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La detenzione amministrativa
di Giulio D'Errico
T., un ragazzo in sciopero della fame nel CPR (Centro di Permanenza per il Rimpatrio) di Torino, ha contattato Radio Black Out, radio di movimento torinese. Al momento della stesura di questo articolo, T. era al trentaquattresimo giorno di sciopero della fame per richiedere la propria libertà e per gettare una luce sulle brutali condizioni in cui gli “ospiti” del centro sono costretti a vivere.
L'altra faccia di Schengen
I CPR sono l'ultima versione dei centri di detenzione per migranti.
In Italia sono stati introdotti nel 1998 e hanno avuto diversi
nomi: CPT (Centri di Permanenza Temporanea), CIE (Centri di
Identificazione ed Espulsione) e ora CPR.
All'interno dei CPR sono rinchiuse persone che non hanno commesso
alcun reato, la cui sola “colpa” è l'aver
tentato di raggiungere l'Italia o il resto d'Europa nonostante
non fosse a loro permesso dalle vigenti politiche migratorie
dell'Unione Europea. La detenzione di queste persone è
strettamente connessa con la “libertà di movimento”,
così come è stata pensata e definita dai politici
Europei al tempo degli accordi di Schengen. Una delle conseguenze
di quegli accordi fu l'identificazione di tutte quelle persone
che non avrebbero goduto di tale libertà e l'introduzione
di nuovi dispositivi di limitazione dei loro diritti.
Nel corso degli anni, i limiti massimi di detenzione sono cresciuti
da 30 giorni nel 1997 fino a 18 mesi nel 2011, per poi scendere
ancora nel 2013 fino a 90 giorni, in seguito all'approvazione
di una direttiva comunitaria.
Con le leggi in materia di migrazione introdotte dai ministri
degli interni degli ultimi governi, Marco Minniti prima e Matteo
Salvini poi, il limite è tornato a crescere fino agli
attuali 180 giorni.
I centri sono gestiti da società private e controllati
da guardie private, forze di polizia e dall'esercito. Sul territorio
italiano ci sono 7 centri in funzione: a Bari, Brindisi, Roma
(unico centro femminile), Potenza, Torino, e poi a Trapani e
Caltanissetta, dove sono stati recentemente riaperti.
Quattro nuovi centri dovrebbero aprire nel primo semestre di
quest'anno, con l'obiettivo di istituire un centro per regione.
Il numero esatto e la capacità dei centri, come anche
informazioni precise sulla gestione o sulle future aperture,
sono difficili da reperire. Ministero, prefetture e amministrazioni
locali molto spesso dimenticano di pubblicare dati e
informazioni, o di rendere pubblici i bandi per l'assegnazione
della gestione dei centri.
A dicembre 2018 la capacità dei centri in funzione era
di 1035 posti. Il centro di Caltanissetta aveva chiuso nel 2017
in seguito a una rivolta dei detenuti. L'unico annuncio pubblico
sulla riapertura del centro è stato dato da Salvini durante
uno dei suoi comizi. Il centro di Trapani era stato costruito
come CIE e poi utilizzato invece come hotspot (centro di accoglienza),
nessun annuncio sulla sua riconversione a CPR è stato
dato, ma nei primi mesi del 2019 diverse persone vi sono state
rinchiuse in attesa di essere deportate. Altri centri sono stati
creati in vecchie prigioni, o ospedali psichiatrici, ospedali
abbandonati o basi militari.
Troppo spesso le condizioni all'interno dei CPR sono ignorate,
in parte a cause delle ostruzioni a ogni forma di comunicazione
con l'esterno imposte da guardie e operatori. Dal 2001 la stampa
non è ammessa all'interno delle strutture.
Un fenomeno globale
Praticamente in tutti i paesi europei sono stati introdotti
– seppure in forme diverse – prigioni speciali per
migranti. In alcuni paesi è un fenomeno di lunga durata,
come ad esempio in Francia, in cui i CRA (centres de rétention
administratif) sono attivi fin dagli anni Sessanta. Al di
là dei confini europei, di recente i media internazionali
hanno fatto luce sugli ampi poteri discrezionali e i meccanismi
di funzionamento dell'agenzia per l'immigrazione statunitense,
come anche sulle condizioni de-umanizzanti del centro detentivo
offshore del governo australiano sull'isola di Nauru.
