Arditi del Popolo/
Ma la storiografia “ufficiale” ha cercato di cancellarli
Nel secondo dopoguerra i partiti, fattisi imprenditori politici
della memoria, avevano di fatto prestabilito metodi e “luoghi”
deputati alla ricerca contemporaneistica, avevano a lungo e
con protervia presidiato le scienze storiche, quasi paventassero
imminenti invasioni di alieni. Così l'opposizione armata
al primo fascismo in Italia era stata, e per troppo tempo, una
pagina volutamente dimenticata in quanto non conforme, episodio
rimosso della storia internazionalista e proletaria, vittima
del revisionismo storiografico sia di destra che di sinistra.
Un
bel tomo, ricco, assai documentato e dall'editing raffinato,
ricapitola ora questa storia epica che, ormai, è il caso
di sottolinearlo, non può più considerarsi come
“dimenticata”. Persino nelle pagine austere dell'Enciclopedia
Treccani – ha annotato con malcelata ironia il prefatore
di questo volume – si possono ora leggere (alla voce Ardito)
informazioni corrette sugli Arditi del Popolo.
Questa nuova edizione (la prima è del 2002) dello studio
di Luigi Balsamini (Gli Arditi del Popolo. Dalla guerra alla
difesa proletaria contro il fascismo (1917-1922), prefazione
di Marco Rossi, Casalvelino Scalo, Galzerano editore, 2018,
pp. 448, € 20,00) non solo aggiornata e ampliata ma “completamente
ripensata e riscritta, nella forma e nei contenuti” (p.
11), ci fornisce l'esatta misura di un intenso e plurale percorso
storiografico venuto a maturazione in questi ultimi due decenni.
Periodo nel quale si è focalizzata, con sempre maggiore
insistenza, l'attenzione degli storici sugli esiti di breve
e lunga durata del primo conflitto mondiale quale “atto
di nascita della guerra civile europea”. È lo sviluppo
conseguente delle antiche suggestioni di Ernst Nolte e di Eric
Hobsbawm, ma in specifico poi anche di quelle di Ferdinando
Cordova su arditi e legionari dannunziani (che risalgono addirittura
al 1969).
Il volume, corredato da un'importante e sostanziosa appendice
documentaria, oltre che da una suggestiva e significativa rassegna
fotografica, è articolato in undici densi capitoli: Introduzione;
L'arditismo di guerra; Lo “spirito ardito” sul fronte
interno; dai Fasci di combattimento al partito dell'ordine;
Nascita e sviluppo degli Arditi del Popolo; La parabola dell'arditismo
popolare; Il Partito comunista e l'inquadramento militare; Gli
Arditi rossi di Vittorio Ambrosini; Gli Arditi del popolo e
l'antifascismo anarchico; Nessuna pacificazione; Sulle ultime
barricate, estate 1922.
Se all'epoca della sua prima edizione questa monografia di Balsamini,
così come gli scritti di Marco Rossi e Eros Francescangeli,
dovevano considerarsi studi pionieristici e controcorrente,
esemplare esito euristico del superamento nei fatti di certe
impostazioni ideologiche ancora in auge nella sinistra storiografica,
oggi il volume s'inserisce a pieno titolo in una rinnovata feconda
stagione di ricerche. La rimozione ed espulsione di fatto del
fenomeno dell'arditismo popolare dalle vicende complessive del
movimento operaio e dall'antifascismo non era stata, evidentemente,
solo il frutto di meschini calcoli o magari di gretti pregiudizi,
ma la semplice diretta conseguenza dell'applicazione di un “metodo”
aprioristico, inaccettabile in sede storica. La “rottura
del monopolio statale della violenza” (Claudio Pavone)
messa in scena con il protagonismo adrenalinico di chi aveva
vissuto la trincea, elemento determinante per i successivi sviluppi
socio-politici; ed il concetto stesso di “guerra civile”,
applicato al primo dopoguerra già nel ponderoso saggio
di Fabio Fabbri (Utet 2009) sulle origini del fascismo, sono
concetti base e chiavi interpretative che qui troviamo ben utilizzati.
È un metodo questo che dovremmo sempre applicare.
Non bisogna aver paura di fare i conti con la Storia, e in particolare
con quella disturbante e “scomoda” all'apparenza,
dove cioè più si insinuano le contraddizioni.
