Fascismo/
Un secolo fa, la nascita
Negli ultimi tempi, non solo per il successo del romanzo “M”
di Antonio Scurati, si è tornati insistentemente a parlare
del periodo dell'ascesa del fascismo. Sull'onda del centenario
del 1919 (anno di fondazione dei Fasci di combattimento) anche
Mimmo Franzinelli, noto e apprezzato storico del fascismo e
dell'Italia repubblicana, è tornato in libreria con il
consueto rigore storiografico che contraddistingue le sue ricerche.
Fascismo anno zero. 1919: la nascita dei Fasci italiani di
combattimento (Mondadori, Milano 2019, pp. 289, € 22,00)
indaga proprio i primi passi del movimento mussoliniano, ancora
incerti, ondeggianti, perfino contraddittori e non privi di
cadute, purtroppo mai rovinose.
Mentre
i socialisti continuavano a predicare l'arrivo della Rivoluzione
come se fosse stata una necessità della storia, da attendere
a braccia aperte senza bisogno di prepararla, il 23 marzo 1919
in piazza San Sepolcro a Milano nascono i Fasci di combattimento,
diretti eredi dell'interventismo rivoluzionario, che nella formula
dell'”antipartito” mescolano una tensione sovvertitrice
delle istituzioni liberali al più urlato patriottismo
e a un feroce antisocialismo. Si tratta di un movimento di tipo
nuovo che fa della violenza il suo punto d'appoggio strutturale
e che, con gli incendi, le bastonature e le uccisioni andrà
togliendo nel corso dei mesi e degli anni successivi ogni spazio
di agibilità politica agli avversari.
L'adunata milanese è un evento chiave, troppo spesso
“sottovalutato o banalizzato dagli antifascisti”
(p. 6), ma che sul momento ha ben scarsa risonanza, snobbato
da stampa e opinione pubblica. I presenti sono appena duecento,
ben poco rispetto alle aspettative, e la riunione si scioglie
per stanchezza dell'uditorio dopo una sequela di interventi
irrilevanti. Ma Mussolini non si perde d'animo. È un
buon giornalista, energico, salace, provocatorio, dotato di
un bieco pragmatismo che gli consente di evitare, come diceva
Angelo Tasca, “i tranelli mortali della coerenza”
e di tenere insieme le contraddizioni interne a un confusionismo
rivoluzionario pronto a qualunque deriva. Al suo fianco futuristi
e arditi, con le loro intemperanze sempre più chiassose
per le strade di Milano contro tutti i “nemici della patria”.
È questo il clima del diciannovismo, che nonostante
la propaganda contro i “pescicani” arricchiti non
spaventa affatto la borghesia. Anzi, nella difficoltosa navigazione
nelle acque del dopoguerra la “stella polare” di
Mussolini resta l'antisocialismo, tradotto nel ripudio della
lotta di classe per guardare alla collaborazione produttivista
tra proletari e padroni, nell'interesse dell'economia nazionale.
Per questo, Franzinelli lo rimarca con decisione e ricchezza
di dettagli, i Fasci sono fin da subito ben sovvenzionati da
industriali e commercianti milanesi, i cui denari risultano
indispensabili alla sopravvivenza del movimento: “le sovvenzioni
ripagano il supporto fornito alla borghesia sul fronte della
guerra di classe” (p. 26).
Il numero di sezioni fasciste effettivamente attive nel 1919
rimane limitato, la loro esistenza è tormentata. La battaglia
elettorale di novembre condotta in solitaria nella lista Thévenot
(dal nome della bomba a mano in uso agli arditi) è una
disfatta clamorosa. L'odiato PSI è il primo partito in
Italia, mentre la lista fascista si presenta solo a Milano e
si attesta su un umiliante 0,08% dei voti. Se Mussolini prende
9.000 preferenze, Filippo Turati lo surclassa di oltre venti
volte, con 190.000 voti. Un corteo socialista sfila sotto casa
di Mussolini portando una bara col suo fantoccio.
Ma Mussolini, ancora una volta, invece di leccarsi le ferite
attacca e rilancia la guerra del fascismo contro il “nemico
interno”; se giocare la carta del sovversivismo patriottico
non ha dato buoni frutti, meglio rinsaldare i rapporti con i
capitani d'industria e guardare decisamente a destra, anche
se vuol dire perdere per strada qualche sansepolcrista di orientamento
rivoluzionario. Una svolta a destra che in realtà, come
sottolinea Franzinelli, non fa che inverare “dei presupposti
d'ordine presenti fin dalla fondazione dei Fasci di combattimento”
(p. 163) e che si concretizza nello squadrismo fascista, ovvero
in un'offensiva militare che insanguina il Paese e annichilisce
la forza numerica delle masse socialiste.
