le proposte avanzate nel libro e il possibile sviluppo delle
società capitalistiche. La crisi di prospettive di queste
ultime, legata ad un'accettazione inerziale dei suoi valori,
richiede con sempre maggiore urgenza dei cambiamenti. E così
vengono presentate come emancipatorie soluzioni che al contrario
amplificano il livello d'oppressione: “Bambini”
la cui gestazione avviene all'interno di una macchina, donne
che eliminano il mestruo con strumenti tecnologici, società
modellate sulla tecnopolitica xenofemminista. Semplici aberrazioni
o obiettivi strategici della società ipercapitalistica?
Marco Piracci
- Lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex, asessuax.
- Alex B., Trans non è transhuman, 2018. Disponibile
online: https://roundrobin.info/wp-content/uploads/2018/10/Trans-non-è-transhuman.pdf (URL consultato il 16/1/2019).
- Cfr. Helen Hester, Xenofemminismo, Nero, Roma 2018, p. 15.
- Cfr. Laboria Cuboniks, Xenofemminismo. Una politica per
l'Alienazione, 2015. Disponibile on-line: www.laboriacuboniks.net/it/index.html
(URL consultato il 3/1/2019).
- Ibidem.
- Cfr. Shulamith Firestone, La dialettica dei sessi: autoritarismo maschile e società tardo-capitalistica, Guaraldi 1971, p. 207.
- Cfr. Helen Hester, Xenofemminismo, op. cit., p. 26.
- Ibidem, p. 26.
- Cfr. Carlo Flamigni, “Fecondazione assistita, non c'è
alcun vuoto”, L'Unità, 11 Luglio 2014. Disponibile
online: https://www.radicali.it/20140711/fecondazione-assistita-non-c-alcun-vuoto/ (URL consultato il 17/1/2019).
Giuseppe Pinelli/
Il 1969, l'USI e l'impegno sindacale
Che dire ancora di Giuseppe Pinelli, anarchico e partigiano,
che con la sua coerenza e tenacia ha saputo dare un grande contributo
all'attivismo anarchico e nonviolento del secolo scorso? Con
il libro Il ferroviere di San Siro. Giuseppe Pinelli e la
ripresa dell'Unione Sindacale Italiana a Milano (coedizione
Associazione Culturale “Pietro Gori” Milano e Unione
Sindacale Italiana USI-CIT, Milano 2018, pp. 86, € 10,00),
il curatore Franco Schirone è riuscito a far emergere
aspetti dell'impegno di Pinelli che poco sono stati sviluppati,
pur se menzionati nei numerosissimi testi su Pinelli e su Piazza
Fontana pubblicati in quasi cinquant'anni da quella strage di
Stato perpetrata da criminali fascisti manovrati da organi dello
Stato e da militari.
L'opera
viene introdotta da una intervista realizzata da Laura Tussi
alla figlia Claudia Pinelli, dove emergono parole e significati
trasmessi da una famiglia che ha subito una gravissima ingiustizia,
un assassinio, ma che al contempo ha saputo trasformare la vicenda
in una grande lotta di verità e giustizia. Claudia scrive
di “come un partigiano anarchico, un ferroviere, sia riuscito
a inceppare la macchina dello Stato e a smuovere una coscienza
civile”.
L'esperienza dell'USI (Unione Sindacale Italiana) a Milano abbraccia
quel periodo di forte pulsione sociale e di grandi rivendicazioni
del mondo del lavoro, sempre più deluso dall'azione dei
sindacati confederali. Giuseppe Pinelli è tra i principali
promotori, responsabile della sezione USI-Bovisa; lo ricorda
in un'interessante intervista Ivan Guarnieri, compagno di Pino,
che ne racconta l'attività.
Enrico Moroni, nella sua testimonianza, parla della seconda
sezione, l'USI-Centro, con sede in una piazza molto particolare...
appunto Piazza Fontana, in uno stabile occupato, l'ex-hotel
Commercio, in disuso da diversi anni, trasformato in Casa dello
Studente e del Lavoratore da studenti e lavoratori che non potevano
permettersi di pagare un affitto. L'ex-Hotel Commercio rappresenta
anche la lotta contro le carovane dello sfruttamento dei lavoratori.
Viene fatta anche un'approfondita analisi della lotta alla Fiat
di Milano per rivendicare un salario dignitoso e maggiori tutele
e diritti. Il testo, inoltre, è ben documentato da immagini,
volantini e articoli di quel periodo storico di grandi lotte
sociali: il 1969.