In tal senso appare palese, nella vicenda degli Arditi del Popolo,
una sorta di militarismo antimilitarista, per così dire,
degli anarchici. Anarchici che furono fondamentale componente
di questo movimento. Contrastare le squadre di Mussolini, fin
da subito e manu militari, erano gli intenti generosi
ereditati, certo in forma spuria, dal cameratismo di trincea.
Nell'arditismo popolare si era in parte ricomposta la frattura
della guerra con la convergenza strategica nelle formazioni
militarizzate sia di ex interventisti divenuti anti-mussoliniani,
sia di antimilitaristi libertari e anarchici.
Sul piano di un'analisi di lungo periodo, pur tenendo in debita
considerazione la componente tradizionale e antica del sovversivismo
popolare, rimarrebbe – ad avviso del recensore –
da ricollocare opportunamente il pur breve eterogeneo fenomeno
nell'alveo tumultuoso di una dimensione tutta “italiana”
della storia europea. Un filone politico ideale, culturale della
“Sinistra” nel nostro paese, a partire dal Risorgimento
ha mantenuto una sua precisa riconoscibile identità su
alcuni fondamentali assi di pensiero. Laicismo, insurrezionalismo,
pluralismo, volontarismo, autonomia del movimento operaio, federalismo...:
è la cifra dei principi su cui si attesteranno poi scambio
e confronto fra libertari e azionisti-repubblicani, fra libertari
e liberalsocialisti. Questo particolare lascito post-risorgimentale
manterrà tracce ideali in significative esperienze novecentesche:
nelle trincee del 1915-1918, nell'arditismo popolare antifascista
come nella guerra di Spagna; finanche nella elaborazione “revisionista”
di Camillo Berneri per quanto concerne la strategia anarchica
novecentesca nelle alleanze per la lotta antifascista.
Giorgio Sacchetti
Noam Chomsky/
Il suo pensiero (anche) anarchico
«Il patrimonio delle idee anarchiche e delle grandiose
lotte di chi ha cercato di liberarsi dall'oppressione e dal
dominio, deve essere custodito e tesaurizzato, non come mezzo
per congelare il pensiero in un nuovo paradigma, bensì
come base da cui partire per comprendere la realtà sociale
e lavorare indefessamente per modificarla. Non vi è ragione
di credere che si sia giunti alla fine della Storia e che le
attuali strutture autoritarie e di dominio siano incise nella
pietra. Sarebbe d'altra parte un grave errore sottovalutare
le forze sociali che lotteranno per conservare il potere e il
privilegio», così scrive Noam Chomsky nella prefazione
al suo libro ultimamente pubblicato: Anarchia, idee per l'umanità
liberata (Ponte alle Grazie, Firenze 2018, pp. 390, €
18,50).
Mentre
Barry Pateman, sempre nella prefazione, sottolinea: «Lo
scopo di questo volume è presentare alcune idee e riflessioni
di Noam Chomsky sull'anarchismo, che è di solito ritratto
da media come autorevole anarchico/libertario/comunista/anarcosindacalista
(scegliete a vostro piacimento). In realtà, è
lui stesso a collocarsi in questo orizzonte politico. Abbiamo
selezionato una serie di saggi con l'intento di far conoscere
e apprezzare ai lettori non soltanto il contributo di Chomsky
al pensiero anarchico ma anche l'importanza dell'anarchismo
oggi, come strumento per interpretare e cambiare il mondo. Questo
volume raccoglie alcune conferenze e interviste mai pubblicate
che, insieme ad altri scritti ormai noti, confermano e approfondiscono
la visione di Chomsky su ciò che potrebbe essere l'anarchismo».
E dal capitolo settimo «Anarchia, marxismo e speranza
per il futuro» riprendo alcuni passaggi interessanti.
«Noam, da sempre sei un difensore del pensiero anarchico.
Molti conoscono la tua introduzione del 1970 al libro di Daniel
Guerin, L'anarchisme. Ma anche di recente, ad esempio
nel film documentario La fabbrica del consenso, hai colto
l'occasione per rimarcare la potenzialità dell'anarchia
e del pensiero anarchico. Cosa ti attrae dell'anarchismo?
Ero attratto dall'anarchismo già da ragazzo, da quando
cominciai a riflettere sul mondo da una prospettiva meno angusta.
In seguito, non avrei trovato valide ragioni per cambiare idea.