Poi, per circa un decennio, il rivoluzionarismo sansepolcrista
viene relegato nell'ombra: lo impone il rafforzamento dell'alleanza
con monarchia, Chiesa e industriali. Ma una volta consolidata
la dittatura e schiacciati gli oppositori è tempo di
edificare il proprio mito delle origini. In particolare nel
1929, decimo anniversario di fondazione, prende avvio la consacrazione
dell'epopea nata in piazza San Sepolcro, con la trasfigurazione
di quell'adunata in atto fondante dell'Italia littoria.
Franzinelli dedica particolare attenzione alla costruzione di
questo mito, che il regime ha più volte riscritto a seconda
delle convenienze del momento: eliminando dall'elenco della
prima leva fascista nomi divenuti col tempo scomodi (il repubblicano
Pietro Nenni, il filosofo Giuseppe Rensi, il sindacalista rivoluzionario
Alceste De Ambris, il maestro Artuto Toscanini, il giurista
Silvio Trentin, solo per fare qualche esempio) e aggiungendo
i favoriti (Leandro Arpinati, Arnaldo Mussolini e molti altri).
Fino a che, nel 1932, “attraverso complesse strategie
d'inserimenti e cancellazioni” (p. 165) viene stilato
un elenco di 147 nominativi (ulteriori aggiunte si avranno negli
anni successivi) a cui è concesso il “brevetto
sansepolcrista”. La seconda parte del volume contiene
circa 200 dettagliate schede biografiche di sansepolcristi e
presunti, ancorché certificati, tali, compilate utilizzando
anche documentazione tratta dalle schede personali inedite conservate
presso l'Archivio centrale dello Stato.
Insomma, “Fascismo anno zero” è un buon libro,
utile a comprendere meglio il 1919 e gli uomini – meno
presenti sulla scena pubblica, invece, le donne – che
hanno attraversato “una pagina di storia complessa, contraddittoria
e ambigua, diversa da come ci è stata raccontata, affollata
di attori destinati a rivestire nuove parti nel dramma italiano”
(p. 6).
Luigi Balsamini
Anarchici marchigiani/
Un romanzo di fede, speranza e anarchia
“Era il 1897: Lupo nasceva alle soglie del secolo nuovo,
nell'anno in cui Errico Malatesta veniva braccato ad Ancona
mentre scriveva sulle pagine di L'Agitazione”. È
questo il registro di Un giorno verrà, romanzo
di Giulia Caminito (Bompiani, Milano 2019, pp. 239, € 16,00)
uscito lo scorso febbraio e che sarebbe bello incontrasse molti
lettori.
Una
storia intensa, di fratellanza e d'anarchia, un racconto di
Storia e microstoria mirabilmente congiunte, tra realismo crudo
a tratti magico e memoria commovente. Giulia Caminito s'è
fatta guidare dall'idea di voler scrivere “un libro sugli
anarchici marchigiani, un libro su Nicola Ugolini e su quelli
che come lui ci avevano creduto, superando i pregiudizi dell'anarchia
bombarola, dei violenti e insensati gesti, dei briganti e dei
semina guai”, come l'autrice scrive nella nota finale.
Un romanzo storico, dove il bisnonno anarchico dell'autrice
rivive nel vecchio Giuseppe Ceresa – cospiratore mazziniano
e anarchico con Malatesta nel Matese – ma anche nel giovane
Lupo suo nipote, forte e irruente, che prende coscienza della
sua condizione e si fa agitatore contadino, tra i mezzadri di
Serra de' Conti e dei colli del Misa e dell'Esino – “vendemmiatori,
armati di falcinella, che dovevano dividere grappoli e trecce,
decidere se c'erano acini troppo belli per venir calpestati
che andavano messi da parte per la tavola dei padroni”
– e poi infiammato rivoluzionario nella Settimana Rossa
ad Ancona; ma pure in Nicola, “bambino di mollica”,
che supera ancestrali debolezze e intime disperazioni dentro
le atrocità della guerra in cui, poco più che
ragazzo, viene catapultato. Nel libro c'è la Storia descritta
attraverso storie, racconti, narrazioni, che ricreano memoria
e la recuperano a una conoscenza che, se lasciata alla sola
storiografia, rischierebbe seriamente di perdersi.