Negli anni, molte sono state le iniziative a ricordo di Giuseppe
Pinelli. Sono ricordate in particolare quelle allo spazio occupato
Micene, considerato il luogo della memoria, a poca distanza
da quella che all'epoca del suo assassinio era l'abitazione
di Giuseppe Pinelli e della sua famiglia.
Un toccante pensiero di Claudia Pinelli, “A mio padre”,
fa capire al lettore quelle vibrazioni e sensazioni che attraversano
la vita di suo padre: “il freddo è intenso”,
“eravate belli”, “quanto impegno nella tua
vita” e altre parole e frasi che colpiscono il lettore.
A chiudere l'opera, l'ultima lettera di Giuseppe Pinelli, scritta
nel pomeriggio del 12 dicembre 1969, poche ora prima del suo
fermo, indirizzata a Paolo Faccioli (un anarchico allora detenuto)
nella quale Pinelli descrive l'essenza dell'anarchismo che “non
è violenza. La rigettiamo, ma non vogliamo nemmeno subirla:
l'anarchia è ragionamento e responsabilità”.
Ammetto che la lettura di questo libro trasmette un pezzo di
storia e di valori che adesso sento ancora più miei.
Un invito alla lettura affinché la violenza del potere
sia annullata dalla forza della verità.
Fabrizio Cracolici
Il caso Camenish/
Contro un sistema sempre più totalizzante
Marco Camenisch resta uno dei più antichi militanti
antinucleari. Uno dei tanti giovani ecologisti che dall'inizio
degli anni Settanta, soprattutto negli Stati Uniti e nell'Europa
di lingua tedesca, hanno saputo sviluppare una critica all'atomo
e alle conseguenti devastazioni ambientali, mettendo per la
prima volta in discussione le logiche - non solo economiche
- della modernità industriale.
Marco
nasce in un paesino delle Alpi Retiche, nel Canton Grigioni
(svizzera sud-orientale) e crescendo vive lo scempio delle montagne
e del territorio con estrema sofferenza. Ed è il pericolo
atomico, sdoganato ad uso civile e pacifico, la molla che fece
scattare in lui la ribellione contro le aziende elettronucleari
ben cosciente, da anarchico, che l'ecologismo radicale ha senso
nella generale critica antiautoritaria al consolidato sistema
di dominio tecno-industriale.
Con la dura e spropositata condanna a 10 anni per dei sabotaggi
esclusivamente materiali, le autorità di Coira vollero
dare a suo tempo una punizione esemplare a Marco e un chiaro
segnale alle varie “teste calde” che nelle montagne
grigionesi, sull'onda contadina ecologista, stavano iniziando
a creare seri problemi di ordine pubblico in un tranquillo angolo
della Svizzera con Davos e St. Moritz, fiore all'occhiello dei
VIP di mezzo mondo; aspetto questo non secondario nel calare
la mannaia giudiziaria, contribuendo così a radicalizzare
in Marco quel senso di rivolta senza vie di ritorno.
Tutto il resto è stata conseguenza: l'evasione da Regensdorf,
undici anni di latitanza, la cattura in Toscana, 25 anni di
carcere tra Italia e Svizzera, il vasto e variegato circuito
internazionale di solidarietà creatosi nel corso degli
anni e dei decenni.
La grande sfortuna di Marco resta l'essersi trovato clandestinamente
in Val Poschiavo a visitare madre, fratello e la tomba del padre
nei giorni in cui fu ucciso il doganiere Kurt Ploser. Una responsabilità
da cui si è sempre dichiarato estraneo.
Non la pensarono così i giudici di Zurigo che lo condannarono
per l'omicidio o, ancor più grave, il Consiglio Federale
che nel rapporto sull'estremismo in Svizzera del 1992 parlò
di Camenisch quale autore materiale dell'omicidio in questione
senza che alcun tribunale si fosse ancora espresso in merito.
Del resto solo incastrandolo per omicidio era possibile tenerlo
“legittimamente” in galera per un quarto di secolo;
con continue vessazioni, ad iniziare da quelle della giudice
inquirente Claudia Wiederkehr, (guarda caso figlia del direttore
della NOK, cioè l'azienda elettrica sabotata da Marco
nei 1979); blocco di corrispondenza e colloqui, trasferimenti
improvvisi, carcere duro e istigazione al suicidio con l'isolamento
totale nella fortezza di Thorberg.
