Impegno politico, militanza musicale
E quella musica nuova
che è anche archeologia
intervista a Gianluca Dessì
Torniamo in terra di Sardegna per raccogliere e raccontare le
molteplici sfaccettature di una cultura che, trincerandosi totemicamente
dietro questioni identitarie, mostra inevitabilmente i volti,
i segni, e fa ascoltare le voci meticce, derivazioni millenarie
di culture altre, che hanno delimitato il perimetro etnico dell'isola
e che segnano il confine tra terra e acqua, sul quale viaggiano
storie e canti.
Una delle “navicelle di bronzo” (tanto per usare
un termine ricorrente nella descrizione del simbolo delle imbarcazioni
dei popoli viaggianti della Sardegna nuragica) che meglio conserva
le storie del passato, fatto di incroci scambi e sedimentazioni
e che è possibile ammirare e ascoltare fuori dai musei
archeologici tradizionali della musica folk, si chiama Elva
Lutza, simbolo – tra terra e acqua appunto – che
mette in relazione le storie viaggianti e quelle innestate nel
territorio.
Ne parliamo con “l'antropo-musico” Gianluca Dessì,
studioso di corde che insieme al poeta-artigiano Nico Casu,
voce e tromba, ha dato vita al progetto.
Gerry - Gianluca, cos'è e dove si trova l'Erba
Lutza?
Gianluca - L'Elva (o Erva) Lutza è un'erba quasi
mitologica, citata anche da insigni poeti e scrittori come Remundu
Piras, poeta a bolu di Villanova Monteleone (che è anche
il paese di origine del mio sodale Nico Casu) e Sergio Atzeni.
Nessuno l'ha mai vista, ma si dice che porti fortuna e che possa
esaudire i desideri più insperati
Raccontaci del tuo peregrinare e delle tue svariate
incursioni nel campo della musica, non solo quella di tradizione,
che in qualche modo ti hanno condotto sui sentieri della ricerca
e della riproposizione di brani della cultura popolare.
Nasco
e cresco chitarrista, prima classico e poi acustico; dopo il
repertorio classico studiato in conservatorio ho cominciato
a suonare cose che potevano tenermi compagnia e con cui potevo
accompagnare la mia vociaccia stonata: i cantautori italiani,
poi Cat Stevens e James Taylor, poi Donovan.
Dylan, che oggi per me è una specie di ossessione, l'ho
scoperto più tardi. Poi vidi un concerto di Alan Stivell
a Sassari, dovevo avere circa 13 o 14 anni: rock e strumenti
della tradizione mescolati insieme, una roba per me inconsueta
che fu come un segnale che la tradizione (il folk, come si diceva
all'epoca) non era una cosa noiosa. Poi un amico mi suggerì
di ascoltare John Renbourn, e sono diventato fan di tutti i
chitarristi inglesi del periodo (Jansch, John Martyn, Richard
Thompson). La musica sarda l'ho scoperta dopo, passando prima
per il folk revival di gruppi come Suonofficina, Cordas et Cannas
(di cui, ironia della sorte, sono diventato componente cinque
anni fa), Calic etc., e poi scoprendo le launeddas e la polivocalità
del Tenore e del Cuncordu.
Ricordo che da bambino vidi a Stintino un concerto di Maria
Carta, accompagnata dal maestro Rizzuto (mi ricordo ancora il
nome); non fui entusiasta della musica, ma mi piacque molto
l'atmosfera, con il pubblico attento ad ascoltare. Il mio suonare
“in sardo” nasce quando mi prestarono una cassetta
dove c'erano delle esecuzioni di balli di Nanni Serra alla chitarra:
una folgorazione. Nel 1991 entrai in un gruppo abbastanza celebre
dell'epoca, i Zenia, con cui per due anni ho girato in lungo
e largo la Sardegna; nei concerti avevo anche uno spazio mio
dove suonavo delle cose piuttosto grossolane, come dei balli
sardi un po' approssimativi o gighe irlandesi etc.
Cosa ha rappresentato per te attraversare la tradizione
popolare, che in terra sarda ancora in molte occasioni è
una sorta di monolite ingombrante, per raccontare in forma di
“ragionamento” parte del tuo pensiero e della tua
musica?
