Amilcare Cipriani/
Quel diario dal carcere: agghiacciante
Garibaldino dopo aver disertato dall'esercito piemontese, sodale
di Mazzini in gioventù e infine anarchico, colonnello
nella Comune di Parigi, deportato ai lavori forzati in Nuova
Caledonia, esule e rivoluzionario internazionalista in Francia,
Egitto, Grecia e Inghilterra, con una vita passata prevalentemente
da galeotto, più volte eletto come candidato-protesta
nel parlamento del Regno d'Italia rifiutando sempre l'incarico,
Amilcare Cipriani (1843-1918) è un vero mito, “l'eroe
più popolare della Romagna” nella definizione di
Vittorio Emiliani.
Sempre
pronto a imbracciare le armi e a schierarsi dalla parte degli
oppressi, è un personaggio la cui biografia richiama,
con tutta evidenza, quella intricata commistione fra Sinistra
risorgimentale, repubblicanesimo, socialismo degli albori e
anarchismo già sottolineata, ormai mezzo secolo fa, da
illustri storici come Carlo Francovich e Giorgio Spini.
Il libro di Marco Sassi (Amilcare Cipriani. Il rivoluzionario,
prefazione di Vittorio Emiliani, Bookstones, Rimini 2019, pp.
322 + ill., € 20,00), mentre traccia un'utile e accattivante
ricostruzione della vita avventurosa di Cipriani, utilizzando
peraltro con efficacia letteraria una vasta gamma di documenti,
si fa apprezzare soprattutto per la sua robusta appendice antologica
di articoli a carattere monotematico.
Questa è una sorta di diario che, destinato ad essere
pubblicato a puntate sulle pagine de «Il Messaggero»,
era stato inviato dallo stesso protagonista al direttore di
quel giornale. Il plico, spedito da Parigi, era accompagnato
da un biglietto – datato 5 ottobre 1888 – con il
seguente laconico contenuto: “Lo scritto che vi mando
sono pensieri gettati giù in fretta nel tetro bugigattolo
di Portolongone [oggi Porto Azzurro, Isola d'Elba]. Vorrei dargli
una limata, ma il tempo mi manca. Accettatelo dunque com'è
e come se vi giungesse da Portolongone stesso”.
La lettura del “diario”, che occupa circa la metà
delle pagine del libro, ci fornisce – insieme al vissuto
dettagliato di un prigioniero eccellente – uno spaccato
incredibile sulla condizione carceraria nell'Italia sabauda:
“trattati peggio dei cani”. E c'è una evidente
linea di continuità fra le epoche precedenti negli Stati
preunitari e le fasi successive della storia patria fino ai
giorni nostri.
Si tratta di un documento agghiacciante per certi versi e che
racconta – insieme alla quotidianità in una prigione
riservata ai reietti e agli oppositori politici – la crudeltà,
i soprusi e le violenze inaudite delle guardie, le assurde condizioni
igienico-sanitarie di questi tuguri, ma anche le rivolte che,
inevitabilmente, finiscono nel sangue. La vita dentro le mura
di Portolongone, cadenzata da un regolamento vessatorio, è
resa impossibile anche dalla volubilità e dalla prassi
amministrativa messa in atto dalla direzione e dal personale.
Basti pensare che ai nuovi detenuti viene assegnato un vestiario
formato da “i cenci sudici e coperti da mille pezze dei
defunti e di coloro che sono sortiti”, che ciascun nuovo
prigioniero viene subito “ferrato” con una robusta
catena di otto chili che potrà alleggerirsi nel peso
solo una volta scontati isolamento iniziale e almeno sei mesi
di buona condotta. Le punizioni, in genere cella d'isolamento
e raddoppio della catena, sono inflitte con criteri assolutamente
discrezionali del capoguardia. Fra le torture più frequenti
la consegna ritardata, oppure non attuata, della corrispondenza
dei familiari.
Il vitto giornaliero è costituito da 730 grammi di pane
nero e da 60 centilitri di minestra di terza qualità
cotta nell'acqua con soffritto di lardo e, ogni 15 giorni, “un
briciolo di carne”. Il tutto servito in mastelli di legno
che non vengono mai lavati. L'infermeria, dove “nove su
dieci muoiono per mancanza di cure”, è un inferno.
“Se si ha bisogno di un recipiente per raccogliere immondezze,
sozzure, cataplasmi, cenci d'infermeria pieni di sangue, marcia
od altro, si prende uno di questi mastelletti ove si serve la
minestra ai condannati. Fatta la corvée, senza darsi
pensiero di dargli una sciacquata, si mette nel mucchio e cinque
minuti dopo è piena di minestra...” (p. 293).