Da questa odissea si è sviluppato l'interesse del giovane
autore, Norman Lipari (nato nel 1989, anno della caduta del
muro di Berlino e dell'Impero sovietico), che con il libro L'affare
Camenish (La Baronata, Lugano 2017, pp. 176, € 15,00)
ha messo in campo un'interessante ricerca, agile, scorrevole
e ben documentata. Un libro da considerarsi, a tutti gli effetti,
un prezioso lavoro di storia contemporanea scritto - direi -
con precisione svizzera.
L'autore cerca infatti di analizzare situazioni e dinamiche
che hanno fatto dell'anarchico Camenisch il grigionese più
conosciuto e apprezzato nel resto del mondo. È certo
incredibile pensare all'indifferenziato movimento cresciuto
in sua solidarietà nel corso di due decenni e mezzo di
carcere, con una costellazione di contatti solidali, corrispondenze
continue e infinite traduzioni con l'idea di fare da ponte tra
piccole e grandi realtà di lotte ecologiste, rivoluzionarie
e tendenzialmente antiautoritarie.
La miriade di azioni in sua solidarietà hanno avuto un
effetto domino tanto da diffondersi in ben tre continenti, coagulando
anarchici, ecologisti radicali, comunisti rivoluzionari, indigeni
Mapuche, Pémon e zapatisti dell'America Latina, cristiani
del dissenso e una discreta moltitudine di giovani e persone
comuni indignate per la sistematica distruzione dell'ecosistema.
Oltre a una forte resistenza alla prigionia Marco Camenisch
è riuscito a dialogare con questa umanità eterogenea,
facilitando spesso dei contatti nel ricercare una comunanza
su questioni concrete, per essere contro un sistema sempre più
totalizzante e crudele senza per questo perdere la dimensione
solare nel gusto della vita e nel piacere della libertà.
Piero Tognoli
Risorgimento “altro”/
Contro la retorica nazionalista e militarista
Sulle note patriottiche de La bella Gigogin, quest'avvincente
“antistoria” (Luciano Bianciardi, Antistoria
del Risorgimento. Daghela avanti un passo!, Minimum fax,
Roma 2018, pp. 256, € 16,00), ennesima riedizione di un
noto testo bianciardiano uscito per la prima volta nel 1969
(ed. Bietti), racconta – con la giusta dose di ironia
e sarcasmo – un altro Risorgimento o, per meglio dire,
un Risorgimento “altro”. Sesto libro pubblicato
da Bianciardi, scritto apposta per un pubblico di ragazzi e
dedicato a Marcellino, il figlio avuto dalla nuova compagna,
la scrittrice e poetessa Maria Jatosti, Daghela avanti un
passo! è un romanzo di passioni dedicato all'epopea
dell'unità nazionale italiana.
È
il proseguimento del filone garibaldino già inaugurato
con Da Quarto a Torino (1960) e con il romanzo sperimentale
La battaglia soda (1964). Non avrà poi molta fortuna
l'idea di farne un libro da adottare nelle scuole e, ben presto,
l'iniziale prefazione rivolta Al ragazzo che legge sarà
sostituita con una nuova prefazione intitolata stavolta Prefazione
al lettore adulto.
Lo scrittore toscano reinterpreta alla sua maniera l'immaginario
collettivo e le narrazioni ormai consolidate, inficiate prima
dal fascismo e quindi dal regime democristiano in perfetta continuità,
con una frattura notevole nei confronti di quella retorica nazionalista
e militarista fino ad allora davvero pervasiva nell'acculturazione
scolastica. Chi, ancora tra gli anni Cinquanta e Sessanta del
secolo scorso, avesse frequentato le classi elementari e le
scuole medie italiane, capirà molto bene di cosa stiamo
parlando.
Anarchico, bastian contrario e volutamente provinciale, prototipo
dell'anti-intellettuale, allergico ai grattacieli di Milano
e a quell'ambiente neo-impiegatizio moderno eppure così
falso, – con i ragionieri tutti precisini e le segretarie
che sculettano –, Luciano Bianciardi (1922-1971) ama profondamente
i minatori e la gente della sua Maremma. Così la “diseducazione
sentimentale”, che accompagna i nuovi orizzonti mentali
dell'epoca del boom economico in salsa meneghina, merita in
pieno la sua scrittura graffiante e i suoi strali. L'interpretazione
gramsciana sul Risorgimento quale “rivoluzione mancata”
certo non è del tutto estranea all'argomentare del nostro.