Per quanto riguarda l'Unione Europea, Francia e Regno Unito
hanno i più grandi sistemi di detenzione per migranti.
50 istituti sono presenti in Francia (di cui la metà
nei territori oltremare), con una capacità totale di
2,000 posti; nel Regno Unito ci sono invece solo 9 centri detentivi,
più un numero di strutture per detenzioni “brevi”,
per un totale di oltre 3,500 posti. Qui non esiste nessun limite
massimo di detenzione.
Dietro il carattere amministrativo di tutte queste strutture
si cela la necessità di superare quei limiti e quelle
(poche) garanzie imposti dai sistemi penali nazionali. Non c'è
reato a monte della pena, perché ufficialmente pena non
è. Non vi sono leggi a specificare condizioni e trattamento
dei detenuti, perché detenuti non sono. Come si può
leggere in una delle descrizioni dei CRA francesi, queste non
sono prigioni, qua la “privazione della libertà
non ha un carattere punitivo”.
La gestione privata di queste strutture è un altro passo
verso la de-responsabilizzazione delle autorità pubbliche
nei confronti delle strutture detentive di tutti i tipi, e nella
loro trasformazione in business. A spartirsi la gestione della
maggior parte dei centri, in Italia, come in Francia e Regno
Unito, sono aziende multinazionali: G4S, tra le più grosse
compagnie al mondo nel settore sicurezza, gestisce le strutture
Britanniche (come alcune strutture detentive negli Stati Uniti
e in Australia); Gepsa, sussidiaria del gruppo francese Engie,
gestisce sicurezza e logistica in diversi centri sui territori
italiani e francesi. Negli ultimi anni diversi scandali hanno
colpito entrambe le aziende per le brutalità e le vessazioni
degli operatori dei centri francesi e britannici.
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Torino - Il CPR (Centro di Permanenza per il Rimpatrio) |
Dentro il CPR di Torino
“La situazione è molto brutta. È orribile.
Gli animali hanno più diritti. Se avessi un animale a
casa lo tratterei meglio di come ci trattano in questo posto.”
Al 34° giorno di sciopero della fame, T. è in gravissime
condizioni. Da settimane rifiuta liquidi e medicine. I reni
hanno iniziato a causargli dolore e da settimane è costretto
a muoversi in sedia a rotelle per la visita medica quotidiana.
Di recente è stato trasportato all'ospedale Martini,
dove i medici hanno ritenuto non fosse necessario ricoverarlo.
Come se non bastasse, al rientro nel CPR, è stato picchiato
dalle guardie, per essersi rifiutato di rientrare nella cella
d'isolamento in cui è tenuto per punizione. A oltre un
mese dall'inizio dello sciopero, nessuno dall'amministrazione
del centro l'ha contattato e nessuna azione è stata presa.
Nella sua testimonianza racconta di avere i suoi documenti nel
Regno Unito, dove ha vissuto prima di essere espulso in Italia,
e chiede di essere rimpatriato lì o nel suo paese d'origine.
L'amministrazione privata del centro si è finora rifiutata
di venire incontro alle sue richieste. Per ogni giorno di detenzione,
la Gepsa riceve più soldi dal Ministero dell'Interno
e dall'Unione Europea. Di questi soldi, solo una piccola percentuale
viene spesa per migliorare le condizioni dei detenuti, che infatti
le descrivono come un “disastro umanitario”.
Come dichiara T., le modalità di lavoro degli operatori
del centro sono più simili a quelle dei trafficanti di
esseri umani che a qualsiasi tipo di autorità pubblica.
E difatti non lo sono. Il linguaggio usato dagli operativi è
amministrativo: le persone intrappolate all'interno non sono
detenuti, ma ospiti. Per legge, entro 72 ore dal trasferimento
nel CPR, ogni ospite deve essere portato di fronte a un giudice
per convalidare la detenzione. Questo è molto spesso
l'ultimo momento in cui vengono comunicate notizie dall'esterno.