Innanzitutto non mi ritengo un musicista tradizionale né
Elva Lutza è una formazione di musica tradizionale o
di folk-revival, siamo un duo di musica d'autore. La tradizione
è tutt'al più un pretesto per comporre musica
nuova: mi piacciono tutti quei musicisti che partono dalla tradizionale
per affrontare un percorso personale: in Italia abbiamo ottimi
esempi, da Riccardo Tesi a Alessandro d'Alessandro che è
un organettista giovane e creativissimo, o fra i chitarristi
Aronne Dall'Oro e Enrico Negro, gente che conosce bene la musica
tradizionale ma che fa un discorso del tutto originale, o musicisti
che reinventano la tradizione con classe e perizia in un senso
pan-mediterraneo e moderno, come Stefano Saletti. Per me ascoltare
la tradizione e la sua riproposizione era un discorso anche
di militanza politica, come ascoltare anche i cantautori se
vuoi... oggi tutto questo è meno valido: oggi, a mio
modesto parere, l'unica forma spendibile di militanza in musica
è certa musica improvvisata. Il lavoro di alcuni musicisti
come Marco Colonna o Eugenio Colombo mi trasmette più
“impegno” di quanto ne riscontri nella canzone d'autore
o nella riproposizione del folk, dove ormai l'omologazione e
la “maniera” sono la regola.
“Pensatore con l'alibi del sentimento,”
cito Gaber. “Ho soltanto la sensazione che in questi nostri
tempi pensare voglia dire vivere in un piccolo cimitero.”
Ecco, tu a un certo punto avevi appeso la chitarra al chiodo.
Suonavo con un musicista scozzese, Barnaby Brown, un ricercatore
che aveva declinato delle launeddas con la scala misolidia delle
cornamuse scozzesi; avevamo fatto un disco; splendide recensioni
ma non si suonava mai; mi ero scoraggiato e all'epoca (anche
oggi forse...), preferivo fare l'organizzatore di rassegne
e festival piuttosto che il performer. Pensavo, come chitarrista,
di avere esaurito il mio compito.
Poi, invece, l'incontro con Nico Casu, “il
prof”.
Sì, ci siamo incontrati un piovoso primo maggio. Non
ci vedevamo da dieci anni, lui mi conosceva come organizzatore;
ambedue avevamo praticamente smesso di suonare e parlando ci
siamo accorti che avevamo un po' di materiale in comune, soprattutto
roba dell'est europa (io in Bulgaria e Macedonia avevo fatto
la tesi di laurea) e del sud-italia (lui aveva suonato con Daniele
Sepe per dieci anni e con tutti i Napoletani importanti, dalla
Nuova Compagnia a Peppino di Capri, passando per 99 Posse, Almamegretta
etc). Lui voleva fare una specie di banda di musica popolare,
io volevo una cosa acustica, abbiamo fatto entrambe le cose
e il duo ha resistito! La vittoria del Parodi con un brano pensato
per duo, ci ha salvato da una formazione estesa, bella ma difficilmente
praticabile.
Insieme avete tolto i parati e la ruggine del passato
fossile della tradizione e avete ri-abitato la casa della memoria
con affreschi e arredi raffinati e contemporanei. Il vostro
primo disco mette in luce il “rinnovamento” del
pensiero, appunto. Raccontaci di quella fase e delle storie
cantate presenti in quel lavoro.
Il primo disco fu frettoloso o meglio affrettato, dovevamo sfruttare
l'esposizione mediatica dovuta alla vittoria del Parodi ma ancora
oggi lo ritengo il nostro lavoro migliore; ci sono almeno due
capolavori, “Deo Torro”, con cui vincemmo il Premio
Parodi nel 2011, e “Sa Mama”, rilettura di Sett'Ispadas
de Dolore, fra ritmi bulgari, tradizione e psichedelia. Uscì
per S'Ard Music e fece abbastanza rumore; credo che questo mix
di tradizione, improvvisazione jazzistica e canzone d'autore
in lingua sarda fosse una cosa abbastanza nuova.
Nel disco c'era anche un pezzo pazzesco scritto per noi da Kaballà
e due bellissimi cameo di Elena Ledda e Ester Formosa.
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Elva Lutza (Gianluca Dessì chitarra e Nico Casu tromba) ed Ester Formosa (cantante) foto di Gianfilippo Masserano |
Chitarra, bouzouki, tromba e voce, voi due a sibilare
canti e fonemi di provenienza errante. Come fa il vento che
diventa voce e il suono che diventa pace. Avete trovato un'alchimia
tra forma e sostanza, eleganza e racconto.
Il giusto equilibrio direi: Nico è musicista colto e
raffinato, che scrive e legge bene la musica; io sono un rockettaro
e sono bravo (forse) ad armonizzare e a inventarmi la ritmica.
Non ho remore a dire che il compositore vero del duo è
Nico. Lui tiene molto a questa cosa dell'eleganza, io ogni tanto
vorrei sporcare suono e melodie con un approccio più
“punk”, e devo dire che dal vivo siamo eleganti
ma con qualche macchia di sugo sulla camicia. I nostri concerti
sono molto “sudati”.
Nella nuova casa del canto di Gianluca e Nico era
inevitabile che arrivasse la sapiente e discreta, quanto determinata,
figura della cantora Ester Formosa. Raccontaci di lei.