Ma lasciamo da parte, almeno per questa volta, la storiografia.
Bianciardi, in quegli anni così convulsi, proprio perché
innamorato dell'epopea risorgimentale, saga autenticamente popolare
sacrificata alla ragion di Stato, ci rivela che il re è
nudo. E cioè, per fare un esempio, che le quattro icone
per antonomasia dell'unità nazionale (Vittorio Emanuele
II, Cavour, Mazzini e Garibaldi) – quelle che, tutte insieme
appassionatamente, hanno fatto da sempre capolino dai sussidiari
di 5^ – ebbene, proprio quelle raffiguravano in realtà
soggetti protagonisti in perfetto disaccordo fra di loro, fake
news si direbbe oggi. Il modo di raccontare è didascalico,
didattico e divulgativo, più simile a un saggio che a
un romanzo e il testo è proprio quello che ci sarebbe
piaciuto avere alle medie.
“La verità – argomenta in conclusione l'autore
(p. 238) – è che fra questi uomini spesso non vi
fu concordia, ma avversione e odio, discrepanza e irresolutezza.
La verità è che il Risorgimento fece l'Italia
quale poi ce la siam trovata noi italiani, lacerata e divisa.
Divisa fra italiani ricchi e italiani poveri. Fra italiani del
Nord e italiani del Sud. Fra italiani dotti e italiani analfabeti...”
Nella postfazione Pino Corrias (pp. 239-244) annota le ragioni
profonde della narrazione bianciardiana, tutta emozionale, nata
dalle nostalgie dell'infanzia e dalla memoria dei racconti del
babbo ascoltati “nella piccola penombra della casa di
Grosseto”, ma anche frutto di una “tremenda incazzatura”,
covata all'osteria e meditata seduto sui gradini del Duomo,
in quella ormai per lui inestricabile “giungla merdosa”,
rappresentata dal mondo dell'editoria e dalle chiese democristiana
e comunista. “Ultimo bohémien” nella definizione
di Giovanni Arpino, lo scrittore maremmano ha interpretato,
nel suo sentire, la purezza degli ideali dei ragazzi in camicia
rossa, prima che diventassero “bottino” dei piemontesi
opportunisti in procinto di dispensare tasse e colpi di baionetta
ai nuovi sudditi.
Ai temi risorgimentali lo scrittore maremmano dedica complessivamente
ben cinque lavori. Oltre a quelli citati e al presente, ci sono:
Aprire il fuoco (1969) e il postumo Garibaldi
(1972).
“Adopera la tecnica dell'anacronismo deliberato, trasporta
nell'Ottocento i suoi disincanti, sposta di un secolo avanti
le Cinque Giornate. Ma non è uno scherzo. Si sente davvero
un ex garibaldino deluso da tutto, l'ultima camicia rossa della
storia. E, come aveva già fatto l'eroe della sua infanzia,
anche lui si consegna all'esilio...” (p. 13).
Quell'epopea, per l'autore de La vita agra, marca un
incredibile corto circuito passato/presente, un ripiegamento,
appunto, verso l'auto-esilio: segnale di fuga esistenziale e
fallimento. E infatti, la produzione risorgimentale di Bianciardi
collima con gli anni più cupi della sua vita.
Dalle Cinque Giornate a Bezzecca e a Mentana, passando per Calatafimi
e l'Aspromonte: il testo, seguito dalla postfazione di Corrias,
è articolato in sedici capitoli e in un epilogo, preceduti
da un accurato profilo bio-bibliografico sull'autore.
Giorgio Sacchetti
Carlo Tresca/
Contro il fascismo, lo stalinismo e la mafia
Tra gli strumenti a disposizione nella lotta per una vita degna
di essere vissuta e compresa, la letteratura, nel genere storico
romanzesco, da sempre ha assunto un ruolo fondamentale, per
ricordare, interpretare gli avvenimenti e forse suonare l'allarme
concernente il rischio di un pessimo futuro. Appartiene a questa
tipologia letteraria il libro di Enrico Deaglio La zia Irene
e l'anarchico Tresca (Sellerio editore, Palermo 2018, pp.
288, € 14,00).
