Bella Ciao, sorridi Petrula, la “manaia”
Una riflessione sulla cultura orale della più
grande cantante popolare italiana: Giovanna Daffini. E se non
fosse per i benemeriti “Dischi del Sole”...
Il 7 luglio di quest'anno ricorrerà il cinquantesimo
anniversario della morte di Giovanna Daffini, la nostra maggiore
cantante popolare. La sua forza espressiva fu immensa ed è
tutt'ora un punto di confronto essenziale per chiunque si accosti
al repertorio di canzoni di lavoro delle mondine e più
in generale al folklore padano. Ancor di più la sua dignità,
la sua intelligenza, la sua integrità sono un esempio
per ogni cantante ed ogni persona interessata alla cultura.
Per ogni lavoratore, ogni uomo che si confronti con l'universo
femminile, senza sognare le principesse e le statue mute, le
Nike alate, ma le donne vere, le madonne della fatica quotidiana.
Per capire come giunse a noi - nel breve volgere di sette anni
di attività - questa travolgente esperienza umana e artistica,
dobbiamo tornare all'inizio del Folk Revival italiano. Siamo
nei primi anni sessanta, si è appena inaugurato un percorso
di fatica e passione, di canto e di pensiero, di scavo e riproposizione,
ad opera di un pugno di intellettuali di origine più
o meno borghese, coordinati da due figure preminenti, un giornalista-ricercatore
puro Roberto Leydi e un organizzatore di cultura, un militante
socialista, che ha appena scoperto l'etnologia, Gianni Bosio.
Il primo dirige il Nuovo Canzoniere Italiano (la rivista che
fu il perno intorno al quale si organizzava l'attività
discografica e concertistica) il secondo coordina e indirizza
tutta la struttura e il lavoro editoriale che vi sta dietro,
ovvero le edizioni Avanti! (nate ovviamente nell'ambito dell'omonimo
giornale socialista, ma che presto muteranno il nome in edizioni
del Gallo).
Le più straordinarie scoperte del Nuovo Canzoniere, sono
il poeta-cantore urbano Ivan Della Mea - all'epoca un ragazzaccio
di strada che componeva versi che mandava a memoria e recitava
su una sorta di nenia - e poi due donne che più lontane
fra loro non sarebbero potute essere, per età, provenienza,
condizione sociale, cultura, esperienze: si chiamavano entrambe
Giovanna, una faceva di nome Daffini l'altra Marini.
Figlia di poveri musicisti itineranti
Giovanna Daffini era nata in provincia di Mantova nel 1914 da famiglia povera di contadini musicisti itineranti, il padre col violino faceva il commento dei film muti ma con l'arrivo del sonoro le entrate si erano ristrette, tanto che aveva cominciato ad andar per fiere facendosi accompagnare da questa figlia che sferragliava a tempo sulla chitarra e cantava con voce penetrante. Incontra e sposa Vittorio Carpi (lei ha 19 anni, lui è vedovo con 4 figli), violinista di una nota famiglia di suonatori che aveva introdotto i balli che in nuce contengono la genesi del liscio padano. Insieme erano andati a vivere a Gualtieri (RE), lo stesso paese di Ligabue (il pittore).
Giovanna nella prima gioventù negli anni trenta e quaranta aveva fatto anche la mondariso - perciò aveva un nutrito repertorio di canzoni di monda - sempre più sporadicamente, finché dagli anni cinquanta faceva ormai solo la “cantanta” alle fiere, sulle piazze, alle feste private, ai matrimoni - dove le chiedevano gli ultimi successi della radio, i suoi cavalli di battaglia La violetera e Violino zigano, qualche strofa salace di osteria - e ai funerali dei partigiani (ne aveva nascosti diversi durante la resistenza) eseguiva immancabilmente La brigata Garibaldi. Il marito aveva velleità di musicista serio, si faceva chiamare “professor Carpi” ma quando non trovava scritture in qualche Rigolettaccio di paese, accompagnava la moglie a fare la posteggia nelle osterie sul Po: le esigenze ormai erano poche, i figli emigrati e il canto un piacere oltre che un sostentamento.