Penso che l'unica cosa sensata sia identificare e contrapporsi
alle strutture autoritarie, gerarchiche e di dominio in ogni
campo della vita: a meno che non si trovi una giustificazione
per la loro esistenza, esse vanno considerate illegittime e
dunque smantellate per estendere la sfera della libertà
umana. Ciò vale per il potere politico, per la proprietà
e la sua gestione, ma interessa anche i rapporti fra uomini
e donne, fra genitori e figli, la responsabilità riguardo
al destino delle prossime generazioni (che, a mio giudizio,
dovrebbe essere l'imperativo categorico del movimento ambientalista)
e così via. Ovviamente ciò significa sfidare le
gigantesche istituzioni della coercizione e del controllo: lo
Stato, le tirannie provate che dirigono irresponsabilmente gran
parte dell'economia nazionale e internazionale, eccetera. Ma
non solo.
Ho sempre pensato che l'essenza dell'anarchismo sia l'idea che
qualsiasi autorità che non riesce a farsi carico dell'onere
della prova vada abolita. A volte è possibile.»
E, a conclusione, l'indice di questo volume: 1. Obiettività
e cultura liberale, 2. Linguaggio e libertà, 3. Note
sull'anarchismo, 4. L'importanza dell'anarco-sindacalismo, 5.
Prefazione ad Antologija anarhizma, 6. Contenere la minaccia
della democrazia, 7. Anarchia, marxismo e speranza per il futuro,
8. Obiettivi e visioni, 9 L'anarchismo, gli intellettuali e
lo Stato, 10 Intervista con Barry Pateman, 11 Intervista con
Ziga Vodonik.
Luciano Lanza
Donne contro/
Nella Resistenza (e non solo)
La lunga lotta delle donne svolta a Roma, come in Italia, nell'800
e nel corso del secolo scorso per l'autonomia e l'emancipazione,
per i diritti e la propria libertà, ha trasformato in
modo determinante la società patriarcale italiana, sotto
l'aspetto antropologico, sociale e politico. Sebbene oggi la
specificità di genere si sia imposta in diversi tipi
di normative esistenti, da quelli relativi alla rappresentanza
politica a quelli concernenti la tutela della salute e le pari
opportunità, soltanto per citarne alcuni, tuttavia non
si può affermare che la violenza sulle donne nel nostro
Paese sia un ricordo di altri tempi.
A
ricordarci quanto ancora la violenza contro le donne sia presente
nella società italiana, radicata con fitte radici, è
la cronaca quotidiana delle aggressioni e dei femminicidi, nonché
i dati forniti dal Telefono Rosa che, in un libro appena uscito,
relativo alla sua attività trentennale, indica che in
tale periodo ha assistito 700.000 donne.
Pasquale Grella, in sintonia con la percezione di questa realtà,
con il suo libro Sovversive ad honorem (L'Incisiva Edizioni,
Roma 2018, € 10,00, pp. 104), ci ricorda quanto sia importante
conservare e accrescere ciò che, a Roma, le donne (anarchiche
e non) hanno conquistato nello scorso secolo. Questo libro cita
donne di assai rilevante statura come Anna Kulisciof, Maria
Montessori, Eleonora Fonseca Pimental, Cristina Trivulzio di
Belgiojoso, Luigia Minguzzi, Giuditta Tavani e dà voce
a donne perlopiù sconosciute, che hanno contribuito a
creare la base della democrazia.
Grella, con sensibilità partecipe, ci descrive anche
gli enormi sacrifici affrontati dalle donne che si opposero
alla violenza dello squadrismo e allo strapotere fascista e
che, dopo l'8 settembre del '43, lottarono nella Resistenza.
A questo proposito l'autore riporta fatti di inumana ferocia
che videro le donne pagare le proprie idee di libertà
con torture fisiche e morali e con la morte.
L'autore descrive come, nel secondo dopoguerra, i due partiti
egemoni intesero riportare le donne resistenti nelle mura di
casa e come ciò avvenne con contrasti tra queste e i
dirigenti comunisti.
Dal libro emerge soprattutto una profonda differenza tra l'attività
intrapresa prima e durante il fascismo. Fin dai primi del '900,
quest'attività fu aperta e diffusa, intrapresa dalle
donne anarchiche in gruppi “di genere” e in gruppi
“misti” contro la povertà, la miseria, le
abitazioni malsane, la mortalità infantile il militarismo;
attività che, durante il fascismo, divenne limitata e
spiata in ogni modo dal regime totalitario, sottoposta al ricatto
di vedersi togliere i figli per eccessiva opposizione sociale
e politica.