L'autore
con fluida capacità narrativa, facendo succedere un episodio
ad un altro ed intrecciando i diversi episodi fra di loro, senza
smarrire il filo conduttore del racconto, mi ricorda Nuova
York, il romanzo del grande scrittore nordamericano del
mondo del lavoro John Dos Passos, difensore fra l'altro di Sacco
e Vanzetti. Anche in questo caso, come nel libro dello scrittore
americano, gli episodi si intrecciano e molti di questi sono
resi con tecnica che rimanda all'immediatezza cinematografica.
Un importante corredo iconografico rende ancora più intensa
e dinamica la narrazione. Il centro nodale della narrazione
è rappresentato dalla leggendaria figura di Carlo Tresca,
stroncato in un agguato da diversi colpi di pistola con esecutori
conosciuti e mandanti non particolarmente cercati, ma eloquentemente
indicati nel romanzo, dei quali si è ampiamente dibattuto
nella ricerca storica pregressa.
La realtà antidemocratica della prima metà del
900, fatta di guerre e rivoluzioni, della micidiale guerra
per il potere nel movimento operaio combattuta dal comunismo
mondiale principalmente contro gli anarchici, lo shock fra le
file democratiche filocomuniste a causa del patto Hitler-Stalin
e dell'alleanza tra i due totalitarismi, balzano fuori con chiarezza
dalle pagine del libro. È un libro, quasi un promemoria,
molto documentato su tutte le nefandezze che i comunismi di
obbedienza moscovita hanno fatto o hanno tentato di fare agli
anarchici, sopratutto in Spagna e in Nord America, dove si svolge
la maggior parte dell'azione, sia quella storica rivisitata
che quella attuale agita dal nipote della zia Irene, e dall'altra
protagonista, Rita, che condivide la ricerca dei mandanti dell'assassino
di Carlo Tresca.
Il romanzo si articola su tre piani, legati tra loro in modo
convincente, tale da produrre nel lettore la percezione di avventurarsi
in regioni della storia e della cronaca sconosciute, eppure
note. Il primo piano delinea e racconta la figura di Carlo Tresca,
talmente amato e popolare tra gli italo-americani antifascisti
per le sue doti umane, morali ed intellettuali e per la sua
rettitudine, da essere indicato, nelle convulse trattative che
si svolsero tra l'emigrazione antifascista italo-americana e
il governo americano, all'approssimarsi della caduta del regime
fascista in Italia, come il leader di un governo italiano in
esilio, pronto a recarsi in Italia con l'esercito alleato.
Se Carlo Tresca è sconosciuto al grande pubblico, non
lo è però agli anarchici, che in Italia alla sua
figura hanno dedicato impegno editoriale e studi circostanziati,
primo fra tutti Giuseppe Galzerano, che ha curato e editato
molti anni fa in italiano la biografia di Carlo Tresca di Nunzio
Pernicone, lo storico italo-americano dell'anarchismo recentemente
scomparso. In altre parole la bibliografia su Carlo Tresca è
più vasta di quella riportata nella sezione Fonti e ringraziamenti
del libro, anche perché, in qualsiasi storia dell'antifascismo
italiano negli Stati Uniti, le figure di Galleani e di Tresca
e delle rispettive correnti ne sono parte integrante.
Da Roma, ormai stremata, attanagliata dalla paura dell'invasione
islamica, sottoposta allo stato d'assedio, percorsa da raid
fascisti e da file indifferenti di cittadini in attesa paziente
di sorbire il gelato fra un'esplosione e l'altra, si origina
il secondo piano del romanzo. Quello della vera e propria trasferta
in America dei protagonisti, dopo che la zia Irene, funzionaria
del Ministero dell'Interno nei servizi di spionaggio, ha lasciato
in eredità a suo nipote, tramite un gruppo di suoi colleghi
in pensione, impegnati politicamente contro il degrado politico
nel quale versa il Paese, una valigia piena di segreti. Con
l'incarico, forse suo, forse dei suoi colleghi, di far luce
sull'assassinio di Carlo Tresca.
Insensibilmente il secondo piano si intreccia e si fonda con
il terzo piano del romanzo, tessuto con i fili di acciaio di
diversi tipi di potere che nascono da lontano, sia temporalmente
che geograficamente e che giungono ai giorni nostri. Concentrazione
di poteri che, anzi, a leggere il romanzo, sembra configurare
la attualità di violenza dominante e sprezzante verso
i deboli e gli oppressi con il marchio indelebile di un eterno
presente senza speranza. L'autore suggerisce, con il suo romanzo,
che se si vuol comprendere la storia dei giorni nostri, è
necessario ritornare alla prima metà del secolo, quando
dagli accordi in America e in Italia tra i diversi poteri di
allora, legali e malavitosi, venne strutturato il futuro del
Paese come sarebbe stato.