“Nicola era il bambino delle ombre e come ombra sarebbe
voluto sparire. [...] Lupo era animale notturno, era segno di
maledizione, ti avrebbe seguito in sogno, con te sarebbe sceso
sottoterra.” Lupo e Nicola vivono in simbiosi, in una
solidarietà fraterna che li fa essere una vita sola,
“non si erano tolti l'abitudine, nonostante tutto, di
dormire nello stesso letto come da bambini, anche se Lupo forse
bambino non era mai stato e ora si sentiva grande abbastanza
da fare la rivoluzione. [...] Loro vivevano in un mondo di gente
che lavorava, e chi lavora sa di doversi fare male, con una
falce, con un vecchio ferro, cadendo da un fienile, schiacciato
da un carro, battuto da uno zoccolo, trascinato troppo al largo
da un peschereccio, bruciato da una pala del pane bollente,
piegato tra incudine e martello, il loro era un corpo che doveva
ferirsi. Di ciò bisognava farsene una ragione, restare
attenti, vigili con gli strumenti e con le persone, con le bestie
e le tempeste, ma pensarsi forti abbastanza da non venire soffiati
via.”
Il linguaggio di Caminito è scorrevolissimo, originale
e coinvolgente, quasi un narrato in presa diretta che, leggendo,
ti pare ascoltare dalla viva voce dei protagonisti nel mentre
gli eventi svolgono il loro corso. “La prima volta che
Gaspare gli aveva parlato d'anarchia erano seduti a mangiare
dell'uva davanti alla vigna dei Garelli. Dopo aver sputato un
paio di semi, aveva raccontato: Ho sentito uno ad Ancona, diceva
delle cose che mi sono piaciute. Diceva che non dobbiamo votare
anche se adesso potremmo, che sperare nel governo è come
aspettare che la luna cada sul mare, diceva che non dovrebbero
esistere differenze, non dovrebbero esserci ingiustizie, non
dovremmo lavorare per altri ma solo per noi stessi, non dovrebbero
starci padroni o proprietari, non dovrebbero esistere chiese
o preti, né leggi né obblighi né divieti,
se non quelli per stare bene, da decidere per convivere, per
collaborare, essere tutti uguali, e che sta a noi lottare.”
Benvenuto allora questo bel libro, dolcissimo e duro, epico
e popolare, che narra storie vere intrecciate ad altre verosimili,
preziosissimo soprattutto in quest'era di postmemoria,
in cui è forse proprio attraverso il racconto che si
possono trasmettere al meglio le esperienze degli eventi storici.
“Lupo non era mai stato bravo a parlare, preferiva ascoltare
e decidere, e quando Malatesta parlava lui ascoltava, le sue
parole erano medicina, erano soccorso, le sue parole davano
ordine ai suoi pensieri, alle sue rabbie, alle incomprensioni”.
A Villa Rossa, dopo il comizio di Malatesta e la polizia che
sbarra i cancelli per non farli manifestare per le vie di Ancona,
Lupo e gli altri alzano i pugni e le voci e provano a sfondare
i cordoni, perché “era giusto non andare in guerra,
era giusto che loro avessero la paga che gli spettava, era giusto
poter mandare Nicola a scuola, era giusto che Gaspare avesse
la metà di quello che coltivava, era giusto non crepare
mentre rubavi una mela, era giusto che le terre tolte ai preti
venissero date a loro, a chi ci viveva, a chi le lavorava, a
chi le amava, poi la polizia iniziò a sparare. Lupo si
voltò a un grido e vide Nello cadere. Avrebbe letto sui
giornali e sui manifesti il nome di Nello Budini, il giorno
dopo e molti giorni a venire”.
Il racconto si fa anche qui modalità del pensiero, e
la narrazione storica non è solo resoconto e sintesi
di indagini, ma anche strumento della stessa ricerca. “Lupo
ci aveva davvero creduto, dopo i fatti di Villa Rossa, che potesse
scoppiare la Rivoluzione, per una settimana Ancona era stata
loro, le bandiere nere e rosse erano state appese sui campanili
delle chiese e i pali della luce, dalla Romagna arrivavano notizie
di vittoria, il Re era stato messo in fuga, dicevano, tutta
l'Italia si è ribellata, stanno proclamando la Repubblica,
la gente cantava la Marsigliese nelle strade, i ferrovieri avevano
scioperato compatti, Malatesta aveva organizzato posti di blocco
in tutta la città, avevano saccheggiato granai e requisito
armi, avevano fatto capire che avrebbero potuto prenderla a
calci questa loro Italia bigotta, borghese, piccola.”