La sopraddetta attività svolta fino all'avvento del fascismo
è contestualizzata nella storia sociale e politica della
città di Roma, quando l'orientamento democratico del
sindaco Nathan nella gestione della edificazione di case popolari
e nello sviluppo dei servizi pubblici della città, venne
sopraffatto dagli interessi dei grandi proprietari terrieri.
Il periodo giolittiano vede il movimento anarchico romano ben
radicato in città e nella campagna romana, partito tra
gli altri partiti. Grella ricorda la lotta del movimento per
un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, come
ad esempio per l'utilizzo del chinino contro la malaria e per
la salute nelle campagne malsane. La lotta si riallacciava alla
propaganda e all'azione costruttrice di Errico Malatesta: Grella
scrive che “gli anarchici, sotto le direttive di Bakunin
e dei primi internazionalisti, muovono i loro primi passi proprio
verso questa direzione che ha come parola d'ordine la scolarizzazione
di massa, la creazione delle stazioni sanitarie in tutti i rioni,
e nelle sezioni di campagna, avviando una durissima battaglia
contro il caporalato. Si muovono con il fine di far riconoscere
ai maestri anche il ruolo di registrazione delle nascite. Su
tutti il documento Fra i contadini, scritto da Errico
Malatesta, il più diffuso documento politico anarchico
che spinge la partecipazione nelle scuole di campagna, nella
costituzione di biblioteche popolari e di rione, nei centri
sanitari pubblici”.
Nel libro vengono tracciati alcuni profili di donne anarchiche
nate o abitanti a Roma, fra i quali quello di Annamaria Pietroni
che “nel 1965 entra a far parte della nuova redazione
di Umanità Nova raccogliendo attorno a sé
un nuovo e agguerrito gruppo di giovani anarchici con i quali
guiderà la controinformazione militante all'indomani
della strage di Stato del dicembre del 1969”.
La Bibliografia e un racconto molto commovente sulla memoria
di una Roma sparita, concludono un grande libro.
Il libro, oltre a essere un'esperienza di conoscenza di fatti,
idee e generose militanze – condensati in un testo rigoroso,
sintetico e completo – è anche un'esperienza emotiva.
A rappresentare il valore e il messaggio del libro, basta il
commiato dell'autore: “Forse questo è il segreto
della memoria, le parole e i sogni che rimangono dentro le persone
che ascoltano, e se è così allora mi sento sicuro
perché non sono solo.”
Enrico Calandri
Psichiatria e infanzia/
Contro la medicalizzazione della libertà
Se
si può dire che il tipo di malattia/disagio siano sempre
stati specchio della società in cui si sviluppano, possiamo
anche dire che il disagio e le malattie dei nostri giorni sono
conseguenti alla paura. Paura di perdere il controllo, ansia
di non farcela, stress per riuscire a mantenere il ritmo della
corsa. E la cosa peggiore di tutto è che questo sta coinvolgendo
fasce di età sempre più giovani, entrando in ambienti
come la scuola il cui scopo dovrebbe essere lontano mille miglia
da qualsiasi ansia di prestazione o competitività. Ma
quando a bambini di una dozzina d'anni viene dato un “cartellino
da timbrare” – lo chiamano badge (distintivo)
in inglese – che va usato all'ingresso di scuola, così
da sapere sempre chi c'è e chi non c'è ed evitare
di perdere tempo con l'appello, il segnale è pessimo,
indica qualcosa che velocemente sta trasformando la scuola pubblica
in un luogo di addestramento piuttosto che di educazione, un
posto dove essere bambini non si può.
Divieto d'infanzia. Psichiatria, controllo, profitto,
a cura di Chiara Gazzola e Sebastiano Ortu (Pisa 2018, pp. 94,
€ 10,00) e ristampato nel 2018 da quelli della casa editrice
BFS, è un libro uscito in prima edizione dieci anni fa,
creando un certo allarme, in quanto denunciava come sofferenze
psicologiche causate da problematiche sociali venissero “risolte”
prescrivendo farmaci in grado di controllare i sintomi. Oggi
che l'assunzione di psicofarmaci, regolarmente prescritti, è
in continuo aumento da parte di tutta la popolazione mondiale,
si è resa necessaria una ristampa che aggiornasse soprattutto
sulle diagnosi riguardanti infanzia e adolescenza.