Da “irregolare” quale era, Cipriani ha voluto lasciarci
quindi non solo la sua testimonianza di rivoluzionario indomito,
ma anche quella di semplice galeotto. Scrive il prefatore, ben
delineandone così la personalità:
“...ormai vegliardo, Amilcarino (Micrìn), quando
gli avanzava qualche spicciolo, andava al mercato parigino della
Cité e comprava una gabbietta col solo intento di dare
libertà all'uccellino in essa rinchiuso. Un gesto simbolico,
poetico, nel quale però c'è tutto il Cipriani
di questa bella, ricca, animata biografia di Marco Sassi. Che
speriamo insegni passione civile e coraggio libertario ai più
giovani” (p. 9).
Il volume, corredato da una piccola biografia e da un inserto
fotografico interessante, sebbene presenti qualche piccolo difetto
di editing (mancano incredibilmente gli indici e le citazioni
delle fonti spesso non sono puntuali), assume comunque un forte
valore documentario a prescindere anche dalla vicenda storica
peculiare, e abbastanza conosciuta, del protagonista.
Giorgio Sacchetti
Repressione/
Restaurato il docu-film su Battipaglia 1969
“I poveri non vanno contro i poveri”. Parole che
dovrebbero essere scontate, ma non in questo tempo e nel nostro
Paese imbruttito nelle coscienze, incattivito, tra l'altro,
da una malsana propaganda politica. Parole che escono dalla
bocca di un'operaia che si vede in Battipaglia analisi di
una rivolta, docu-inchiesta che Giorgio Rambaldi e Luigi
Perelli (il nome si lega a sei serie televisive della “Piovra”)
girarono nel 1970, esattamente un anno dopo i dolorosi eventi
che si consumarono nella cittadina della Valle del Sele, all'epoca
un polo dell'industria agro-conserviera. Era il 9 aprile del
1969, tutta Battipaglia si fermò per protestare contro
la chiusura di uno zuccherificio e un tabacchificio che davano
occupazione, seppur stagionale, a centinaia di lavoratori. Una
folla di circa ventimila manifestanti occupò strade,
campagne e i binari della ferrovia.
A pararsi contro un forte spiegamento delle forze dell'ordine
che, ben istruito dai sui vertici, iniziò a manganellare
e a sparare ad altezza d'uomo. Moltissimi dimostranti dovettero
far ricorso alle cure sanitarie, più sfortunati furono
Carmine Citro, un operaio di 19 anni che venne colpito mortalmente
alla testa, e Teresa Ricciardi, una professoressa di 26 anni,
raggiunta al cuore da una pallottola vagante mentre seguiva
la protesta dal balcone di casa. Gli incidenti di Battipaglia
vennero raccontati sulle prime pagine dei principali quotidiani
nazionali (quelli più conservatori parlarono di “moti
eversivi”) e nel giorno dei funerali delle due vittime
ci fu uno sciopero in molte piazze del Paese. Perelli e Rambaldi
a distanza di dodici mesi dagli incidenti piazzarono la loro
macchina da presa nella Camera del Lavoro di Battipaglia lasciando
liberamente parlare i presenti.
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Battipaglia (Sa), 9 aprile 1969 - La stazione ferroviaria, epicentro della repressione poliziesca |
Oltre a quella dell'operaia che invita alla solidarietà
tra i poveri, si sentono le voci di chi accusa la polizia per
l'inaudita violenza scatenata, di chi invece mette sul banco
degli imputati la magistratura per non essere riuscita a dare
nome e cognome ai responsabili delle due vite stroncate, di
chi ricorda le dimissioni del locale consiglio comunale e l'arrivo
del commissario prefettizio che poi non assolverà gli
impegni presi coi cittadini di Battipaglia. Parlano commosse
pure la madre e la sorella di Carmine Citro che aveva detto
loro che andava in piazza quel giorno perché: “io
un lavoro ce l'ho, ma è giusto che io mi batta per chi
il lavoro non ce l'ha, o lo sta perdendo”.
Conservato dall'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e
restaurato col contributo dell'Archivio Storico “Benedetto
Petrone” di Brindisi, il documentario di Rambaldi e Perelli
è stato presentato a Battipaglia nell'ambito delle manifestazioni
per il “cinquantenario dei fatti del 9 aprile 1969”.