Se il protagonista della ricerca, ad un certo punto della narrazione,
rileva che “quella che sto studiando è una storia
di mafiosi, nazisti, comunisti, anarchici; tutte categorie di
persone che non esistono più. Però ci sto ritrovando
un po' lo stesso clima che si respira oggi.” È
da augurarsi che non si debba mai arrivare, nonostante l'attuale
crisi che attraversa la società che conosciamo, ad un
tale grado di sfacelo come narrato nel libro di Deaglio.
Enrico Calandri
Antimilitarismo al Sud/
Un “blocco rosso” fino alla rivoluzione
Documentare gli intenti programmatici e le azioni di lotta
del “movimento dei giovani sovversivi meridionali contro
la guerra” e per la difesa dei bisogni delle classi popolari,
negli anni del primo conflitto mondiale (1914-1918), è
l'intento, ben riuscito, del saggio di Daria De Donno, da poco
uscito col titolo Una “union sacrée” per
la pace e per la rivoluzione (Le Monnier, Firenze 2018,
pp. 196, € 15,00).
La
De Donno, servendosi di un ampio materiale d'archivio (attingendo
anche a quello, disponibile su Internet, nel sito del Ministero
dei Beni Culturali, del Casellario Politico Centrale, che contiene
migliaia di schede digitalizzate e offerte alla pubblica consultazione,
sulle vicende biografiche e politiche dei militanti delle aree
politiche dissidenti dell'Italia del primo novecento e del ventennio
fascista), e traendo dati e informazioni da un vasto repertorio
bibliografico – ricostruisce le azioni e le idee della
gioventù di sinistra del meridione continentale che si
oppose in modo determinato e combattivo alla “grande guerra”.
In particolare, la De Donno esamina l'attività dell'organizzazione
giovanile del Partito Socialista Italiano, la FGSI (Federazione
Giovanile Socialista Italiana), nata nel 1903 e subito abbastanza
presente nelle regioni meridionali e in particolare in Puglia,
dove, guidata da un giovane bracciante di Andria, Nicola Modugno,
intraprenderà una decisa e aspra battaglia antimilitarista,
opponendosi sia alle forze guerrafondaie (monarchiche, governative
e conservatrici) sia alle correnti interne al PSI, tiepidamente
neutraliste o orientate a un interventismo democratico, proponendo
peraltro un'alleanza con tutta l'area giovanile antagonista
meridionale, in primis con gli anarchici, per creare
con loro un “blocco rosso”, una “union sacrée”
che avrebbe dovuto “spingersi fino all'insurrezione armata
che dal Mezzogiorno avrebbe potuto dare avvio alla rivoluzione
proletaria europea”, contro l'”union sacrée”
delle grandi potenze capitaliste (che con la guerra cercavano
spazi ulteriori di dominio politico ed economico).
Il saggio della De Donno dando conto della molteplicità
delle iniziative di questo fronte della gioventù meridionale
sui generis, vivace e sovversivo, ne mostra l'aspetto
oltremodo attivo, propositivo e rivoluzionario, largamente sconosciuto
ai più e trascurato dagli studi storici. Viene fuori
un'inedita e interessante storia della terza generazione di
giovani proletari meridionali, composta in gran parte da contadini
e artigiani, poco istruiti ma molto combattivi, raccolti in
maggioranza nella FGSI e capaci di rapportarsi, col linguaggio
dei fatti e della lotta politica concreta, con i leader più
autorevoli del socialismo meridionale, come Amedeo Bordiga,
che il movimento giovanile guarderà con interesse e sosterrà
sin quando gli è possibile, e con i dirigenti nazionali
del PSI, coi quali intratterrà un rapporto molto spesso
conflittuale e sempre intransigente nel netto rifiuto della
guerra, nella denuncia della totalità estraneità
dei ceti popolari agli interessi di chi l'ha promossa, nell'invito
ad abbattere il sistema economico-politico che l'ha prodotta:
il capitalismo.