Durante la detenzione – che molto spesso dura tutti i
sei mesi stabiliti come limite – nessuna informazione
viene comunicata sullo stato o i cambiamenti delle pratiche
o riguardo alla prevista deportazione. Avvocati e difensori
d'ufficio sono raramente visti: appaiono solo nel caso in cui
ci siano documenti da firmare e molto spesso ignorano le telefonate
dei propri clienti.
Nessuna attività è fornita all'interno. Libri
e riviste non sono ammesse perchè infiammabili, c'è
un televisore ma senza telecomando, fondi per corsi di lingua
e altre attività sono stati tagliati dall'ultimo provvedimento
salviniano su migrazione e sicurezza. Guardie e personale medico
raramente intervengono quando chiamati, come nel caso di risse
o incidenti.
Uno dei problemi maggiori riguarda il cibo. Reclami e lamentele
su igiene, qualità e modalità di distribuzione
del cibo non sono una novità, ma nella testimonianza
di T. raggiungono nuovi livelli:
“In questo posto non ci sono nemmeno un tavolo o delle
sedie dove potersi sedere e mangiare insieme. Noi detenuti dobbiamo
mangiare sui nostri letti o per terra. Il cibo arriva in scatoloni
contenenti monoporzioni in confezioni di plastica. È
sempre freddo e mai in orario [...] e lo spingono sul pavimento
insieme al pane. Come fosse cibo per cani.”
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Bedford (Regno Unito) - Il centro di detenzione per migranti Yarl's Wood |
Proteste dentro e fuori
In Italia come all'estero le proteste all'intero dei centri di detenzione sono frequenti, ma solo raramente riportate. Piccoli atti di resistenza e solidarietà quotidiani, tentativi di fuga, danneggiamenti, rivolte e scioperi della fame hanno costellato l'esistenza di queste strutture fin dalla loro introduzione. Diverse rivolte hanno severamente danneggiato i centri in diversi paesi Europei e negli ultimi anni i detenuti di diverse strutture sono riusciti a coordinarsi tra loro in proteste e scioperi della fame. A gennaio in Francia una protesta iniziata nel CRA di Vincennes si è espansa ad altre strutture, diffondendo – tramite l'appoggio di diversi compagni all'esterno – comunicati e rivendicazioni dei prigionieri in lotta.
A Torino negli ultimi sei mesi il CPR è stato danneggiato più volte e alcune aree sono state date alle fiamme nel tentativo di attirare l'attenzione del mondo esterno. Più di recente alcuni prigionieri sono saliti sul tetto del centro per protestare contro le condizioni in cui sono costretti a vivere. In Italia pochi sono i gruppi che all'esterno lavorano attivamente per supportare queste proteste o per instaurare contatti con chi è all'interno dei centri. Quei pochi che lo fanno vengono colpiti da impressionanti dispositivi repressivi, come successo ai compagni anarchici torinesi dell'Asilo Occupato a febbraio. Etichettati come terroristi da più parti, sono stati bersaglio di una canea mediatica particolarmente inferocita, puntellata da inverosimili richiami ai fantasmi della lotta armata. Alcuni dei compagni arrestati durante l'operazione Scintilla sono ancora agli arresti per “associazione sovversiva”.
“Mandatemi ovunque, ma fatemi uscire da qui”
La richiesta alla base dello sciopero della fame di T. è semplice e chiara: “Il problema è peggiore di quanto si possa immaginare. [...] Guardavo film come Conan il barbaro o i film con quei mostri strani... e noi stiamo vivendo in quella realtà lì, in questo posto. [...] Ho perso 11 kg. Sono tra la vita e la morte. Voglio mandare un messaggio a chiunque in Italia e nel mondo. Quello che viene fatto in questo posto è discriminazione, e non importa a nessuno. [...] A tutte le persone che stanno pensando o cercando di arrivare in Italia: “Non fatelo!”. Stanno distruggendo la nostra speranza, stanno distruggendo tutto in noi. [...] L'unica cosa che chiedo è la mia libertà. Mandatemi dovunque volete, mandatemi in India, sulla Luna, mandatemi in mezzo al mare, ma tiratemi fuori di qua. Qui è peggio di una prigione, è peggio che perdersi nel deserto.”
Giulio D'Errico
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