Quelle immagini riviste oggi non fanno solo da lettura di una
tragedia e delle sue cause, ma si pongono a “condizione”
di un accostamento col presente, con una realtà industriale
non così diversa da mezzo secolo fa se si pensa ai diritti
violati sul lavoro, alla profonda crisi economica e industriale
che investe, senza intravedersi vie d'uscita, l'area di Battipaglia
e di tutta la Piana del Sele.
È un film in cui rimbombano fuori campo le parole enunciate
all'indomani dei fatti del “9 aprile” dal presidente
della Camera Sandro Pertini: “Solo pensando ai vivi non
sicuri del loro domani possiamo degnamente onorare i morti,
povere vittime innocenti”.
Mimmo Mastrangelo
Libereso Guglielmi/
Un meraviglioso erbario
L'erbario figurato di Libereso Guglielmi (L'erbario di Libereso.
Meraviglie della natura attraverso la matita del giardiniere
di Calvino, Pentàgora, Savona 2018, pp. 172, €
15,00) è un bel libretto con 110 tavole a colori e in
bianco/nero accompagnato da due testi di presentazione. Al suo
interno vi sono riprodotti i disegni a matita, gli appunti e
gli acquerelli di uno dei più grandi esperti di botanica
al mondo: Libereso Guglielmi.
Libereso
- un nome che significa libertà - figlio di un anarchico
tolstojano, vegetariano da sempre e pioniere del concetto di
biodiversità, è stato senza dubbio un testimone
fecondo di un modo libero e responsabile di vivere a contatto
con la natura.
Come già ricordato ai suoi tempi sulle pagine di questa
rivista, Libereso ci ha lasciati, novantenne, nel 2016, dopo
una vita coerentemente libertaria. È conosciuto ai più
come il giardiniere di casa Calvino o come il ragazzo che aveva
ispirato il personaggio del Barone rampante: quel Cosimo Piovasco
di Rondò che si rifiutava di mangiare le lumache arrampicandosi
sull'albero era infatti proprio Libereso, che sapeva spostarsi
di ramo in ramo. Ma sarebbe veramente riduttivo ricordarlo solo
così, infatti il suo contributo alla botanica è
notevole e la sua continua opera di ricerca lo ha portato a
girare il mondo scoprendo nuove piante e biodiversità
ovunque, dalla Riviera dei Fiori, passando per il Sud Italia
e l'Inghilterra, fino ai suoi numerosi viaggi in Asia, India
e Indonesia.
Negli ultimi anni della sua vita, senza mai trascurare il suo
giardino a San Remo, si era speso soprattutto nelle scuole elementari,
anteponendo sempre gli incontri con i bambini a quelli con gli
adulti dal momento che “i grandi pensano di sapere già
tutto”; non rifiutava però inviti a conferenze
sulla flora spontanea in giro per l'Italia, preferendo soprattutto
posti dove non era mai stato “perché il mondo è
grande e io vorrei vederlo tutto”, tra cui vorrei ricordare
la sua calorosa presenza alle Cucine del Popolo di Massenzatico
(Reggio Emilia) nel 2012.
All'amore per la botanica ha sempre accompagnato la passione
per il disegno, seguendo il disegnatore sanremese Antonio Rubino,
suo vicino di casa. Libereso disegnava ovunque e su qualsiasi
cosa, convinto che “il disegno è per tutti”,
e accanto ai disegni botanici si trovano, purtroppo non ancora
in un volume, scene quotidiane, caricature e fumetti anticlericali,
contro la guerra e il capitalismo.
Insomma, sfogliare L'erbario di Libereso, curato da Claudio
Porchia con la collaborazione della figlia Tanya Guglielmi e
del nipote Ryan, è sicuramente un bel modo per avvicinarsi
a Libereso e iniziare a conoscere questo libero pensatore, anarchico,
antifascista, obiettore di coscienza, vegetariano ben prima
che diventasse un modo di vivere comune a tanti, grande divulgatore
dell'amore per la natura e per il prossimo, creativo nella botanica,
nel disegno ma anche in cucina con le sue ricette a base di
fiori e di erbe.
Selva Varengo
Trilogia sul fascismo/
Buona la prima
M. Il figlio del secolo (Antonio Scurati, Bompiani,
Milano 2018 pp. 848, € 24,00) è una sfida, una provocazione,
un contributo alla storia e alla divulgazione dell'antifascismo
di cui si sentiva la mancanza. Scurati rimedia a questa falla
e lo fa inerpicando la sua narrazione su un sentiero sconosciuto:
raccontare dall'interno il Moloch fascista, la sua stessa genesi,
i primi passi del ventennio; l'epifania di Benito Mussolini
passato da essere un focoso signor nessuno a uomo della provvidenza
d'Italia.