E ancora, per descrivere il dramma di un passaggio cruciale,
ecco un incontro tra due vecchi amici che di lì a poco
si sarebbero riscoperti irriducibili avversari: “Hai scordato
l'abisso, aveva detto l'uomo alto e il vento si era spostato
su Piazza del Duomo. L'abisso morale e politico che ci divide
da chi vuole dominare. Abbiamo dei doveri verso i giovani, quelli
che abbiamo trascinato nell'antimilitarismo e oggi non possiamo
ributtare in pasto al nemico. [...] L'uomo basso si era messo
a inveire, gonfiando le vene del collo, con le mani aveva disegnato
cerchi in aria parlando di vacuità dell'internazionalismo
[...]. Così Armando Borghi aveva detto addio a Benito
Mussolini.”
E poi c'è lei, “la Moretta” suor Clara, Abbadessa
sudanese del monastero di Serra che tutti aiuta, e che i serrani
difendono perfino con una storica sassaiola contro le
carrozze del Vescovo, quando vuole portargliela via. È
lei che evoca la speranza di giustizia del titolo: “un
giorno verrà”, lei che pure intende “il giudizio
di Dio”, rivolta al prete che ha abusato di una giovane
del paese. “Voi mi fate paura, Sorella, disse Lupo prima
che lei scomparisse. E come mai? Chiese suor Clara fermandosi
sulla soglia. Perché credete davvero nelle menzogne che
dite, spiegò Lupo. Non è forse quello che fai
anche tu? Credere in qualcosa che per gli altri è menzogna?
Domandò la suora. Lupo fece per rispondere ma poi rimase
in silenzio”. Forse, allora, è una fede pulita
declinata in atti solidali che può accomunare, una coscienza
dell'universalità del senso di giustizia, quella stessa
per cui “la Marca era il suo luogo, l'angolo di mondo
per cui lottare e da difendere, ma l'anarchia era l'umanità,
non voleva campanilismi, non voleva confini e nazioni, si stendeva
come mare e toccava ogni costa, superava alte barriere e creava
ponti sopra il corso dei fiumi più burrascosi.”
Massimo Lanzavecchia
Contro l'istituzione (scolastica)/
La normalità della dissociazione
Mettere in discussione il principio dell'unicità e omogeneità
dell'io come indice di sanità ed equilibrio mentale,
e di contro mostrare la normalità e i vantaggi dell'esistenza
di identità multiple, è il fine di un volumetto
che raccoglie gli scritti di tre studiosi francesi, Patrick
Boumard, George Lapassade e Michel Lobrot e che ha per titolo
Il mito dell'Identità. Apologia della dissociazione
(Sensibili alle foglie, Roma 2018, pp. 136, € 14,00).
A
lungo ritenuta sintomo patologico, addirittura di tipo schizofrenico,
la dissociazione psicologica viene ricondotta, dai tre autori,
ad un momento del tutto normale e ordinario della vita di ogni
individuo, portato spesso ad assumere vesti e azioni di un immaginario
altro da sé: la sua dissociazione è un'evasione,
una fuga, una fantasticheria creativa e fantasiosa, utile per
rompere, sfuggire, aggirare le norme e le rigide regole dei
ruoli, imposti dalla società e dalle istituzioni e dai
poteri che le reggono e le modellano, dettando le condotte e
i convincimenti che devono essere di tutti.
Dissociato è, per esempio, l'alunno 'svogliato' - come
ampiamente documenta e spiega Boumard nel primo degli scritti
del volume - che fa baccano, che si distrae, magari perché
non assimila e riproduce il modus operandi dell'alunno
che l'Istituzione scolastica vorrebbe che fosse: obbediente,
nella costrizione della classe e diligente, nel rispetto dei
ritmi e dei contenuti di un insegnamento che non lascia spazio
al bambino, al ragazzino o all'adolescente che frequenta la
scuola, d'essere libero di inseguire i suoi sogni e desideri
e di inventarsi personaggi altri da sé e mondi altri
dal proprio. E della dissociazione a scuola, parla a lungo Boumard,
poiché quella scolastica è un'Istituzione che
più di altre è visibile e riconoscibile da tutti,
e nella quale il livello della dissociazione psicologica degli
allievi di ogni ordine e grado, prende sempre più corpo
in un insieme variegato di forme (dal semplice e diffuso chiacchiericcio
alle più ostinate forme di vero e proprio rifiuto dello
studio, come nel caso classico dell'allievo 'scaldabanco'),
segnalando la grave crisi dei metodi attuali di insegnamento
e il fallimento delle pedagogie 'storiche' e dei metodi che
a queste ancora continuano ad ispirarsi.