Prorompente – nel tumultuoso agire del movimento giovanile
per contro-informare e organizzare le masse meridionale sulla
necessità di boicottare e disertare l'intervento militare
– emerge la figura di Nicola Modugno, formatosi giovanissimo
alle idee dell'anarco-sindacalismo, poi diventato segretario
della FGSI pugliese e collaboratore de “L'Avanguardia”,
organo nazionale dei giovani socialisti, sulle pagine del quale
tratterà i temi e le urgenze della “questione meridionale”;
il suo declino politico sarà parallelo a quello dell'intera
generazione sovversiva meridionale, perseguitata e repressa
dalle forze dell'ordine, per propaganda e attività antipatriottica
durante il conflitto, per l'impegno antifascista, con l'instaurarsi
del regime mussoliniano, dopo la guerra. Incarcerato più
volte, confinato e isolato politicamente, dopo la scissione
del PCD'I dal PSI e i contrasti interni nello stesso PSI tra
intransigenti e moderati, Modugno, declinando definitivamente
il sogno insurrezionale, si riavvicinerà agli ambienti
anarco-sindacalisti.
La sua fu una generazione di giovani meridionali “appartenenti
al mondo rurale e artigianale/operaio” che, seppure sconfitti,
“in un contesto sociale e politico poco dinamico”,
svolse “un ruolo rappresentativo e di cambiamento”,
mettendo in campo le energie e le forze migliori per dar corpo
“alle attese insurrezionali da tempo covate” in
un territorio ancor più immiserito dalla “brutalità”
di una guerra che gli chiedeva insensatamente il sacrificio
di uomini e risorse.
Silvestro Livolsi
1968-1977/
Controcultura e rivolta, anche in provincia
A cinquant'anni dal mitico '68, sul finire dell'anno scorso
è uscito per le edizioni Aska di Firenze l'ultimo libro
di Giorgio Sacchetti dal titolo Pugni chiusi (pp. 368,
€ 20,00). Sacchetti è docente universitario a contratto
di Storia contemporanea con curricula accademici significativi,
ma in questo suo lavoro più volte si distacca dalla traccia
classica del saggio storico e si appropria del metodo di analisi,
che potremo dire era, della rivolta studentesca di quegli anni;
un'analisi che parte dal basso e si fonda sul confronto e la
condivisione di esperienze. Tant'è
che il libro inizia con la Prefazione, scritta da Claudia
e Silvia Pinelli, che si avvia con l'affermazione «C'è
stato un tempo in cui il Noi è stato più importante
dell'Io» e termina con la testimonianza di Marco Noferi:
«Poi quegli anni passarono, finì il “noi”
e arrivò il '77 anche in Valdarno, con le sue paure,
il suo “io”, il sesso affrettato, le fughe, la fragilità».
Così il testo attraversa il periodo tra il 1968 e il
1977 leggendolo dalle esperienze dei vari protagonisti e non
solo quelle delle dieci testimonianze, che occupano quasi un
terzo del volume, «fiore all'occhiello del libro»
come si legge nella quarta di copertina, ma anche le tante citate
nei capitoli precedenti. Poi i due sottotitoli del libro, Storia
transnazionale di un Sessantotto di periferia e Gauchisme,
controculture e rivolta giovanile in provincia di Arezzo (1968-1977),
ci delimitano anche uno spazio geografico che è quello
di Arezzo e dell'alto Valdarno dove il giovane Giorgio vive
quegli anni, conoscendo direttamente i protagonisti dei quali
racconta le esperienze e ai quali fa raccontare la loro storia
diventando il curatore di un'opera collettiva, come lui stesso
la definisce, e nello stesso tempo dimostrando come in quello
«scenario globale e temporalmente molto esteso»
del lungo Sessantotto, non esistessero più né
centro né periferie e i fatti locali appartenessero pienamente
al «primo evento simultaneo dello storia, che ha coinvolto
e sconvolto gli assetti di potere politico e sociale ai quattro
angoli del mondo» (p. 12).
Sacchetti utilizza una molteplicità di fonti diverse
per ricavarne un racconto storico dove non esiste più
una gerarchia delle fonti, ma l'insieme delle testimonianze
e dei materiali raccolti che spinge verso la ricerca della verità;
non è soltanto data dalla documentazione dei fatti, ma
anche da come questi sono stati vissuti nelle emozioni dei protagonisti.