Il
libro – parte di una trilogia – copre l'arco cronologico
che va dalla fondazione dei Fasci di combattimento (23 marzo
1919) alla seduta della camera dei deputati del 3 gennaio 1925:
i tempi immediatamente successivi all'assassinio di Giacomo
Matteotti. Tempi in cui quell'efferatezza era più che
mai presente nella vita italiana; tempi che avrebbero potuto
vedere il sipario chiudersi sul movimento fascista: sfaldato,
al suo interno, da varie correnti e additato e temuto dalla
popolazione per le sue mani sporche di sangue. Ma Scurati non
si concede sortite di alcun genere nella Storia controfattuale.
Man mano che le pagine scorrono, però, è indomabile
la sensazione che l'Italia avesse potuto evitare di vestirsi
con camicie nere così a lungo. Si vorrebbe che –
quasi per magia – la letteratura potesse piegare il corso
della Storia e farci svegliare da quel flashback che ha inquinato,
e continua a inquinare, la nostra memoria collettiva e il nostro
dibattito pubblico.
A proposito di M. Il figlio del secolo nelle pagine di
rispetto del volume ci viene detto che abbiamo tra le mani un
“romanzo documentario”; una prima considerazione
sulla curatela editoriale porta a ritenere perlomeno discutibile
la scelta di far campeggiare in copertina la dicitura “romanzo”:
primo perché fuorviante nei confronti dei lettori, secondo
perché macchia una resa grafica altrimenti azzeccata.
In secondo luogo, tralasciando la necessità di dover
per forza incasellare all'interno di un genere letterario un'opera
la cui stessa natura prende le distanze da facili definizioni,
la dicitura “romanzo documentario” ci viene in aiuto
nell'analisi dello stile di Scurati e, soprattutto, riguardo
a ciò che vuole comunicare. Il Nostro colloca la sua
macchina da presa nelle piazze e nelle parate fasciste, negli
scioperi operai che dal rosso sfumano verso il nero, nelle stanze
del potere, per non parlare dei salotti e dei bordelli. Nelle
campagne e nei vicoli dove si consumano le bastonature: insomma
l'autore non fa sconti e prima ancora che al contesto socio-politico,
non fa sconti ai suoi lettori. Siamo di fronte a una non-fiction
novel sublimata da una penna poliedrica che sa entrare nei gangli
dei primi anni Venti italiani facendosi cronista, fine conoscitrice
della mente umana, abile analista di politica interna, reporter
di una guerra civile ai suoi albori.
Minimo comun denominatore rimane, per tutte le 800 pagine del
volume, uno stile da scrittore di razza, che se in rare occasioni
sembra concedere qualcosa alla ricostruzione storiografica pura,
non scade mai nel retorico e nel melenso offrendo un registro
linguistico e narrativo di livello.
La prima parte della sfida di Scurati – in attesa del
resto della trilogia – può dirsi vinta: innestare,
tramite una divulgazione ben documentata, un cortocircuito di
prospettive nella pancia e nella mente dei lettori si rivela
un esercizio di riflessione necessario; costringere, tramite
patto narrativo, a un corpo a corpo con il duce del fascismo
spinge, giocoforza, i lettori oltre la lettura del libro. Dove
li spingerà ci piacerebbe fosse il segno di un futuro
migliore a dirlo.
Matteo Pedrazzini
“Pazzia”/
I bambini istituzionalizzati
All'interno di quel caleidoscopico viaggio che è “Buon
Compleanno Faber” (festival che si svolge a febbraio in
Sardegna), quest'anno è stato presentato un interessante
lavoro di ricerca sul mondo della psichiatria infantile. Alberto
Gaino, giornalista e scrittore, ha pubblicato un volume dal
titolo Il manicomio dei bambini. Storie di istituzionalizzazione
(Ega Edizioni Gruppo Abele, Torino 2017, pp. 224, € 15,00).
La storia raccontata è tutta nel titolo. Gaino ha indagato
la realtà, poco conosciuta, delle strutture manicomiali
dedicate all'infanzia e adolescenza che furono attive nel nostro
paese fino alla seconda metà degli anni '70 del XX sec.,
studiando il caso di Villa Azzurra, manicomio per minori di
Grugliasco, paese alle porte di Torino, sorto nel 1937 e chiuso
definitivamente nel 1979 (la Legge 180, cosiddetta Basaglia,
viene approvata nel maggio del 1978).