La normalità della dissociazione - negata e combattuta
a scuola come devianza e patologia invece d'essere vista come
reazione di rifiuto e resistenza - viene rafforzata, nel secondo
contributo del libro, da Lapassade che ben segnala come questa
sia da tempi immemorabili presente nelle più diverse
culture e tradizioni umane. E Lapassade, in particolare, esamina
e spiega i meccanismi e le funzioni della dissociazione nelle
pratiche sciamaniche, delle quali ha parlato nei suoi noti libri
Carlos Castaneda; e Lobrot chiude gli scritti del libro con
un intervento che approfondisce il discorso sulla trance
sciamanica allargandolo a tutte le forme di Modificazione degli
Stati di Coscienza, attraverso rituali magico-religiosi, sedute
meditative e assunzione di droghe psichedeliche.
Nel complesso dei diversi studi di Bourmand, Lapassade e Lobrot,
la pratica e la manifestazione della dissociazione non viene
più negativizzata e stigmatizzata come turba psichica
ma viene compresa come risorsa attivata per sopravvivere in
ambienti e situazioni ostili e opprimenti e legittimata come
affermazione della libera espressione di sé nella multiforme
varietà dei piani e dei modi in cui l'identità
di ciascuno può fluttuare: creativa e diversa, contro
e oltre la vincolatività della Norma, omogenea e unica.
Silvestro Livolsi
Nairobi, Kenia/
Lo slum disegnato e raccontato
Dieci
giorni in uno “slum” di Nairobi degli scrittori
e sceneggiatori Danilo Deninotti, Giorgio Fontana e del disegnatore
e fumettista Lucio Ruvidotti, che raccontano (Lamiere –
storia di uno slum di Nairobi, Feltrinelli 2019, Milano
2018, pgg. 144, € 16,00) la loro esperienza personale in
visita alla baraccopoli “Deep Sea”, accompagnando
una missione di medici di una piccola onlus italiana Rainbow
for Africa e accolti dal frate Ettore Marangi. I tre raccontano
la loro esperienza in prima persona con uno stile della narrazione
molto semplice e scorrevole e un utilizzo del colore incredibilmente
affascinante.
Che cos'è uno slum? Mai sentito nominare prima? Pensi
che in Kenya ci siano solo savane sconfinate con leoni che rincorrono
gazzelle? Queste pagine riflettono esattamente la sensazione
d'ignoranza per chi questo qualcosa non lo conosce, e sicuramente
forniscono un primo sguardo critico su un altro tipo di realtà.
Sia l'uso del colore sia lo stile del disegno sono capaci di
trasportarti direttamente in una metropoli come Nairobi, al
centro del continente africano, alternando colori forti e soleggiati
di umanità e speranza, a contrasti emozionali che riflettono
il sentimento di chi racconta, a tonalità di grigi e
marroni tipici delle strade fangose mano a mano che ci si addentra
nello slum, mostrando la ruvidità del contesto senza
scadere nello scioccante iperrealismo delle immagini.
Proprio per questo adoro i reportage disegnati, perché
possono raccontare dandoti il tempo di addentrarti nel contesto,
di ascoltare, di riflettere e soprattutto di stimolare a saperne
di più invece che scioccarti e cambiare pagina. Un interessante
reportage a fumetti mixato con un diario di viaggio, che si
legge velocemente, intervallato da schede grafiche chiare e
sintetiche che danno un po' di numeri e aiutano a mettere in
luce alcuni punti critici introducendo il contesto sociopolitico
del Kenya.
Il testo lancia non poche riflessioni su giustizia sociale,
legalità, circolarità della povertà (difficile
uscire da uno slum, la maggior parte delle volte ci si resta
“inchiodati”, “schiavi della povertà”),
uguaglianza di genere, abitare globale, sostenibilità
degli interventi delle onlus e delle organizzazioni non governative
che agiscono in questi contesti; alle volte si cade nel cliché,
ma non sempre, o forse può sembrare così per chi
in contesti simili ci lavora. I tre in viaggio danno bagliori
di luce alle storie delle persone che incontrano, molto brevi
ma intense, e le riflessioni a volte partono da li, ma forse
troppo spesso la lettura del contesto parte dai protagonisti
occidentali con anche un pizzico di spirito “missionario”.