Siamo parte di una società che offre precarietà
in cambio di efficienza e concorrenzialità, che costantemente
crea senso di inadeguatezza, dove gli eventi naturali che segnano
le tappe cruciali nell'esistenza di un individuo – quei
periodi della vita in cui è necessario prendersi tutto
il tempo che serve, aiutarsi reciprocamente, essere attenti
– vengono medicalizzati come se niente fosse, così
che gravidanza, nascita, pubertà, andro/menopausa, sono
trattati alla stregua di malattie dove chi paga lo scotto maggiore
sono soprattutto le donne e i bambini ai quali non vengono più
lasciati spazi e tempi liberi per organizzarsi autonomamente
nel gioco, per i quali tutto è già predisposto
in modo tale che fantasia, creatività e anche, perché
no, della sana noia, non esistano più.
Per quelli che meno si adattano e manifestano insofferenza,
si può sempre fare una diagnosi medica che prescriva
qualche farmaco tranquillizzante.
Ovviamente gli americani in queste cose ci sanno fare e sono
sempre all'avanguardia, ma noi andiamo a ruota cercando di non
essere da meno. Quindi il disagio comportamentale invece
di essere valutato come un campanello d'allarme, la dichiarazione
di qualcosa che non funziona all'interno della relazione adulto-bambino,
viene incasellato come difetto/malattia, il genitore (o l'adulto
facente funzione educativa) è deresponsabilizzato, non
deve mettere in discussione se stesso e può delegare
“il problema” a un esperto che lo affronterà
dal punto di vista della salute mentale.
Tutti gli atteggiamenti infantili e/o adolescenziali non riconducibili
dentro una norma (ogni cultura ha le sue norme, i modi di fare
“giusti” nei luoghi appropriati) vengono così
contenuti chimicamente e il potenziale di libertà che,
attraverso fantasie, desideri, aspirazioni e anche comportamenti
trasgressivi, dovrebbe portare al formarsi di un'idea personale
dell'esistenza, viene eliminato risolvendo tutti i problemi.
Se poi si pensa che è considerato problema anche la timidezza,
possiamo farci un'idea di quanto possano essere arbitrarie tutte
le “spiegazioni scientifiche” volte a giustificare
la prescrizione massiva di psicofarmaci. Non vi sono dubbi,
quello in atto sembra proprio il tentativo di attuare un controllo
sociale preventivo, affinché il comportamento infantile
si adegui alla “normalità”. Che si abituino,
da subito!
«Ma se la normalità viene sempre più racchiusa
in un concetto di produttività, le “anormalità”
si moltiplicheranno e si cureranno con un sicuro vantaggio per
le multinazionali del farmaco e per chi è delegato ad
agire sul controllo e per il profitto (...) quando poi il termine
“diversità” può essere sostituito
da “inferiorità”, si concretizza una discriminazione;
non a caso tra gli utenti psichiatrici sono in aumento le persone
che vivono in un paese a loro straniero.»
È un libretto agile e chiaro, poco più di 90 pagine
che forniscono importanti riflessioni su infanzia, educazione,
malattia mentale e psichiatria, allarmanti dati su come funziona
la diagnosi, e conseguente terapia, per quello che è
stato chiamato disturbo da deficit attentivo sia negli
Stati uniti che in Italia. Possiamo leggere anche il questionario
che viene somministrato per formulare una diagnosi, l'aggiornamento
al 2013 del più diffuso manuale diagnostico e così
via a comporre un testo che tutt*, non solo genitori, insegnanti
o educatori, dovrebbero leggere.
Un invito rivolto a tutta la comunità adulta, affinché
prenda coscienza della situazione in corso, si informi e divenga
consapevole del dovere che abbiamo di difendere le nuove generazioni
perché fantasia, creatività e libertà di
scelta continuino a essere le loro caratteristiche peculiari.
Silvia Papi
Franco Serantini/
Perché ringraziare Corrado Stajano
È appena arrivata sugli scaffali delle librerie la nuova
edizione, in una bella veste grafica, de Il Sovversivo
di Corrado Stajano (Il Saggiatore, Milano 2019, pp. 207, €
21,00), accompagnata da una nuova introduzione dello stesso
autore e arricchita da una collezione di disegni inediti dell'artista
Costantino Nivola (1911-1988).