Così la scoprirono assieme Bosio e Leydi nel 62 e ne rimasero folgorati, come chiunque di quelli che la incontrano sui dischi, anche a mezzo secolo dalla sua morte. La Daffini è per noi il blues incarnato: non solo porta memoria dei canti, della rabbia, ma è una vera professionista popolare perfettamente conscia delle sue possibilità, in possesso di uno strumento vocale gestito e dominato con millimetrica precisione, in base a codici culturali che le sono familiari. Le sue passioni per la musica leggera o per le arie d'operetta non spostano di una virgola la sua essenza: ogni nota in bocca alla Daffini si colora di vita, di allegria, di rabbia. Lo scambio col Nuovo Canzoniere si compie magicamente, Bosio e Leydi trovano un'artista dispostissima a seguirli, a cercare nel proprio repertorio ciò che più li compiace - lei non è che onestamente trovasse granché questi canti di risaia, tanto più che le ricordavano un periodo tristissimo di orrende fatiche, ma se questi cittadini intellettuali che si interessavano a lei volevano sentir proprio quelli... - e anche a imparare le canzoni nuove che le sottopongono, sempre piegandole al suo stile e ai suoi vezzi. Quando nel 1965 il compositore greco Theodorakis porta il canto di protesta Sotiris Petrula (dal nome di uno studente torturato e ammazzato ad Atene) pare una bella idea farlo cantare proprio alla Daffini, e lei ineffabile a gola spiegata “sorriiidi Petruuula”, “ma - le dicono - Giovanna, altro che sorridere: quello è un martire, torturato e ucciso dalla polizia” e lei “ma sciuona coscì bene... sciorridi Petrula...”: per lei questa bellissima melodia non poteva che essere una canzone d'amore dedicata a questa tal “Petrula”!
Con il Nuovo Canzoniere Italiano
Non c'è spettacolo o rassegna importante di quegli anni
in cui la Daffini non venga coinvolta - con o senza il marito
al violino: l'Altra Italia, Pietà l'é morta, Bella
Ciao, Ci ragiono e canto... Bella Ciao - come tutti sanno -
è uno spettacolo storicamente importantissimo - il mito
fondativo del Folk Revival - che sin dalla Prima al Festival
dei due mondi di Spoleto, fu accompagnato da furiose polemiche,
denunce e proteste, dando oggettivamente la notorietà
ai suoi interpreti e organizzatori. La pietra dello scandalo
fu l'esecuzione di una disperata invettiva antimilitarista O
Gorizia tu sei maledetta dove una strofa di particolare
virulenza “traditori signori ufficiali / voi la guerra
l'avete voluta /scannatori di carne venduta / e rovina della
gioventù” fu accusata di essere un'abile contraffazione
volta a dipingere nell'ottica del conflitto di classe la relazione
fra ufficiali e fanti.
Proprio per questo, oltre che a proiettare sul Nuovo Canzoniere
un grosso successo mediatico, lo spettacolo Bella Ciao è
servito, in modo del tutto inaspettato, per determinare una
dicotomia che interessava assai Bosio e molto meno a Leydi (che
infatti si andrà via via staccando fino a rompere malamente)
ovvero che la canzone popolare fosse percepita come naturalmente
“partigiana”, come alfabeto essenziale della sinistra
rivoluzionaria. La cosa presenta anche qualche insidia: tutta
la chiave interpretativa proposta dallo spettacolo e dal relativo
disco, si reggeva sull'idea che la canzone di lavoro non fosse
una pura lamentazione o una rivendicazione delimitata, ma rivelasse
una sorta di coscienza della classe operaia, tanto è
vero che al momento del bisogno viene riutilizzata (“rifunzionalizzata”
per usare un tecnicismo) come arma culturale. Il canto di mondina
poteva diventare sic et simpliciter un canto antifascista.
L'ultimo fronte di difesa dei lavoratori, oggi
Questa tesi trovava la sua esplicitazione didascalica proponendo in apertura allo spettacolo la canzone Bella ciao, prima in versione mondina eseguita dalla Daffini, poi in quella partigiana corale, e infine invertendo le due versioni in chiusura. La versione “Bella Ciao Mondina”, manco a dirlo proveniva dal repertorio di Giovanna, e lei aveva assicurato di aver cantato quella versione, proprio con quelle parole, ben prima della guerra, quando faceva la mondariso.