Ad ogni modo la realtà è inevitabilmente più
complicata e complessa di quanto si possa pensare di capire
in meno di due settimane di viaggio, e per questo è da
apprezzare la conclusione ”una storia come questa ha
senso solo se è il primo passo”.
Questa lettura può darci un primo piccolo spunto di
riflessione sul ritrovarsi chiusi, quasi schiavi, a vivere in
uno dei quartieri più sovraffollati di Nairobi, uno slum
appunto, sulla sopravvivenza di una popolazione sommersa, sulle
resistenze e la volontà dell'uomo ma soprattutto della
donna, sul “non ci sono poteri buoni”. Ci può
aprire alla curiosità d'interrogarsi sull'immensa diversità
e complessità africana e invogliare a documentarsi, leggere
e provare ad avere più elementi per costruire il proprio
pensiero, magari anche ad andarci oppure parlarne con qualche
keniota che vive in Italia.
Valeria De Paoli
Mary Gauthier/
Il blues o lo zip-a-dee-doo-dah?
“Ci sono solo due tipi di musica: il blues e lo zip-a-dee-doo-dah”.
Così c'è scritto su un quadro che campeggia in
casa di Mary Gauthier. Ogni vero artista oggi, soprattutto oggi,
è chiamato ad una scelta di campo: l'impegno o l'evasione.
Mary Gauthier è una cantautrice statunitense, una vera
artista, e ha scelto l'impegno. Rifles and Rosary Beads
(Fucili e grani di rosario, Etichetta Thirty Tigers /
Appaloosa, distribuito in Italia in edizione con traduzione
a fronte da IRD, International Records Distribution), il suo
ultimo album, è costituito da undici delle tante canzoni
che la Gauthier ha scritto con soldati americani reduci da vari
conflitti, soprattutto Iraq e Afghanistan, nell'arco di quattro
anni. Assistiti da psicologi, soldati e soldatesse hanno affrontato,
attraverso le canzoni, un percorso di restituzione e di confronto
con il trauma della guerra. Mary ha saputo ascoltare e farsi
carico di questo dolore e sono nate canzoni che guariscono,
canzoni-medicine.
Non vi racconto per sentito dire, ma perché sono stato
testimone e ho partecipato alla realizzazione di questo progetto:
da tanti anni collaboro con Mary Gauthier in concerto, la accompagno
con il mio violino e altri strumenti.
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Londra, Auditorium King's Place, 10 maggio 2018
foto di Debora Locci |
Da subito lei mi parlò di questo progetto, da subito
cominciammo a suonare queste canzoni dal vivo, mano a mano che
venivano scritte. Ho conosciuto questi uomini e donne: tanti
di loro, giovanissimi, potrebbero essere miei figli. Le canzoni
di Rifles and Rosary Beads aggiornano la canzone contro
la guerra: non più inneggiare o implorare la pace, ma
mostrare i disastri della guerra nel cuore, nella mente e nel
corpo di queste persone. È terribilmente più efficace.
È una preghiera per la pace che mostra l'orrore della
guerra dall'interno. È anche e forse soprattutto un album
di denuncia che dice l'indicibile su ciò che avviene
nell'esercito americano: ad esempio una canzone è stata
scritta con una donna che racconta che il suo nemico non è
stato l'Iraq, ma gli uomini con cui era in missione che, con
sistematica spietatezza, hanno abusato di lei.
Lavorare a questo album ci ha spinti a rivedere i nostri stereotipi.
Pensavo, onestamente, che un soldato, capace di montare un'arma
in pochi secondi, avesse ben poco da condividere con me che
non ho fatto il servizio militare e non ho mai maneggiato un'arma.
Invece questi uomini e donne mi hanno insegnato la pace.
Paradossale insegnamento da parte di un soldato. Dovremmo già
saperlo, in realtà: già Ungaretti dovrebbe avere
insegnato a noi italiani che non sono certo i soldati ad amare
la guerra. Interessante, poi, scoprire che tante sono le ragioni
che spingono un ragazzo a fare il soldato, in America. Innanzitutto
le ragioni sono di carattere economico: spesso è l'unico
modo per chi appartiene ad una classe sociale disagiata per
accedere ad una istruzione superiore.