L'inchiesta di Gaino da qui si dipana per indagare la situazione
attuale della “follia” dei minori, puntando il focus
su problematiche nuove e dinamiche che pericolosamente si avvicinano
a quelle del passato. La lucida e terrificante follia della
creazione e gestione di strutture manicomiali dedicate a bambini
è inevitabilmente il dato che colpisce appena ci si cala
nel mondo raccontato da Gaino: Villa Azzurra, la cui storia
si sviluppa inestricabilmente unita a quella dell'Ospedale Psichiatrico
di Collegno, nasce per ospitare bambini/e e ragazzi/e minorenni
(vi si poteva accedere dall'età di 3 anni) considerati
“malati”, “pericoli per sé e per gli
altri”. Erano figli della povertà socio-economica
e culturale dell'epoca.
“Il bambino ama chi
rispetta”
Erano figli di madri nubili, di genitori che non avevano la
possibilità di accudirli dignitosamente, provenienti
da situazioni familiari spesso già pesantemente compromesse.
È un quadro già visto, lo sappiamo bene, dice
Gaino «è un fatto che nei quattro ospedali psichiatrici
di Torino e provincia il picco di ricoverati (...) si raggiunse
nel 1966. Il 37 per cento dei pazienti (...) era costituito
da ex operai, il 28 per cento da casalinghe, il 9 per cento
da agricoltori. Non si è trovato un rifermento a quanto
non fosse nemmeno ex qualcosa.»
Si
capisce bene che fine facessero i figli di questi ex qualcosa.
Come nei manicomi per adulti, così anche in quelli per
bambini venivano internati individui con differenti patologie
fisiche e/o psicologiche, epilettici, sordi, ciechi, ipovedenti
oppure bambini semplicemente troppo vivaci e irrequieti o considerati
“ritardati”. In quanto tali, erano minori “pericolosi”
perché, in modi differenti, si trovavano al di fuori
di una normalità definita da una società che si
considerava civile (all'interno di Villa Azzurra si veniva etichettati
come “educabili” o “non educabili”).
Se la povertà costituisce la base su cui si fondano le
storie dei piccoli ricoverati, le cartelle cliniche di alcuni
pazienti, scarse quasi tutte d'informazioni sulla vita dei singoli,
rivelano altro: non vi era alcuna capacità e volontà
di prevenzione né di aiuto, ma l'unica modalità
messa in campo era quella della contenzione. I minori di Villa
Azzurra e di Collegno venivano contenuti all'interno di strutture
nate per tale scopo e venivano contenuti anche fisicamente ai
loro letti, alle panchine e alle reti di recinzione durante
la notte e il giorno.
La punizione era vista come privilegiato mezzo rieducativo,
“Il bambino ama chi rispetta” questo era il motto.
Un percorso in libera e veloce discesa verso la totale disumanizzazione
passava anche attraverso il linguaggio utilizzato: i ricoverati
non erano bambini, non erano degenti, non erano neanche malati,
ma erano “gli arnesi”. Di un “arnese”
si fa ciò che si vuole. Sarebbe stato molto più
dignitoso chiamarli “pazienti”, perché quello
facevano, “soffrivano” ma la dignità è
un concetto lontano dal mondo che Gaino descrive.
Una prima scossa al sistema di Villa Azzurra avviene nel 1968
quando scoppia il caso di Alberto B., bambino internato nella
struttura e vittima, come gli altri, dei continui abusi. Il
Direttore di quel tempo era Giorgio Coda, noto “elettricista”
soprannome dovuto alla facilità con la quale applicava
elettroshock ed elettromassaggi (scariche elettriche alle zone
pubiche) che verrà condannato nel 1974 ma mai radiato
dall'Ordine dei Medici. È però del 1970 lo scandalo
che apporterà alcune modifiche al sistema e condurrà,
nel 1979, alla chiusura della struttura: “L'Espresso”,
nel luglio 1970, pubblica un articolo a firma di Gabriele Invernizzi
sulle condizioni disumane dei piccoli ricoverati di Villa Azzurra.
L'articolo è arricchito da fotografie di Mauro Vallinotto
che non lasciano nulla all'immaginazione, “celebre”
la foto di Maria, una bimba nuda crocifissa al suo letto.
La follia di Villa Azzurra non avrebbe potuto reggere se non
ci fossero stati quelli che Gaino chiama “meccanismi del
potere” all'interno di una “cultura della protezione”
che, come scrive l'autore «fu il collante ideologico,
più che culturale, che da sinistra a destra aveva messo
d'accordo tutti, persino gli illuminati di quel tempo oscuro.»