Pisa, 7 maggio 1972, ore 9.45. Franco Serantini, vent'anni,
studente/lavoratore, anarchico muore nel carcere Don Bosco dopo
essere stato trattenuto e interrogato per due notti e un giorno,
senza ricevere le cure di cui ha un evidente bisogno.
Nel tardo pomeriggio di due giorni prima, nel centro della città
presidiata da un incredibile dispiegamento di forze dell'ordine,
una manifestazione antifascista indetta contro il comizio del
deputato Giuseppe Niccolai del MSI-DN, viene dispersa dalle
cariche della polizia con scontri violentissimi tra poche centinaia
di manifestanti e i poliziotti. In Lungarno Gambacorti, nei
pressi dell'angolo con via Mazzini, Franco viene accerchiato
e aggredito da una decina di poliziotti, per lo più suoi
coetanei, tempestato di calci, pugni e manganellate con una
ferocia che non risparmia alcun lembo del suo corpo.
Fino ad allora, quella di Franco Serantini è stata un'esistenza
trascorsa con difficoltà affettive legate all'assenza
di una famiglia, alla povertà e all'emarginazione coattiva
negli istituti minorili voluta da uno Stato ottuso e arrogante.
La sua storia è quella di un orfano che ha perso anche
la madre e il padre adottivi, costretto a passare da un brefotrofio
a un istituto, fino a ritrovarsi in riformatorio a Pisa anche
se non ha commesso alcun reato. Proprio qui, alla fine degli
anni Sessanta, nella città che gli appare come un bellissimo
teatro, perso fra tanti altri ragazzi che affollano le vie e
le piazze, Franco vive i suoi anni più felici. Gli ultimi.
Sembra
la trama di un romanzo ottocentesco, ma nel Sovversivo
l'indagine sulla morte dell'anarchico Serantini è condotta
attraverso un coro di voci reali, un'attenta lettura dei documenti
della burocrazia giuridica e dei giornali dell'epoca, componendo
una narrazione civile di limpido rigore e grande partecipazione
emotiva. Un libro che ha avuto il merito di proiettare la figura
di Franco all'attenzione della coscienza civile nazionale.
Un libro che è stato ampiamente letto sia dalla generazione
dei giovani che come Franco riempivano le piazze di allora,
sia quelle successive che hanno raccolto e custodito gelosamente
la sua memoria. Ne sono testimonianza non solo le tre fortunate
edizioni pubblicate dall'Einaudi nel 1975, 1976 e 1979 in migliaia
di copie, che ebbe anche una traduzione in lingua tedesca –
Der staatsfeind: leben und tod des anarchisten Serantini,
Berlin, Klaus Wagenbach, 1976 –, ma anche quelle degli
anni Novanta, la prima sempre dell'Einaudi in coppia con un
altro lavoro di Stajano, L'Italia nichilista (1992) e
la seconda a cura del giornale «L'Unità»
(1994); infine come non ricordare in anni più recenti
le nuove edizioni curate dalla BFS, casa editrice della Biblioteca
dedicata a Franco, quella del 2002 e poi quella del 2008, in
coedizione con “A” rivista anarchica con in allegato
il DVD S'era tutti sovversivi di Giacomo Verde.
Come spesso accade nelle opere di Corrado Stajano, la vicenda
di un solo individuo svela il male di un paese intero, e nel
corpo di un ragazzo si rintracciano i segni di un tempo spietato,
lacerato dai conflitti politici e sociali e da una “giustizia”
di Stato che semina ingiustizie.
Rileggere le pagine dedicate a Serantini, qui proposte con i
bellissimi ed efficaci disegni di Costantino Nivola, significa
riportare alla memoria, come accennato nella nuova introduzione
al libro dello stesso Stajano, anche i volti di Carlo Giuliani,
Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi e di tante altre vittime
innocenti. Storie di oggi: soprusi delle forze di polizia, depistaggi
giudiziari, giovani vite finite che mettono sotto accusa uno
Stato incapace di processare se stesso, e raccontano la notte
di una democrazia che abdica violentemente alle proprie regole.
Scrive Stajano che «quasi mezzo secolo dopo l'altra Italia
non è ancora riuscita a ascoltare la lezione di dignità
umana dettata dalla legge e dalla Costituzione della Repubblica
(art. 2; art. 3; art. 13)». Il giornalista ricorda però
anche l'impegno delle madri e delle sorelle delle vittime della
violenza dello Stato, come degli amici e compagni di Serantini,
e della loro energia positiva nel ricercare costantemente la
verità e la giustizia, speranza per il futuro di un Italia
diversa e migliore.
