Rivista Anarchica Online





Un affollarsi veloce di meraviglie

Come mi piace farmi sorprendere – quante volte ve l'ho detto: è che con l'andare avanti dell'età mi sembra sempre più complicato trovare della musica adatta a spegnere la sete. Un po' per l'accumulo degli ascolti, un altro po' per l'infittirsi della rete di collegamenti e ricordi che senz'altro influisce sull'innesco del retrogusto. Inoltre, a certe cose che si cantano e suonano in giro oggi proprio faccio fatica a entrarci dentro, non so, come se la rivoluzione per chi ha vent'anni adesso suonasse differente, e tanto. Però dai, è bello quando succede, quando ti si spalancano gli occhi e la bocca, quando appoggi la puntina sopra a un disco che gira oppure schiacci play oppure vai a un concerto e sei preso in mezzo ad un affollarsi veloce di meraviglie, fuochi che si accedono, pioggia salvifica che cade, vento, boschi, scintille.

È stato per alcuni versi spaesante ritrovarsi a guardare/ascoltare i Franti di nuovo tutti e cinque insieme sopra a un palco a Torino, verso metà aprile. Forse ho perso l'abitudine all'aria fresca di una volta, ed è stato bello e poi emozionante e poi commovente e poi straziante ritrovarsi magari per una sera soltanto a vivere riconoscendosi parte di un gruppo e pure e comunque fieramente individuo, unico e solo. Una gioia ciascuna le vecchie canzoni: il brivido in corsa folle sotto la pelle, il cuore che accelera, quella parte di me che ha invariabilmente vent'anni che si fa largo a gomitate e che ritorna a galla a riprendere fiato dopo tanta apnea. Ed una gioia ancora maggiore le canzoni nuove, un po' come rivivere un sogno di una volta rimasto sepolto sotto le rovine dei terremoti e dei nubifragi e degli incendi che da quegli anni Ottanta in qua hanno riempito il mio calendario, fatto di stagioni in circolo ed alternarsi di giorni neri tanti e giorni rossi troppo pochi – calendario che so essere strutturato così miserabilmente simile al vostro. Lalli Vanni Marco Massimo Stefano – è stato bello guardarvi negli occhi ed abbracciarvi ancora. Voialtri invece, se non ci siete stati a metà aprile, se non c'eravate o non potevate esserci allora, dirigetevi su www.magazzinifranti.it a leggere, guardare, ascoltare, dissetarvi. Fino a qualche tempo fa pensavo a Franti come ad un incidente frontale felice che mi ha cambiato la vita. Rubando le parole a voi-sapete-chi, oggi penso a Franti come ad un bacio mai dato, come ad un amore nuovo.

La cover di Asylum
Asylum

Non c'è albero che voglia male al giardino,
non c'è figlio che non abbia avuto utero
non c'è uomo che non possa farsi asilo”