Anche queste sono le storie di istituzionalizzazione
del sottotitolo. Per convenienza/connivenza o per cecità,
le istituzioni alimentarono il sistema. Poche e isolate furono
le voci che si levarono come critica al sistema manicomiale,
pochissime quelle che si occuparono di internamento infantile.
Attraverso i pochissimi documenti disponibili
In opposizione al silenzio del passato, per «non dimenticare;
ricordare a chi è vissuto al tempo dei manicomi e informare
chi non c'era», Gaino dedica la parte centrale del suo
lavoro al racconto di alcune storie di singoli ricoverati, ricostruite
attraverso i pochi documenti disponibili e, in alcuni casi,
attraverso le testimonianze dirette di chi è sopravvissuto:
ricostruendo le vite dei singoli e pubblicandole, l'autore aiuta
gli ex bambini di Villa Azzurra nel processo di riappropriazione
della propria storia e, quindi, nel percorso di riappropriazione
di una propria dignità. Ricordare, innanzitutto, per
dare dignità alla vita.
Le “storie di istituzionalizzazione” non sono, però,
solo quelle del passato; Villa Azzurra fa da specchio alle storie
dell'oggi. Alcune di esse, ci ricordano più da vicino
la follia e violenza della struttura piemontese, come l'esempio
della comunità/cooperativa agricola “Il Forteto”,
fondata nel 1977 (quando si stanno chiudendo i manicomi in Italia)
da Rodolfo Fiesoli. Nelle intenzioni una comunità innovativa,
improntata su un modello integrativo nel quale l'importanza
dell'individuo era garantita e connessa con il lavoro agricolo,
nella realtà si tramutò presto in una vera e propria
setta laica, al cui apice stava il suo fondatore, basata su
violenza e negazione dei diritti individuali: abusi sui minori,
umiliazioni, rapporti/abusi sessuali visti come parte integrante
della terapia. Fiesoli riuscì a creare e mantenere una
struttura del genere grazie all'appoggio incondizionato interno
ed esterno alla comunità.
I migranti psichiatrici
È incredibile vedere, come a distanza di qualche decennio
ma con una legge, la 180 nel mezzo, la cecità delle istituzioni
sia rimasta invariata rispetto a quella chiarita nell'esempio
di Villa Azzurra. Il Forteto, infatti, riuscì a ingrandirsi
e fortificarsi grazie al cieco appoggio delle istituzioni, primo
fra tutte il Tribunale dei minori di Firenze; la comunità
venne proposta come esempio da seguire sia dal punto di vista
terapeutico sia da quello economico (divenne una delle più
importanti realtà economiche agricole del Mugello). Fiesoli
viene condannato solo nel 2015.
Ma non ci sono solo i casi eclatanti, fa spavento anche la normalità.
Secondo l'indagine di Gaino manca una vera politica sociale
di prevenzione legata ai problemi psichiatrici per l'età
evolutiva: ci sono problemi oggettivamente derivanti dal taglio
economico di alcune risorse e mancano percorsi formativi adatti,
tutto ciò mentre le richieste di ricovero in strutture
che si occupano di neuropsichiatria infantile sono in aumento
perché in aumento le diagnosi (dovute a maggior capacità
di diagnosi ma anche all'introduzione nel Manuale Diagnostico
e Statistico di nuove patologie): diminuiscono, nel contempo,
i posti letto e si allungano le liste d'attesa.
Una conseguenza di tutto ciò è l'incentivazione
del fenomeno dei migranti psichiatrici, costretti a migrare
da una regione all'altra del territorio italiano alla ricerca
di disponibilità per il ricovero. Gaino tocca anche il
problema ancora aperto dell'uso della forza, mostrando i tentativi
di stesura di protocolli e raccomandazioni per normarla.
Esistono nuove emergenze psichiatriche, come quella legata al
flusso di migranti minori stranieri: portatori, nella maggioranza
dei casi, di vissuti traumatici alle loro spalle ma per i quali
non esiste un piano condiviso né strutture capaci di
venir incontro alle loro necessità. L'argomento viene
affrontato attraverso la visita al centro di prima accoglienza
di Archi (Rc) dove, nel 2016, scoppiò la protesta: giornate
passate nell'inedia e nel degrado e assenza di mediatori culturali
che possano aiutare i ragazzi.
Un dato importante su cui riflettere: il numero di minorenni
che giungono in Italia è in aumento; questo, ci spiega
Gaino, per la maggior facilità con la quale un minorenne
è tutelato, almeno formalmente (ad es. ottenendo più
facilmente i documenti). Ciò porta molti migranti a dichiarare
un'età al di sotto dei 18 anni ma nel contempo aumenta
l'interesse dei trafficanti umani per i minori (specialmente
nell'ambito della prostituzione).