Ma oggi, anche se non abbiamo una “verità giuridica”
sul caso della morte di Serantini – rispetto ad altri
casi più recenti dove la “giustizia” ha svelato
le responsabilità con nomi e cognomi di efferati delitti
di Stato – della storia dell'anarchico ventenne abbiamo
però la verità storica tenuta in vita grazie alle
tante testimonianze che negli anni hanno permesso di non dimenticare
questa tragica vicenda: come quelle dei volti anonimi di cittadini
che ogni anno nella ricorrenza depositano fiori sulla tomba
o al monumento in Piazza S. Silvestro (che la gente chiama comunemente
Piazza Serantini); o dei suoi compagni di idee e di molti altri,
tra cui molti artisti e poeti che hanno dedicato opere di valore
alla memoria di Serantini.
Un esempio illustre, segnalato anche dalle pagine di questa
rivista e ricordata anche da Stajano nella sua nuova introduzione,
è stata l'opera del musicista pisano, Francesco Filidei,
un'impresa prestigiosa e ardita dal punto di vista della tecnica
musicale; oggi poi si aggiunge questa ulteriore testimonianza
artistica di Nivola che, emigrato negli USA ancora giovane,
lavorò nello studio di Le Corbusier, fu vicino stilisticamente
a Saul Steinberg, insegnò alla Columbia University, alle
università di Harvard e di Berkeley. A Orani, nel suo
paese natale in Sardegna, il Museo Nivola ospita un'importante
collezione delle sue opere.
Questo artista si appassionò alla storia di Serantini
e una sera in casa di Stajano disegnò nella pagine bianche
del libro della prima edizione, come incipit all'inizio dei
capitoli e ai margini delle pagine, la vita e la morte del giovane
anarchico, facendo sì che quell'esemplare del libro divenisse
un «unicum editoriale» che oggi vede la luce.
Dunque, per Stajano, la vicenda di Serantini si conserva grazie
alla memoria di molti, con un continuo ma necessario rito civile,
perché non se ne dimentichi la figura, ed è anche
per questo che nell'introduzione ricorda l'esistenza della stessa
Biblioteca che da 40 anni continua coraggiosamente nel suo lavoro
di raccolta di testimonianze e a custodire la memoria dell'anarchico
Franco Serantini.
Franco Bertolucci
Voglio aggiungere il mio personale (e redazionale) ringraziamento a Corrado Stajano, l'unica persona cui ho scritto in questi anni, privatamente, chiamandolo “Maestro”. Nessuna piaggeria, solo l'intima convinzione che anche prendendo in considerazione solo questo suo libro, il suo ruolo nella vicenda Serantini sia stato fondamentale. E Maestro, a mio avviso inarrivabile, nello stile di scrittura, nella scorrevolezza del racconto, nell'uso di quei termini in quel punto preciso. Una scrittura godibile e rispettosa. Rara.
Quel ragazzo dagli occhiali spessi, spessissimi, che Aurora e io conoscemmo a varie riunioni degli anarchici toscani all'inizio degli anni '70, nella vecchia sede degli anarchici pisani, sopra la Pubblica Assistenza in via San Martino, sarebbe rimasto uno dei tanti, nella lunga lista delle vittime della violenza poliziesca. È stato quel libro, è stata la profonda, appassionata e rigorosa ricerca di Stajano a strapparlo dall'anonimato e renderlo pubblico, conosciuto, rispettato.
Stajano ha ora i suoi 89 anni, 21 più di me. Ero ancora un ragazzo quando intorno al 1973 lo accompagnai a Carrara, sulla sua auto, in compagnia di sua moglie, per metterlo in contatto con alcuni compagni carraresi.
Lo conoscevo già come un giornalista democratico, impegnato, con uno stile sempre rigoroso, mai urlato, determinato e sereno. Era al nostro fianco nella mobilitazione per Pinelli, Valpreda, la strage di stato. Ci è stato al fianco in questi decenni, con simpatia e rispetto: con la sua attività i suoi numerosi libri, gli innumerevoli articoli, sempre ispirati alla sua concezione di un vivere democratico, caratterizzato da un rigore morale che non è mai stato bigottismo.