Con Ester ci siamo conosciuti in quella edizione del Premio
Parodi. Il progetto ha però tardato a prendere una forma:
siamo partiti dai canti sefarditi, poi l'omaggio alla letteratura
musicale ispano-americana e siamo giunti a questa sintesi che
è il concerto attuale. Ester è una formidabile
cantante e ha alle spalle anche un'ottima carriera di attrice,
figlia d'arte, il padre Felìu è uno dei grandi
intellettuali catalani viventi. Nel frattempo abbiamo anche
lavorato con il trovatore provenzale Renat Sette, bizzarra figura
di cantastorie, ricercatore, attore, restauratore, con il quale
abbiamo fatto il disco “Amada”, che nonostante l'incisione
un po' frettolosa, è stato un piccolo successo, siamo
alla terza stampa.
Con Ester, avete tirato fuori dai bauli tessuti e
spartiti di un tempo e li avete stesi sulle corde al vento del
nuovo progetto che porta il titolo di Cancionero.
Cancionero è la summa del nostro lavoro: dentro ci trovi
brani originali in sardo e in catalano, classici come “Cielito
Lindo” e “La Violetera”, che fanno anche parte
dei nostri repertori bandistici, pezzi latino-americani, sefarditi
e due omaggi alla canzone italiana: un classico minore di Bruno
Lauzi e due pezzi di Stefano Rosso (un'altra mia grande passione)
tradotti da Joan Casas, letterato e drammaturgo catalano.
Per un chitarrista lavorare con una voce come Ester è
una goduria. Sono molto contento del lavoro, anche del repertorio,
degli arrangiamenti, persino della veste grafica e di questa
bella squadra che si è creata attorno a noi, il fonico
Andrea Pica, il fotografo Gianfilippo Masserano, l'ufficio stampa
Daniela Esposito, il produttore Lelle Salis di Tronos Digital,
il distributore Beppe Greppi di Felmay e, buon ultimo, Bruno
Piccinnu, percussionista dei Cordas et Cannas, che ha completato
la formazione nella sua declinazione live.
Un viaggio intenso e intrigante. Dalle riletture
di Lauzi a Llach a quelle di Stefano Rosso, dalle composizioni
di Tesi e Muratori alla tradizione catalana riproposta da Ester
Formosa. Una nave, o navicella, che trova un porto aperto, attracca
e apre le menti e i cuori.
Lo spero, il timore era di avere un disco un po' troppo eterogeneo,
ma volevamo un lavoro che presentasse Ester Formosa al pubblico
italiano in tutte le sue abilità interpretative e che
fosse lo specchio del nostro progetto live.
In tutto questo tourbillon di cose, i brani cui sono più
legato sono i due originali, “A su Tramontu” in
sardo, vagamente echeggiante di repertori più tradizionali,
e “Cucurutxu”, una specie di Moresca in catalano
con un tratto stile Elva Lutza molto spiccato (tempi dispari,
scale poco ortodosse, parti strumentali con armonizzazioni molto
strette).
A proposito di viaggi, torniamo per un attimo a te,
Gianluca: “in un viaggio può capitare di ritrovarsi
a ricontare tutto quel che è stato di te”. Hai
deciso di percorrere le occupate strade della poetica di Claudio
Lolli.
Eh, i primi cinque dischi di Lolli li ho consumati. Credo che
“Disoccupate le Strade dai Sogni” sia uno dei miei
dischi da isola deserta, con la sua urgenza tipica del folk,
ma declinata con una sapiente miscela di progressive e canzone
d'autore; l'irruenza tipicamente urbana ma con qualche richiamo
alla musica popolare e persino al cabaret in “Socialdemocrazia”.
Lolli è uno dei grandi della canzone d'autore italiana;
una seconda parte di carriera troppo intermittente e anche artisticamente
discontinua non gli ha permesso di essere annoverato fra i maestri,
ma lo era eccome.
Fra l'altro in quei dischi suonava gente pazzesca come i chitarristi
Stefan Grossmann e Andrea Carpi, due guru del fingerpicking,
Ettore de Carolis che avrebbe poi arrangiato “Metropolis”
di Guccini, e tanti altri.
Dove andrà a raccogliere la prossima erba
Lutza, Gianluca Dessì?
Ci sono tante cose in ballo, un nuovo lavoro in duo, con tutte
le cose che negli anni sono rimaste inedite, ovviamente tanti
concerti con Ester Formosa e Renat Sette, il disco nuovo dei
Cordas et Cannas, una colonna sonora e, spero, qualche nuova
collaborazione al di là del mare: io mi stufo facilmente
delle cose e delle situazioni e ho sempre bisogno di nuovi stimoli
e nuovi incontri.
Contatti: kappagld@yahoo.it
349/3904668
Gerry Ferrara
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