In conclusione, una citazione dalla prefazione “Un racconto
di quel che è stato non può (...) trascurare il
presente e il futuro. Oggi la follia è altro da quanto
era in passato e ho provato a descrivere: fenomeno di massa,
fenomeno di poveri, manicomi come discariche umane e sociali.
Lo scrivo e subito mi chiedo: sicuro che sia così? La
verità è che non ne sono affatto sicuro: i matti
sono per lo più poveri, lo sono per la stessa condizione
di emarginazione sociale in cui sono rinchiusi.”
Alice Nozza
Musica per Emma Goldman/
Le passioni affiorano quando ce n'è bisogno
Si torna sempre più spesso a parlare di Emma Goldman,
anche nel mondo della musica.
Conobbi la sua figura negli anni '90, un periodo in cui dai
decenni precedenti ritornavano scottanti tra i movimenti giovanili
temi come ecologismo, antispecismo, riscoperta del corpo, questioni
di genere, sessualità, nuove tecnologie... Certo un volume
edito nel '76 dal titolo “Anarchia femminismo e altri
saggi” sembrava difficile da incastonare nel “contemporaneo”
cambio di millennio, eppure tanto la foto di copertina pareva
polverosa, tanto le parole tuonavano attualissime. Fu così
che imparai anche la famosa citazione (peraltro mai pronunciata
dalla Goldman nella versione sintetica che conosciamo) ”se
non posso ballare, allora non è la mia rivoluzione”,
un motto riscoperto giusto in tempo per essere adottato dalla
controcultura rave quando fece irruzione nella scena mondiale.
Proprio in quel periodo fioccarono infatti le citazioni dell'anarchica,
prima di moltiplicarsi nell'ultimo quinquennio.
Un
anno fa il collettivo napoletano E.L.E.M. (Marco Messina
dei 99 Posse, Fabrizio Elvetico, Loredana Antonelli) pubblicava
un notevole album di musica elettronica dal titolo “Godere
Operaio”. Lì una traccia di musica dub “aliena”
era dedicata alla Goldman con campionamenti in Inglese da un'intervista
televisiva: “L'anarchismo è una filosofia sociale
che mira all'emancipazione, economica, sociale, politica e spirituale
della razza umana”. Il mese scorso, invece, è uscito
un nuovo album di Xabier Iriondo (Afterhours) e Stefania
“?Alos” Pedretti (OvO) dal titolo Coscienza
di sé (Sangue Disken/Cheap Satanism 2019): un intero
lavoro dedicato alla figura della scrittrice rivoluzionaria,
registrato nel 2018, dicono, “quando il femminismo stava
riprendendo linfa vitale, anche grazie al movimento Non Una
di Meno”. Xabier e Stefania, lettori di “A”,
hanno un percorso di militanza di oltre vent'anni; il primo
anche per storia familiare, con il nonno nelle brigate garibaldine
e il padre basco a Gernika sotto i bombardamenti del '37. In
quest'opera hanno scelto di comunicare attraverso un sound sempre
minimale e crudo, ma meno ostico, rispetto alla materia sonora
abrasiva e detonante alla quale ci hanno abituato nel tempo,
solitamente di ambito noise/metal. I testi, tratti da “Femminismo
e anarchia” e cantati in Italiano, accompagnano l'ascoltatore
attraverso la ripetitività ipnotica di una musica industrial-punk
con venature melodiche. L'album è un trip che
dall'incipit quasi “tibetano”, passando per violente
arringhe, sfiora i margini del “pop” sciogliendosi
in una ballata nel finale. È insomma un intenso viaggio
iniziatico per rompere “i ceppi che imprigionano la tua
mente”, come canta Stefania. Un disco importante che ancora
una volta ribadisce l'attualità del pensiero di Emma.
Partito quindi alla ricerca dei lavori musicali dedicati alla
figura della rivoluzionaria, il quadro che ne è emerso
ha confermato la presenza via via più massiccia di citazioni,
prima nel cambio di millennio e poi nell'ultimo triennio, in
una rosa di artisti di svariati generi, con leggera prevalenza
di musica elettronica e punk.
