La piccola repubblica partigiana di Ettore
Il corpo di Ettore Castiglioni, milanese di buona famiglia,
alpinista tra i più forti degli anni Trenta, emerse nel
giugno del ’44 dalla neve che si scioglieva, nei pressi
del passo del Forno che divide l'Italia dalla Svizzera, o la
Valtellina dall'Engadina. In marzo l'avevano fermato al di là
del confine, ormai gli elvetici lo conoscevano: un italiano
solitario che faceva avanti e indietro dalle montagne di frontiera,
forse per tenere i contatti con gli antifascisti rifugiati in
Svizzera, alcuni dei quali lui stesso aveva accompagnato di
là.
Dove era stato arrestato non c'era un carcere, così per
evitare che scappasse gli avevano requisito abiti e scarpe e
l'avevano chiuso in una stanza d'albergo. Castiglioni era scappato
lo stesso: in marzo, all'alba, sotto la nevicata, si era calato
dalla finestra e con una coperta sulle gambe e degli stracci
ai piedi aveva risalito il ghiacciaio puntando un valico a tremila
metri. Era perfino riuscito a passare.
Ma tante volte è la discesa a tradire gli alpinisti,
proprio quando sembra fatta e la mente si rilassa: oltre il
confine Castiglioni doveva essersi fermato a riposare, si era
appoggiato contro un masso, aveva ceduto alla fatica e al sonno
e non si era più svegliato. Era morto nella neve e nel
modo che desiderava: “LIBERTÀ. E così sia”,
aveva scritto nel suo diario il 25 luglio dell'anno prima, come
dettando il proprio epitaffio.
Quella borghesia ottocentesca milanese
Era nato nell'agosto del 1908. Aveva due fratelli più
vecchi di lui: Manlio (1897-1968) fu geografo, cartografo, dirigente
del Touring Club Italiano; Bruno (1898-1945) geografo e glaciologo,
docente universitario a Pavia dove restò vittima di una
raffica di mitra tedesca nei giorni della Liberazione. C'era
anche una sorella, Fanny (1899-1992), giovane infermiera volontaria
durante la Grande Guerra, quando all'Ospedale Maggiore venivano
scaricati i feriti del Piave. Insomma una famiglia milanese,
di quella borghesia ottocentesca che non esiste più,
ai cui figli veniva impartita un'educazione laica, liberale,
umanistica nel senso più vasto del termine: ne facevano
parte gli studi classici ma anche la pratica della musica e
dell'arte, l'impegno civile, i viaggi per l'Europa. E ne faceva
parte la montagna.
La montagna era la scuola in cui insegnare a questi figli colti
e benestanti altri valori, la forza d'animo, l'indipendenza,
la responsabilità di se stessi e degli altri, l'amore
per una vita libera, frugale, divisa con i compagni più
intimi. “A Milano mi sento sempre di passaggio, anche
quando vi resto per parecchi mesi. Fra le mie crode mi sento
a casa mia.” Le crode sono nel lessico alpinistico le
pareti delle Dolomiti. Per tutta la giovinezza furono i due
mondi di Ettore, le sue due stagioni: gli inverni in città,
lo studio del pianoforte, i concerti alla Scala, le aule universitarie,
la biblioteca Sormani, i libri; le estati a vagabondare sui
sentieri del Trentino, dormire nei rifugi e nei fienili, spellarsi
le mani sulla roccia. “Partivo da solo, non sapevo dove
andavo: prendevo una strada e la seguivo alla ventura. E così
vivevo della vita più piena, più pura, più
giovanile.”
Poi però le cose sarebbero cambiate in fretta. Ettore
aveva diciannove anni, nel 27, quando morì sua madre.
Nel 30 partì militare, nel 31 tornò a Milano
per laurearsi in legge. Allora il tempo delle scorribande sembrò
finito per l'avvocato Castiglioni: il padre aveva dei progetti
per quel figlio irrequieto e lo spedì a farsi le ossa
a Londra, nel 32, nello studio di un amico, forse anche per
levargli le montagne dalla testa. Ottenne il risultato contrario:
in quell'anno di esilio Ettore comprese in pieno la sua vocazione
e decise di seguirla, a costo di deludere il padre. “Dal
momento che ho la possibilità di esser felice e di vivere
pienamente la mia vita, perché non debbo farlo? Ho sentito
la necessità di dedicare la mia capacità esclusivamente
alla montagna.”