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Londra, Auditorium King's Place, 10 maggio 2018 -
Da sinistra: Michele Gazich e Mary Gauthier
foto di Debora Locci |
Quattro anni per scrivere queste canzoni; quattro giorni per
registrarle, nel 2017 a Nashville, poi è cominciato il
tour, che è durato più di un anno: dal gennaio
2018 al marzo 2019 più di duecento concerti in USA e
in Europa; nell'ottobre 2018 abbiamo toccato anche l'Italia.
Sapevamo di avere una missione, nel portare in giro queste canzoni-medicine
spirituali, scritte per ricordare che dietro l'odio da qualche
parte l'amore sopravvive. Queste canzoni possono cambiare la
vita: certamente hanno cambiato la mia.
L'album era ed è così necessario che è
stato ascoltato e premiato in giro per il mondo, ha ricevuto
addirittura una inaspettatissima nomination ai Grammy
Award 2019, dimostrandoci che se il messaggio è chiaro
e forte riesce a infilarsi anche in una qualche crepa dei centri
commerciali. Anche se il regime / i regimi degli stati del nostro
devastato occidente non vogliono nulla di tutto ciò,
ogni tanto qualcosa riesce a trapelare anche per radio o ciò
che resta di esse, a disturbare la musica di regime (che è
oggi sempre e solo evasione), a disturbare, almeno per un attimo,
gli importanti flussi monetari.
Quest'album è stato fondamentale per me anche nello specifico:
ho identificato un metodo di lavoro che mi sono trovato tra
le mani e ho poi utilizzato per la costruzione delle canzoni
del mio album Temuto come grido, atteso come canto (recensione
di Alessio Lega su “A” 431, febbraio 2019).
Mi spiego: Mary Gauthier ha scritto con un soldato o soldatessa
ogni canzone: ogni canzone dà una prospettiva diversa
sulla guerra, ognuna veicola una storia, ognuna parla di uno
specifico essere umano. Ognuna delle mie canzoni fa la stessa
cosa, dialogando con i pazienti ebrei deportati nel 1944 dal
manicomio di San Servolo (Venezia), attraverso le informazioni
che ho trovato nelle loro cartelle cliniche: ogni canzone una
storia, ogni canzone un incontro.
Michele Gazich
Nota: La massima scritta sul quadro a olio in casa di Mary Gauthier è di Townes Van Zandt (1944-1997), che è uno dei più significativi e introspettivi cantautori americani del Novecento. Per chi non lo conoscesse, giunga qui un mio caloroso invito all'ascolto anche delle sue canzoni.
Il caso Restelli/
Una brutta pagina per gli anarchici italiani
Partiamo dall'epilogo, tragico.
Tardo pomeriggio del 5 settembre 1933. Al confine italiano con
la Svizzera, in località Albero di Sella a 900 metri
s.l.m., i finanzieri di servizio allertano due militi della
Confinaria in pattugliamento. Rumori sospetti provenienti dalla
boscaglia fanno supporre la presenza di malintenzionati in procinto
di espatriare illegalmente. E infatti, poco dopo, “...la
Camicia Nera Antonio Marchesini grida il Chi va là
fermi o sparo!, poi tira tre colpi di moschetto in aria.
All'improvviso un uomo esce da un cespuglio tra la prima e la
seconda curva della strada militare e si mette a correre in
direzione del primo milite: non più di trenta metri li
separano. Altri due uomini dalla strada militare si infilano
nel bosco, a valle. L'uomo uscito allo scoperto continua a correre
in discesa, verso il milite [...] Il milite prende la mira ed
apre il fuoco, uccidendolo. Poi rivolge l'arma verso gli altri
due, che stanno fuggendo a valle. Spara loro alle spalle, colpendone
uno; l'altro salta un piccolo burrone e riesce a dileguarsi...”
(p. 91). Le vittime sono due anarchici: Mario Avellini e Carlo
Restelli detto Cialli (Charlie). La ricostruzione ufficiale
di questo fatto, evidentemente lacunosa (con il comportamento
fin troppo formale dei militi, con la strana sequenza) presenta
“troppe zone d'ombra, che potrebbero far pensare ad un
agguato o ad un'esecuzione in piena regola” (p. 92).
L'autore
di queste pagine, Alessandro Pellegatta (Infinita tristezza.
Vita e morte di uno scalpellino anarchico, Zingonia - Bg
2018, pagine marxiste, pp. 120, € 8,00) è un recidivo
e competente narratore di avvincenti storie proletarie otto-novecentesche.
