Latinos
Quando giungono notizie di nuovi arrivi di migranti, negli USA va in scena il tam-tam mediatico sulla pericolosità dei clandestini. Il presidente Trump ha esortato gli agenti di El Paso (Texas) a riprendere la pratica di separare i bambini dalle famiglie. La questione dei migranti illegali dal Messico è un'ossessione. La cura? Un muro di tremila chilometri.
Il Messico non manda certo qui i suoi cittadini migliori, ci spedisce persone che portano solo problemi, portano droga e crimine, sono violentatori... (D. Trump, Tweet, 16 giugno 2015)
Miguel è piccolo, minuto, coi lineamenti da indio e
la pelle bruna. Sorride quando lo incontri e ti chiede sempre
come stai. Sorride mentre ti svuota il cestino, quando gli passi
accanto nel corridoio ed è indaffarato a trasportare
pesanti casse di documenti, quando sta pulendo i bagni o sta
spalando la neve davanti al portone, con indosso sempre la solita
maglietta a maniche corte con il logo della ditta sul petto.
Sorride e ti saluta allegro quando lo trovi nel garage che prepara
la differenziata, separando pazientemente i rifiuti lasciati
a imputridire tutti assieme nei cestini dai colleghi.
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“Dove andiamo da qui?”. La domanda si staglia sull'immagine della recinzione al confine fra Messico e Stati Uniti |
Di tanto in tanto giungono notizie di nuovi arrivi di migranti
e ricomincia il tam-tam mediatico sul pericolo posto dai clandestini.
A marzo i centri di detenzione erano vicini al collasso. “Non
possiamo prenderne altri”, ha urlato il Presidente, “siamo
pieni”. Incontrando, in California, Kevin McAleenan, dirigente
del servizio di pattugliamento al confine col Messico, gli ha
promesso la grazia nel caso un tribunale lo condannasse per
aver ordinato respingimenti illegali in frontiera. Nessuno ha
potuto decifrare se stesse scherzando o parlando sul serio.
Chiacchierando con gli agenti a El Paso, Texas, li ha esortati
a non far entrare più nessuno e a riprendere la pratica,
vietata, di separare i bambini dalle famiglie. La questione
dei migranti illegali dal Messico è una sua ossessione,
un muro lungo tremila chilometri la cura.
Alcuni colleghi credono che Miguel sia messicano, invece è
guatemalteco. Nell'immaginario popolare i latinos sono
sempre messicani. Non so se sia arrivato di giorno, con un permesso
regolare, grazie alla sorella che vive in Texas; o se abbia
attraversato la frontiera di notte, rischiando il fucile dei
doganieri e quello dei predatori.
So però che Miguel lavora sempre: lo trovo al mattino
che gratta via dai pavimenti lo schifo del giorno prima, lo
lascio al pomeriggio che ha ancora molto da fare. Alla sera
va a pulire scuole silenziose, al sabato uffici deserti. La
fidanzata la incontra solo alla domenica, in chiesa. Una ragazza
che forse mai conoscerò, perché fuori dal posto
di lavoro ognuno è per conto suo e Miguel, oltre quella
soglia, è solo un'ombra, un destino sconosciuto. Vive
in un altrove che non frequento, insieme agli altri come lui,
che di giorno sono ovunque in città e alla sera si raggruppano
nei “loro” quartieri. Miguel è qui da tanto
tempo e non mi sembra che il suo sguardo sia attraversato da
nostalgie. Guarda piuttosto alla giornata che deve passare,
attende la domenica con allegria, forse mette da parte i soldi
per sposarsi. Sorridendo mi racconta lo stretto indispensabile,
nulla di più, perché coi gringos è meglio
essere cauti, portano solo problemi.
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Bambini che giocano in chiesa |
Si è fatto tanto clamore per il muro che il presidente
vorrebbe innalzare dissanguando le casse pubbliche. Lo aveva
twittato già a marzo 2015: “Non voglio avere nulla
a che fare col Messico, voglio costruire un muro impenetrabile
per impedir loro di continuare a derubare gli Stati Uniti”.
Per il muro è arrivato alle ripicche stravaganti, al
ricatto dello “shutdown” dell'amministrazione federale,
quando l'impero ha offerto al mondo l'immagine imbarazzante
di un paese alla deriva, in balia di un capitano impazzito,
con decine di migliaia di lavoratori a casa per mesi, o costretti
a lavorare senza stipendio, per garantire servizi essenziali.