Si inizia con il jazzista Phil Minton che pubblica “to
Emma Goldman” nel 1981. Quattro anni dopo esce “Petals
and Ashes (A Song For Emma Goldman)” dell'artista post-punk
Jeremy Kidd. Nel 1986 Leonard Lehrman e Karen
Ruoff Kramer scrivono “A Musical Portrait of Emma
Goldman”, opera per canto e pianoforte in scena fino al
2015. Nel 1989 il funambolico gruppo olandese The Ex
inserisce le parole di Emma nel brano “Tightly Stretched”
in cui suona anche Lee Ranaldo dei Sonic Youth.
Dopo questi “pionieri” saltiamo al 1996, anno in
cui il musicista country Bucky Halker le intitola un
brano, mentre i Refused, band svedese di culto della
scena post-hardcore, inseriscono la citazione “Se non
posso ballare...” sulla retrocopertina del mini album
“Rather Be Dead”. L'anno dopo Steve Earle
scrive per lei “Christmas in Washington”. La band
Piggy: The Calypso Orchestra of the Maritimes le dedica
una canzone omonima nel '99 e il gruppo folk tedesco Trio
Kali Gari nel 2001. Fanno lo stesso, l'anno successivo,
la cantautrice Jolie Rickman e il gitano Taraf Borzo,
mentre l'omaggio del gruppo skate-punk Randy s'intitola “Karl
Marx and History”. Songs for Emma Goldman è
il nome di una band californiana attiva dal 98 al 2003, anno
in cui Joan Baez esegue una cover della canzone di Steve
Earle su citata. Sempre nel 2003, gli Zu, formazione
romana di musica sperimentale, includono in una compilation
il brano “Portrait N°2, Emma Goldman”; il gruppo
post-punk Pretty Girls Make Graves pubblica “Modern
Day Emma Goldman”; l'artista elettronico Cadmium Dunkel
le dedica una traccia; stesso discorso, pochi mesi dopo, per
i New Orleans Troublemakers e la band hardcore Kakistocracy
che si chiede in “Red Emma” se la nostra amata abbia
combattuto invano, visti i tempi che corrono. Nel 2005 i Chumbawamba
incidono “When Alexander met Emma” e nel 2006 l'artista
indie-rock White Town pubblica lo strumentale “Fanfare
for Emma Goldman”. Nel 2007 le intitolano una canzone
il gruppo post-rock Art Of Fying e la cantante folk Anne
Feeney; Bev Grant lo fa un anno dopo e il collettivo
Reggaecide nel 2009. Nel 2010 tocca al rapper greco B.D.Foxmoor
ed è dell'anno seguente “Love & Emma Goldman:
A Rock Opera” di Jeremy Bleich e Sarah-Jane
Moody. Nel 2014 all'anarchica vengono dedicati quattro pezzi
dalla cantante folk Jerusha, dalla folk band inglese
Fit and the Conniptions, dall'artista elettronico Kirdek
e da Sole, uno dei fondatori dell'etichetta “Anticon”,
che pubblica insieme a DJ Pain “I Think I'm Emma
Goldman”. Nel 2015 la band punk-electro tedesca 100blumen,
sulla retrocopertina del disco “Under Siege”, scrive
Emma Goldman come “autore” e il chitarrista britannico
David Birchall dà alle stampe il brano “For
The Third Time That Week She Asked Herself: What Would Emma
Goldman Do?”. Il gruppo punk inglese Martha in
“Goldman's Detective Agency” del 2016 immagina Emma
la Rossa come un detective che investiga la corruzione di politici
e polizia, e anche il produttore techno Plaggona le dedica
una traccia. Ma è arrivando al 2018 che le citazioni
si moltiplicano: a New York va in scena “Red Emma &
The Mad Monk”, un'opera teatrale satirica di Katie
Lindsay e Alexis Roblan; il producer tedesco AGF
le dedica un brano sull'album “Dissentova”; il vibrafonista
jazz di Atene pubblica un tributo sull'album “Indoles”;
il produttore Lucius Work Here scrive “La Mujer
Más Peligrosa De América (para Emma Goldman)”;
la band punk americana Anti-flag incide “Trouble
Follows Me: A tribute to Emma Goldman”; The Blood Feud
Family Singers pubblicano “Emma Goldman's Arrest”.
E poi, come dicevamo, escono il brano di E.L.E.M. e quest'anno
l'album di ?Alos e Iriondo, quasi sventolando
il fantasma di Emma La Rossa per rammentarci che la storia è
già stata scritta, ma non tutti imparano dal passato
e, tra un “Congresso Mondiale delle Famiglie” e
una proposta di legge anti-abortista, i ricordi e le passioni
affiorano quando ce n'è maggiormente bisogno.
Tobia D'Onofrio
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