Sorprese, si diceva, e belle grosse. Mettiamo, ad esempio, questo “Asylum” nato da poco in un luogo che conosco cioè l'ex-Asilo Filangieri di Napoli – un covo di artisti senza etichette addosso dove sono stato più volte e dove sono stato sempre accolto come un parente che torna dall'estero. Antonio Raia mica lo conosco di persona, no, non so, ma forse anche sì, ma sì. Alla sorpresa segue presto il dubbio, che mi si è messo ad orbitare intorno perché – anche se so non può essere, lui ha la metà dei miei anni... – la sensazione forte è che a suonare qui dentro sia un amico d'infanzia. Bastano solo pochi passi dentro all'ascolto del disco, e mi ritrovo in stanze che conosco e frequento, la luce giusta, odori e profumi che già mi sono passati per il naso ed assieme a loro aria che mi è già entrata nei polmoni. Come stare fra vecchi compagni, fra sorelle e fratelli. In una parola, come a casa – che strano, ecco.
La prima cosa che mi è venuta in mente, eccola – mi sono chiesto: chissà come si sarà sentito Antonio nel rendersi davvero conto di che cosa stava accadendo mentre Renato Fiorito gli piazzava i microfoni intorno. Mi piace immaginare che al gesto del click [registrazione in corso] sia trasfigurato, o abbia varcato una qualche porta tra le dimensioni.
Già da tempo Antonio sapeva che era arrivato il momento giusto, che quelli erano davvero giorni speciali. Erano anni, senz'altro, che aspettava. Anni che tutta questa musica gli si era accumulata dentro, un po' alla volta piano piano giorno dopo giorno senza fretta. Come l'acqua che si beve e che fa bene, come l'aria che si respira e senza cui non si può vivere – tu puoi anche soffiare fuori e pisciare ma aria ed acqua restano dentro, servono a costruire una parte di te. Sei quello che mangi – diceva John Lennon sguardo sornione dietro le lenti rotonde, e se gli avessero lasciato solo un altro po' di tempo avrebbe aggiunto, per spiegare: sei quello che respiri, quello che ascolti, quello che leggi, guardi, impari, scambi col mondo che ti sta intorno.
Con la musica per Antonio era uguale. Quando era piccolo i suoni gli entravano nelle orecchie come succede a tutti gli altri bambini del mondo, sì ma a lui però succedeva anche una cosa strana: la musica gli restava dentro, gli solleticava la pancia e gli scompigliava i capelli, saltellava nella testa fra un orecchio e l'altro dietro agli occhi cambiandone il colore come per gioco. Antonio riusciva a vederne i riflessi, i colori e le ombre sul muro. La vedeva farsi piccola piccola e poi gonfiarsi ancora, nascondersi sotto i mobili e andarsene leggera dalla finestra, a sfiorare i tetti a giocare con le antenne della televisione per poi confondersi nel cielo tipo avete presente come fanno le rondini. Se la chiudo dentro a un nastro o la fotografo a pezzettini dentro a un chip sarebbe praticamente come prenderla in trappola, disse tra sé e sé mentre Renato si apprestava a registrare. Ma a questo pensiero la musica che aveva dentro si mise a ridere, e corse su dal cuore e dallo stomaco e gli attraversò la gola fino a disegnargli un sorriso in faccia: Antonio non era capace di tradire. Non avrebbe imprigionato la musica: era la sua felicità e la sua fortuna, le voleva bene e non le avrebbe mai fatto alcun male. Era arrivato il momento di scambiare.
Quel giorno, all'Asilo, è andato tutto bene. Era già da un po' che Renato s'era messo a studiare come la musica di Antonio rimbalzasse fra le pareti del vecchio collegio: non era vero che ogni volta fosse un salto diverso – lui se n'era accorto e aveva provato ad intercettarla, ad anticiparne le mosse fino a riuscire a sfiorarla, poi ad accarezzarla, a raccoglierla, a trattenerla. Renato si era inventato una casa digitale senza porta fatta imitando alla perfezione le pareti e il tetto e le finestre e le scale dell'Asilo, un posto dove la musica potesse danzare, libera. Antonio ci ha messo un'ora per sciogliere la matassa dolce che gli aveva fatto il nido dentro. Dapprima curiosa di tutti i microfoni che volevano assaggiarla, la musica s'è decisa a mostrarsi. Anche a noi gente da fuori, che in questa storia d'amore siamo solo figure di passaggio e sfondo di stranieri. Il disco è meraviglioso, impossibile raccontare diversamente senza spingere l'acceleratore coi superlativi questi paesaggi, queste ombre, questi riflessi. Lo trovate qui cleanfeed-records.com e lo potete ascoltare qui www.antonioraia.com. Altre cose precedenti le potete ascoltare qui antonioraia.bandcamp.com. Se avete la fortuna di poter fare un giro a Napoli datemi retta e passate dall'Asilo, e se proprio non potete andarci almeno cliccateci sopra qui www.exasilofilangieri.it.

Antonio Raia
Čapek

“...I robot si muovono e parlano a scatti meccanici e rigidi e hanno facce inespressive, occhi fissi e allucinati, ma indossano abiti normali...“

Si chiama Čapek, e presumo sia un rimando a Josef Čapek – pittore e poeta oppositore del nazismo, che si sa deportato e finito ammazzato nel lager di Bergen-Belsen e i cui resti mai furono ritrovati. Quel Josef Čapek che cent'anni fa inventò la parola “robot“ e la regalò al fratello Karel: questi, nel testo teatrale “R.U.R.“ (visionario sì, ma fino a un certo punto soltanto) chiamò così gli operai artificiali, una specie di golem impastati di protoplasma, servi obbedienti dal viso troppo uguale e che un giorno si ribellano... ma andate a leggervi il libro, dai. Questa è una fanzine, è uscito il numero 1 tutto stampato in rosso e nero, un contenitore anarcoide di contributi grafici e scritti. Così anarcoide da assomigliare ad un numero tranquillo/sedato del Lombroso veronese o del vecchio Cannibale, o magari ad un numero incazzato duro di Fluide Glacial, o di Charlie Hebdo. Così anarcoide da non avere prezzo, e da bollare in quarta di copertina i collettivi coinvolti come un'associazione a delinquere: c'è in mezzo quella rivista CTRL di cui vi ho parlato su “A“429, ci sono in mezzo Federico Zenoni e pure Vittore Baroni e non poteva non esserci Marcello Baraghini di Stampa Alternativa, come dire la luce che ha indicato la costa a noi sbarbi di periferia persi in mare (...ché quando ci siamo inventati fanzinari noi qui in provincia mica si pensava a Sniffin'glue, dai). Čapek l'ho presa in una libreria Strade Bianche, quella di Pitigliano vicino a Grosseto, un posto così bello dove avrei voluto nascondermi da tutto e perdermi da tutti invece di sospirare verso casa e verso il lavoro il giorno dopo. Cercatela qui terrorismomediatico@gmail.com e se volete scaricatela qui www.stradebianchelibri.org. Mi raccomando: mandategli quello che potete, che mica si vive di sola aria.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it