Per il muro il Presidente ha dichiarato l'emergenza nazionale,
quasi fosse in corso un attacco atomico sugli Stati Uniti, rendendosi
ancora una volta ridicolo agli occhi del mondo.
Chi vive a New York sa che il muro è una farsa, fumo
negli occhi, propaganda ad uso dei benpensanti che reclamano
“legge e ordine” e immaginano orde di barbari assiepate
alle frontiere. Il muro è un business per l'industria
della sicurezza e un alibi per gli agenti di frontiera che,
sempre più pericolosi, oltrepassano spesso i confini
della legge, commettendo abusi e prepotenze; quegli stessi agenti
che, quando trovano le taniche d'acqua lasciate nel deserto,
sulle rotte dei migranti, da volenterosi e bravi cittadini americani,
le rovesciano a calci, condannando così i più
deboli alla morte per sete.1
Tutto inutile: milioni di latinos sono già qui
da molto tempo. Hanno risalito il paese da sud, come fecero
prima di loro gli ex schiavi delle piantagioni. Sono arrivati
sulla costa orientale in cerca di futuro, disposti al freddo
e al gelo pur di trovare un posto nel mondo. Sono così
tanti che lo spagnolo, a New York, è di fatto una lingua
ufficiale quanto l'inglese. Lo sa bene l'amministrazione cittadina,
che stampa tutti i suoi moduli bilingue. Lo sanno le ditte,
che pubblicano le loro pubblicità anche in spagnolo.
Lo sanno le banche, ai cui sportelli si troverà sempre
almeno un impiegato che parli spagnolo, perché gli affari
sono affari e i dollari hanno tutti lo stesso colore.
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Manifestazione
di protesta contro le politiche
di separazione dei bambini dai genitori |
Anche Corina ti colpisce per la corporatura, opposta a quella
di Miguel. A differenza di lui sorride poco ed è spesso
triste. È una donna forte, imponente, dal carattere duro
e deciso, necessario per il suo lavoro: fa la guardia giurata
e passa al setaccio chi entra e chi esce; mette a tacere i maleducati
e blocca gli esagitati. Un lavoro odioso e mal pagato, senza
troppi diritti, con la gente che ti maledice a denti stretti.
Corina è una dura, ma ogni tanto piange, afflitta da
qualche dramma familiare o angosciata dai conti da pagare. Vive
con le figlie in una casa popolare, mangia solo cibo spazzatura,
il diabete già morde e i soldi risparmiati se ne vanno
in dottori e medicine. Non l'ho mai vista prendersi una vacanza
o un permesso. Anche il giorno del funerale di sua madre si
è presentata al lavoro, perché quando sta a casa
nessuno la paga e i funerali costano.
I primi ad arrivare sono stati quelli come lei, i portoricani.
Hanno cominiciato a migrare negli USA fin dal 1898, quando la
sovranità su Porto Rico passò dalla Spagna agli
Stati Uniti. Negli anni cinquanta sono stati incoraggiati a
venire, perché il paese aveva bisogno di manodopera a
basso costo e oggi, a New York, sono tantissimi, quasi un milione,
il 9% della popolazione. I portoricani sono sempre stati poco
amati: sfruttati e discriminati, a più riprese hanno
lanciato movimenti per i loro diritti, fino ad arrivare, negli
anni sessanta, alla guerriglia urbana, con scioperi, barricate
e azioni di disobbedienza civile. A dispetto di tutto ciò
restano i più poveri fra i latinos. Mezzi americani
per legge,2 portano con sé
lo stigma del disprezzo, esemplificato dal Presidente quando
il devastante uragano Maria ha colpito l'isola nel settembre
2017 e Trump, recandosi brevemente sul posto, ha umiliato i
portoricani davanti alle telecamere di tutto il mondo, lanciando
alla gente assiepata attorno a lui rotoli di carta assorbente.3
Un episodio che avrebbe dovuto far tremare il mondo di indignazione
e che invece è presto caduto nel dimenticatoio.