Il tema trattato è il tradimento, ovvero il sospetto
ingiusto e infondato di tradimento. Il titolo del libro (che
riecheggia un vecchio successo del musicista franco-spagnolo
Manu Chao) potrebbe apparire, di per sé, poco attraente.
Eppure raffigura, con efficacia purtroppo, lo stato d'animo
e l'amarezza che pervadono il lettore una volta giunto all'ultima
riga. Scritto con sentimento e partecipazione, basato su un
uso rigoroso delle fonti, il saggio racconta la movimentata
vita di Restelli Cialli, proprio uno dei “fucilati”
in quell'episodio oscuro del 1933.
Scalpellino anarchico, nato nel 1880 negli Stati Uniti da una
famiglia di emigrati dalla provincia di Varese. Si forma politicamente
negli ambienti “galleanisti” del Vermont dove la
comunità italiana è divisa in fazioni contrapposte,
causa anche la contemporanea presenza in loco di due leader
importanti, il socialista Giacinto Menotti Serrati e, appunto,
l'anarchico Luigi Galleani. Colpito da provvedimento di espulsione,
Restelli rientra in Italia nel 1906, partecipa all'esperienza
coinvolgente della Scuola Moderna di Clivio. È in contatto
con gli esponenti più conosciuti del movimento (fra cui
Luigi Bertoni, Ugo Fedeli). Per varie vicissitudini personali
si trova anche a scontare due anni di carcere a seguito di una
condanna per furto. È richiamato alle armi in concomitanza
della guerra europea ma decide, dopo pochi mesi, di disertare
riparando in Svizzera. Qui, insieme ad altri connazionali ed
esuli anarchici è coinvolto – ma poi prosciolto
– nell'affaire delle bombe di Zurigo (accusato cioè
di attentati a seguito del ritrovamento di esplosivi lungo la
linea ferroviaria). Dopo l'amnistia del 1919 si stabilisce a
Milano dove, insieme ad altri due compagni, Antonio Pietropaolo
e Eugenio Macchi, impianta un'officina.
È attivo militante e frequenta il vivace ambiente anarchico
cittadino dove – come ha ben analizzato Antonio Senta
– “un individualismo filosofico, letterario ed esistenziale
va di pari passo con uno strettamente operaio” (p. 53).
Dopo il gravissimo episodio del teatro Diana del marzo 1921
è denunciato per correità nella strage, ossia
per aver “ospitato” nel suo luogo di lavoro le riunioni
preparatorie degli attentatori. Assolto in istruttoria, è
qui che incomincia il suo vero calvario, insieme alla sua vita
ancora più grama. Eh sì, perché “Come
sempre avviene, – scriverà di lui il «Risveglio
anarchico» (21 ottobre 1933) – per il fatto che
si era miracolosamente salvato, certuni propalarono dei sospetti
su di lui, contro i quali insorgemmo vigorosamente” (pp.
94-95).
Dopo le bombe del Diana l'esperienza della Scuola di Clivio
si avvia alla chiusura; mentre rimane in piedi una difficile
attività di soccorso ai perseguitati dal fascismo, di
supporto logistico agli espatri clandestini. Cialli Restelli
è intanto fatto oggetto di gravissime e non provate calunnie,
accusato da uno dei suoi ex-compagni, Eugenio Macchi comproprietario
dell'officina, di essere una spia della polizia. Le accuse sono
pubblicate nel foglio newyorkese «L'Adunata dei Refrattari»
e riprese dalla stampa comunista. Ancora vent'anni dopo la “fucilazione”
continuerà, nei ranghi del movimento, il chiacchiericcio
inconsulto a danno del povero Restelli, replicato in modo acritico
e, soprattutto, senza alcun supporto documentario.
Il lavoro di ricerca di Pellegatta, svolto con grande acribia
e onestà intellettuale, ci richiama – fermo restando
che, in storiografia come nel diritto, la responsabilità
resta personale (e che non tutti gli anarchici si occupano di
storia, mentre non tutti gli storici dell'anarchismo sono anarchici)
– ad un'importante riflessione collettiva. Scrive in proposito
l'autore nelle sue considerazioni finali: “Quell'umanesimo
che gli anarchici rivendicano nella storica polemica contro
noi marxisti freddi, autoritari, accentratori, è stato
negato ad uno dei più umili militanti proletari del loro
movimento, per di più ammazzato dai fascisti” (p.
107).
Giorgio Sacchetti
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