Per questo nel libro le fonti orali hanno la prevalenza e l'autore
svolge con abilità il ruolo dello storico che documenta
i fatti e conserva le emozioni dei testimoni: «perché
anche noi abbiamo inteso i racconti soggettivi e le storie di
vita come degne di accedere nel novero ufficiale degli strumenti
di conoscenza sul Novecento», scrive nel Prologo.
Parallelamente le esperienze individuali vengono filtrate e
osservate attraverso fonti provenienti da una ricca selezione
di documenti come volantini, ciclostilati, riviste e giornali
del periodo studiato. Dagli stessi archivi è tratta anche
l'ampia galleria fotografica (oltre un centinaio di foto) che
arricchisce il volume.
I temi trattati da Giorgio Sacchetti in questo libro sono molti
perché il Sessantotto ha coinvolto la società
in tutti gli aspetti della vita; è stato un momento di
rottura che ha prodotto un'onda lunga di cambiamenti nella mentalità.
Nell'Introduzione Paolo Brogi traccia quelle che per
lui sono le coordinate del libro: da un lato la psichiatria
e antipsichiatria e dall'altro le lotte operaie e l'internazionalismo
contro ogni forma di totalitarismo.
C'è un Sessantotto, scrive Sacchetti, «che parte
da molto lontano e che ha i suoi prodromi negli epocali sconvolgimenti
che si registrano, sui versanti sociopolitico e culturale, già
dal decennio precedente. È così che nascono e
si consolidano vaste aree di dissidenza: a sinistra con i famosi
fatti di Ungheria del 1956 e il disvelarsi, sempre più
palese, del volto totalitario del comunismo; nel mondo cattolico
con l'avvento di papa Roncalli e il conseguente rinnovamento
conciliare; nelle nuove generazioni, quelle dei nati nell'immediato
dopoguerra, con la rapida diffusione delle controculture e degli
stili di vita “anglosassoni” e globalizzati, prima
fra tutte la dirompente musica rock» (pp. 34-35). Entra
in crisi il partito e prendono corpo due correnti di pensiero:
quella marxista e quella socialista-libertaria; insieme alla
matrice culturale cattolica sono i tre filoni che guidano il
pensiero di quegli anni. Ma la «vocazione giovanile alla
trasversalità e alla rottura generazionale» (p.
43), la voglia di contrapporre il “popolo dei lavoratori”
al partito o il “popolo di Dio” alle gerarchie ecclesiastiche
mette sempre tutto in discussione, prima di tutto l'obbedienza.
Il libro dedica spazio anche al nuovo linguaggio del Sessantotto
e del post-sessantotto, generato da intellettuali anche molto
diversi tra loro, che trova i luoghi principali di espressione
nelle assemblee studentesche e che produce volantini, ciclostilati,
giornalini scolastici o parrocchiali fino alle prime radio libere.
E poi la musica, elemento globalizzante di questa voglia di
cambiamento, con interpreti che sono l'immagine di un mondo
nuovo, di un nuovo modo di comunicare, di una generazione che
si oppone al consumismo, al materialismo, al conformismo, ai
modelli precostituiti e cerca spazi di libertà.
Prima di lasciare spazio alla memoria dei protagonisti con le
loro testimonianze dirette, l'autore riporta le Cronologie
del periodo dei fatti avvenuti nella provincia di Arezzo mettendo
in evidenza il clima “caldo” di quegli anni senza
perdere di vista il panorama internazionale.
Pugni chiusi racconta così l'ultima rivoluzione,
il modo in cui sono stati sovvertiti «in maniera profonda
tutto il sistema di valori esistente, l'idea stessa di potere
costituito, i modi di concepire il corpo, il sesso, i rapporti
tra sessi, la famiglia, i linguaggi, i consumi, perfino i dress
code» attraverso «il primo evento globale della
storia che ha investito, simultaneamente e grazie alla potenza
dei nuovi media come la televisione, il nord e il sud del mondo,
l'est e l'ovest: contro il colonialismo e la segregazione razziale,
contro le disugualianze e lo sfruttamento nel sistema capitalistico,
contro l'oppressione del mondo comunista». Resta «”uno
stato d'animo”, un'etica. Perché il Sessantotto
forse non avrà cambiato la politica, ma ha rivoluzionato
le esistenze. Così quei ragazzi inquieti hanno aperto
una breccia ed hanno assestato un colpo tremendo “al basso
ventre” della società gerarchica» (p. 113-115).
Claudio Cherubini
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