Con Stajano feci anche un paio di interventi pubblici a Pisa e a Livorno sulla vicenda Serantini. Un onore per me. E ricordo bene che durante una cena, presente Franco Bertolucci, Corrado ebbe modo di criticare con fermezza certe posizioni assunte da “A” in relazione ad alcuni episodi di violenza politica. Mi mise in crisi subito, mi fece riflettere e a distanza di anni riconosco che aveva ragione lui. La sua riflessione, il suo equilibrio, la sua onestà sapevano cogliere ben oltre le apparenze. È persona gentile, ma non meno determinata e ragionante (“Ma Paolo, come potete...?”): lo ricordo bene e con gratitudine.
Gli auguriamo buona salute, che possa continuare a scrivere – lui democratico e antifascista – cose che hanno fatto e fanno pensare milioni di persone.
Da queste colonne gli mandiamo un caro saluto, ben sapendo che nella differenza di opinioni su tante cose, sempre lo ritroveremo tra le persone che rispettano il nostro pensiero e il nostro movimento. La cui storia, in alcune sue pagine significative (non solo la vicenda di Serantini), lui ha contribuito a indagare, ricostruire, far conoscere meglio di quanto noi avremmo e abbiamo saputo fare. Non è poca cosa.
Grazie Corrado.
Paolo Finzi
Beppe Chierici/
Viaggio nell'arte e nell'umanità
Se
Fabrizio De André e Nanni Svampa sono i nomi più
illustri che hanno cantato e ci hanno fatto conoscere “il
francese di Marsico Nuovo”, Georges Brassens, a Beppe
Chierici si deve attestare un immane e meticoloso lavoro di
traduzione e incisione dei non sempre facili testi dell'imperatore
degli chansonnier. E, in una lettera inviata nel novembre
del 1976, fu lo stesso Brassens a riconoscerlo: “Mio caro
Beppe, sono stato molto felice delle tue traduzioni che sono
a parer mio le migliori e le più fedeli che mi siano
state fatte in questa bella lingua italiana”.
Fino ad oggi il cantastorie e attore cuneese, sempre cercando
di muoversi lungo una traiettoria di fedelissima aderenza linguistica,
ha tradotto e registrato esattamente cento testi del cantautore
francese dalle origini lucane, gli ultimi tredici (tra cui gli
incantevoli “La route aux quatre chansons”, “Le
bistrol” e “Les philistins”) fanno parte di
“Cento volte W Brassens”. L'album è allegato
a Un Ulisse da taschino (edizioni Cenacolo di Ares, 2017,
pp. 282, € 18,00), un libro-intervista realizzato con il
fumettista romano Dario Faggella, il quale aveva già
illustrato con un incedere naif il precedente libro-cd
di Chierici La cattiva erba.
Sottoposto a un fuoco di fila di domande da Faggella, Chierici
ricorda gli indimenticabili incontri parigini con Brassens,
il cui verbo e canto poetico sono riusciti a dare alla sua esistenza
un senso straordinario. “Cantare Brassens è stato
per me un inno alla vita, un'ode al rispetto degli altri, un
sentirmi vicino alle cattive erbe, ai gatti randagi, agli emarginati,
ai diseredati”.
L'intervista-conversazione con Faggetta, naturalmente, è
anche una veloce traversata nella vita ribelle e scanzonata
di Chierici che, per dar sfogo ai demoni interni dell'artista
e dell'impenitente avventuriero, dalla povera e piccola provincia
piemontese è andato per il mondo, passando per la Svizzera,
Roma, l'Africa, la Francia fino ad approdare al suo attuale
“buen retiro” umbro a Pesciano di Todi. Nel libro,
Chierici - irrequieto e libertario qual é - rievoca le
prime esperienze con la scuola teatrale Dimitri in Svizzera
e il teatro di strada di Gian Maria Volontè, il sodalizio
con la prima compagna e cantastorie Daisy Lumini, quindi la
collaborazione a Parigi con il regista teatrale Jean Louis Martinelli,
le partecipazioni alle fiction televisive e nel cinema (nel
riuscito, ma sfortunato film “Le sabbie mobili”
girato nel 1996 da Paul Carpita fu anche tra i protagonisti).
Quello di Chierici è stato un lungo e affascinante viaggio
nell'arte e tra l'umanità; oggi, nonostante l'età
(ottantuno anni), continua instancabilmente a far splendere
il canto umanista e generoso di Brassens, nonché a incidere
mirabili canzoni per bambini con la compagna Mireille Safa.
Mimmo Mastrangelo
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Beppe
Chierici e Georges Brassens |
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