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Foto identificativa di un bambino centroamericano fermato alla frontiera |
In palestra c'era sempre Guadalupe a riscaldare gli animi con
la sua premura, una signora di mezza età, bassina e rotondetta,
che faceva le pulizie e chiacchierava con chi avesse voglia
d'ascoltarla, gentile e materna. Da quando c'è stato
l'incidente non viene più, si affaccia solo ogni tanto
a salutare, poi se ne va via zoppicando. Lei è messicana
per davvero, forse una delle tante vittime del trattato di libero
scambio che ha impoverito i lavoratori del suo paese, costringendola
a emigrare. Qualche mese fa un autista maldestro l'ha investita
e in un attimo ha perso salute, stipendio e assistenza sanitaria.
Assicura che presto si rimetterà e tornerà al
lavoro, ma ha perso il sorriso, perché il futuro si è
fatto incerto e soldi a casa non ne può più mandare,
quel poco che ha le serve per curarsi. Milioni di dollari in
fumo per innalzare il muro, costruire prigioni e pattugliare
il confine, ma soldi per curare Guadalupe, non ce ne sono.
“A New York conoscere un po' di spagnolo è importante”,
mi disse un giovane insegnante quando mi sono trasferito a vivere
qui. Aveva ragione, in questi anni ne ho incontrati tanti di
latinos: colombiani, messicani, costaricensi, dominicani,
venezuelani, cileni, cubani e quant'altro. Barbieri, commessi,
addetti alle pulizie, portieri, facchini, cassieri, cuochi e
camerieri, ma anche avvocati, insegnanti, commercialisti. Molti
non parlano inglese e ovunque si captano conversazioni in spagnolo
con gli accenti più svariati. Nella stagione buona, alla
sera, è facile incontrare gruppi di latinos che
animano i marciapiede giocando e chiacchierando in spagnolo.
Si portano la sedia da casa e non manca mai la musica. Sono
passate per il mio ufficio tante donne delle pulizie che ne
ricordo solo alcune: Esperanza, colombiana, che mi inquietava
coi suoi strani discorsi pieni di destini e premonizioni; Josefine,
dominicana, venticinque anni e tre figli da mantenere, che mi
raccontava di anni sereni trascorsi in Italia; Juanita, venezuelana,
che non aveva voglia di parlare del suo paese; Paulina, messicana,
silenziosa e riservata, sempre timorosa di dire una parola fuori
posto. Donne sul libro paga della ditta che ha l'appalto delle
pulizie, con pochi diritti, che faticano per pochi dollari l'ora.
Si fermano qualche giorno o alcune settimane, poi scompaiono
senza preavviso, lasciando dietro di sé tracce di ricordi,
appena percettibili. Nessuno sa che fine facciano e se lo chiedi
al capoccia ti risponde, laconicamente, che sono state assegnate
ad altre mansioni. Con qualcuna ho lasciato discorsi a metà,
di nessuna ho conosciuto davvero la storia. Sono donne in gamba,
vengono da qualche villaggio polveroso o da una grande metropoli
e hanno percorso migliaia di chilometri per arrivare qui. Entrano
nella nostra vita appena il tempo necessario a spolverare la
scrivania e svuotare il cestino, ma sono qui, a dispetto di
tutti noi, dei benpensanti e di tutte le polizie di frontiera.
Sono loro che mi vengono in mente quando Fox News apre il notiziario
con allarmanti notizie dal confine meridionale e i commentatori
prezzolati parlano di invasioni e criminali alle frontiere,
osannando l'approccio duro del Presidente: penso a quest'umanità,
fatta di gente che lavora e non fa del male a nessuno.
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Appello per restituire ai genitori i bambini sequestrati alla frontiera dall'amministrazione federale |
Qualche anno fa, arrivato negli USA da poche settimane, mi sono
ritrovato a cena nella Upper West Side, a casa di amici da poco
conosciuti. I commensali, simpatici e buoni conversatori, erano
i tipici intellettuali della sinistra liberal della grande mela:
artisti, professori, ricercatori e i loro figli adolescenti,
studenti in college prestigiosi. Trump allora era ancora solo
uno spettro nella vita politica americana e i suoi discorsi
suscitavano più che altro stupore e ilarità. Proprio
in quei giorni aveva tuonato contro i messicani clandestini
e, fra un bicchiere e l'altro, il padrone di casa, commentò
che, se si fossero davvero mandati via da New York tutti i latinos
irregolari, la città si sarebbe fermata, perché
sono loro a mandare avanti la Grande Mela, impiegati in tutti
i lavori più umili, faticosi e indispensabili. Loro costruiscono
la città, la servono, la nutrono, la puliscono.