In montagna di nascosto
Tornato in Italia, trovò o forse gli trovarono il lavoro adatto: autore di guide escursionistiche per il Touring Club Italiano. Un incarico modesto per uno del suo rango, però gli permetteva di stare in montagna tutto il tempo che voleva. Infatti a metà degli anni Trenta raggiunse l'apice della carriera alpinistica: tra le Dolomiti del Brenta e la Marmolada firmò vie storiche di sesto grado, allora il limite insuperato. Era anche la stagione degli eroi di regime, campioni fascisti loro malgrado come Emilio Comici, Giusto Gervasutti e lo stesso Castiglioni, che ricevuta una medaglia per meriti sportivi si indignò, e per non dover stringere altre mani smise di pubblicare le relazioni delle proprie scalate. Protesse la purezza del proprio andare in montagna andandoci di nascosto: “Il vero alpinista non può essere fascista, perché le due manifestazioni sono antitetiche nella loro più profonda essenza.”
Lo comprese una volta per tutte il 18 marzo del 36, quando, vagabondando con gli sci sull'altipiano delle Mésules, cadde e si ruppe una gamba. Restò per ore nella neve in attesa dei soccorsi, ed ebbe un'esperienza di pace e armonia con la montagna che avrebbe ricordato per sempre. Dopo “il giorno delle Mésules” (sarebbe poi stato il titolo dei suoi diari, dati alle stampe negli anni Novanta dal nipote Saverio Tutino, da cui traggo queste righe) non gli sembrò più importante collezionare cime. “Solo chi raggiunge l'amore è alpinista”, scrisse, e qui sta forse il nucleo più autentico del suo antifascismo, la negazione dei principi di volontà, potenza e conquista che in quegli anni stavano trascinando l'Europa nel buio.
L'8 settembre nel caos generale
Al suo sguardo tutto proteso verso l'alto e l'assoluto non sfuggivano i cambiamenti del presente. Ecco una descrizione delle prime stazioni sciistiche che Ettore vide nascere con orrore, arrivando a presagire la desolazione dei tempi nostri: “Gli alberghi chiusi, non un villeggiante, non una macchina turbavano il silenzio del paesaggio, quelle orribili costruzioni sembravano improvvisamente abbandonate, e già mi pareva di immaginarle diroccate, rivestite di edera, sommerse dalla foresta, come se il tempo potesse già aver fatto giustizia di quella sacrilega presunzione umana.”
A Milano gli capitò di incontrare un gruppo di camicie nere in marcia e di osservare “la vigliaccheria che l'educazione fascista genera nei giovani, rivestendoli di divise e svuotandoli di moralità.” Durante un viaggio in Germania, lui così innamorato del romanticismo tedesco, scoprì che l'intero paese si era trasformato in “un campo di manovra delle camicie brune: anzi più propriamente sono di color kaki, colore perfettamente intonato a questa massa di imbecilli, vigliacchi, oltracotanti e boriosi.” Era un antifascismo solitario il suo, aristocratico, individualista, poco propenso alla politica, più portato all'azione.
E il momento dell'azione arrivò presto. Nel 43 fu richiamato alle armi e assegnato come istruttore alla scuola militare di alpinismo di Aosta (quel giorno scrisse: “Abituato, anzi viziato, alla più illimitata libertà e indipendenza di me stesso, come potrò ritornare in un gregge di pecore e lasciarmi guidare passivamente da uno stupido pastore?”).
L'8 settembre, nel caos generale, da ufficiale dell'esercito italiano non ebbe dubbi sul da farsi: prese con sé una decina di alpini e salì all'alpeggio del Berio, sopra al paese di Ollomont, in una valletta laterale che sembra non portare da nessuna parte. Ci sono stato: l'ultimo luogo felice di Ettore Castiglioni è un alpeggio diroccato, tre ruderi di baite ormai sul punto di crollare, alla fine di un sentiero che sale ripido dalla chiesa del paese. Il confine con la Svizzera è a tre ore di cammino da lì e presto dalla pianura cominciarono ad arrivare ebrei e antifascisti in fuga dai tedeschi, cercando qualcuno che li accompagnasse di là. Così Castiglioni diventò passeur, contrabbandiere di fontine per finanziare la banda, guida di una piccola repubblica partigiana. “Ci sentiamo davvero tutti compagni, tutti amici, tutti eguali.”
Era uno che per tutta la vita aveva cercato il proprio posto nel mondo e finì per trovarlo lì, nel tempo delle scelte, tra tre baite e un pugno di uomini, avendo bene in mente la direzione da tenere. “In alto, in alto, e sempre più in alto.” E così sia.
Paolo Cognetti
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