Peccato che questa brillante idea si rivelasse poggiata - almeno in questo caso - su un assunto del tutto falso: nel maggio del 65 - undici mesi dopo la contesta prima di Spoleto, col disco bell'e uscito e alla vigilia dell'attesissima ripresa milanese - alla redazione del quotidiano comunista “l'Unità” arrivava una lettera di tal Vasco Scansani, sindacalista anche lui di Gualtieri il medesimo paese in cui abitava la Daffini, che sosteneva che le parole della Bella ciao mondina le avesse scritte lui nell'occasione di una competizione canora fra ex-mondariso, modellandole sul canto che aveva effettivamente appreso durante la lotta partigiana.
Bosio riuscì a intercettare la lettera e decise di occultarla per qualche tempo, allo scopo di gestirne la pubblicazione a tappe, accompagnata da un'analisi di tutte le fonti riguardanti il brano: essendo già accusati senza mezzi termini di aver manomesso il testo di Gorizia facendo passare per popolari dei versi scritti da loro, questa ulteriore falsificazione, per quanto in buona fede, avrebbe minato la credibilità di uno spettacolo già così duramente contestato. Si organizzò addirittura un confronto all'americana fra la Daffini e Scansani e se ne trasse la conclusione di essere incorsi nel più classico errore del ricercatore, quello di considerare il proprio informatore un inerte deposito di canti. La furbissima Giovanna, volendo compiacere quei suoi committenti e trovandosi a corto di canti di risaia, era ricorsa a quella canzone retrodatandola per immergerla in un'aura più mitica, tanto è vero che la prima esecuzione che lei aveva cantato, e che il registratore aveva impietosamente documentato, era sbagliata, poi in seguito - essendosi nel frattempo confrontata con l'autore - l'aveva precisata: messa di fronte al nastro con quella prima esecuzione errata Giovanna aveva semplicemente negato “mo' non sciono mica io quela lì che canta lì”, indizio in più contro la sua buona fede.
Insomma, un bel patatrack per i sostenitori del folklore progressivo, ancora oggi troverete appassionati e studiosi serissimi che affermano che Bella ciao partigiana deriva da un canto di risaia: il mito è più forte della verità! A me pare quasi più significativo il fatto che un canto di resistenza possa divenire un canto di lavoro, visto che oggi l'ultimo fronte della resistenza è la difesa dei diritti dei lavoratori.
Al di là del gustoso aneddoto e del significato storico della vicenda, con questo atteggiamento tutt'altro che neutro rispetto ai testi da cantare, Giovanna Daffini manifestava tutta la sua intelligenza d'interprete, la sua capacità d'intervento, piegando il proprio repertorio alle sue esigenze e alla sua cultura. Fra le canzoni “nuove” che gli intellettuali anti-accademici del Canzoniere le proponevano, c'erano alcune canzoni d'autore di sapore popolare come La morte di Anita di Liberovici, Questa è una storia di Della Mea, oppure i canti anarchici relativi alla vicenda di Sante Caserio, quello di Gori e quello anonimo di cantastorie sulla decapitazione. Giunta al momento culminante, alle prese coi versi “Poi con precauzione / dal boia fu legato / e in piazza di Lione/ fu dunque trasportato / e spinto a forza il capo entrò / nella mannaia che lo troncò” Giovanna si trova di fronte a questa forzatura (evidentemente il capo non può “entrare nella mannaia”, semmai sotto...) che non riconosce e che non appartiene al suo lessico. Giovanna pronuncia dunque non “mannaia” bensì “manaia”, qualcosa che ha a che fare con le mani: ha appena detto che era stato legato “con precauzione”, quindi tutto questo gioco di mani - la manaia - è coerente con l'atmosfera generale.
Una parabola breve
Proprio da questi particolari - Sorridi Petrula, la manaia - che al primo colpo ci fanno sorridere come se fossimo davanti alla manifestazione dell'ignoranza, cogliamo invece la forza di immedesimazione visionaria che sta alla base dell'arte della Daffini: essa non può limitarsi a “riferire” un testo, a cantarlo bene come le hanno chiesto, essa deve “vivere” le sue canzoni, riportarle alla sua esperienza di donna, alla sua “cultura”. Non c'è canto senza pensiero, e ogni cantore è un intellettuale, un narratore, un veggente.
Purtroppo la parabola di Giovanna è breve, muore nel 69 a soli 55 anni lasciandoci un pugno di foto, due pugni di canzoni e nessun filmato. Se i Dischi del sole non le avessero dedicato un certo spazio, nulla ci sarebbe rimasto di questo monumento della cultura orale.
Alessio Lega
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