Già allora, ascoltando i discorsi di quella gente educata
e colta, in quel salotto elegante, coi cani di razza a gironzolare
attorno al tavolo e gli scaffali colmi di libri polverosi, mi
sentivo un estraneo. Mi sembrava di essere stato calato per
errore sul set di un film di Woody Allen, le persone attorno
al tavolo assomigliavano in modo straordinario ai suoi personaggi.
La New York intellettuale, colta e nevrotica stava recitando
un copione scontato e mi chiedevo quanti di loro avessero a
casa la colf dominicana, di cui forse non conoscevano la storia
e a volte nemmeno il nome.
Tuttavia avevano ragione: se tutti assieme i latinos
decidessero di andarsene su Marte, come fanno gli afroamericani,
in un bel racconto di Ray Bradbury4,
New York cadrebbe nel caos, come in un film apocalittico. L'economia
della città collasserebbe, i cantieri si fermerebbero,
nessuno pulirebbe più, la spazzatura si accumulerebbe
per le strade, la posta non sarebbe consegnata, le serrande
dei garage resterebbero abbassate, i negozi serrati, gli androni
dei palazzi sporchi, gli ascensori fermi e non ci sarebbe più
il portiere a chiamare il taxi e a portare i pacchi della spesa.
I newyorchesi, ormai incapaci di attendere da soli a queste
cose, non saprebbero che fare.
Il muro di Trump è davvero un imbroglio: nei suoi cantieri
hanno lavorato migliaia di latinos, irregolari e malpagati,
hanno costruito i suoi grattacieli, i suoi hotel, la sua ricchezza
da palazzinaro.
Ogni tanto ripenso a quei professori seduti a banchettare e
a commentare con aria di sufficienza i tweet di Trump, mentre
lui si apriva la strada verso la Casa Bianca a colpi di slogan
contro i messicani. Non so quanto ci abbiano riflettuto da allora
ma qui a New York è sempre “noi” e “loro”
e ognuno è in fondo perso nei fatti suoi. Di Miguel,
Corina e Guadalupe, dopo tutti questi anni, non so quasi nulla,
e loro sanno poco di me. Siamo vite che si sfiorano senza incontrarsi
quasi mai. Ma per me è un conforto sapere che qui ci
sono anche loro, che la città vive fuori dalle case degli
intellettuali sempre seduti a parlarsi addosso. Le guardie,
certo, continueranno a pattugliare il deserto e a rovesciare
le taniche d'acqua. Forse sarà davvero innalzato qualche
altro pezzo di muro e i notiziari continueranno a lanciare allarmi,
ma sarà tutto inutile: i latinos sono qui e non se ne
andranno, a dispetto delle isterie presidenziali. L'impero è
fragile e ha bisogno di loro.
Santo Barezini
- Sull'argomento si trovano online filmati e articoli. Si
veda ad esempio questo del Washington Post: https://www.washingtonpost.com/news/post-nation/wp/2018/01/23/border-patrol-accused-of-targeting-aid-group-that-filmed-agents-dumping-water-left-for-migrants/?noredirect=on&utm_term=.ab7ab27267dd.
- Portorico ha uno status politico anomalo sancito come “territorio
non incorporato”: appartiene agli Stati Uniti, non ha
sovranità territoriale propria ma non e' uno Stato
dell'Unione. I suoi abitanti hanno diritto al passaporto USA
ma non sono considerati cittadini né elettori.
- Il filmato e' ancora reperibile online: https://www.washingtonpost.com/politics/it-totally-belittled-the-moment-many-look-back-in-anger-at-trumps-tossing-of-paper-towels-in-puerto-rico/2018/09/13/8a3647d2-b77e-11e8-a2c5-3187f427e253_story.html?utm_term=.79a0e491b635.
- Il bel racconto, ambientato in Alabama, fa parte delle “Cronache
Marziane”, pubblicate nel 1950.
In queste pagine sono riportati i pannelli di una mostra
fotografica realizzata da vari artisti per conto di due nonprofit:
“Magnum Foundation” e “For Freedom”.
Le foto sono esposte sulle mura della cattedrale episcopale
di Saint John The Divine, a New York, chiesa nota per le sue
posizioni progressiste.
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