Sfuggire dal virtuale per rifugiarsi nel reale
intervista a Guido Coraddu
“Da sempre sono esistite e continuano ad esistere due categorie di giornalisti: i giornalisti giornalisti e i giornalisti impiegati. La prima è una categoria così ristretta, così povera, così “abusiva”, senza prospettiva di carriera, che non fa notizia, soprattutto oggi. La seconda, asservita al potere dominante, è il giornalismo carrieristico, quello dello scoop e del gossip, quello dell'esaltazione del mostro e della sua redenzione. Sovente ci si imbatte in pennivendoli sgrammaticati amanti del denaro e della notorietà facile.
Le parole, mi è sempre stato detto, feriscono più di mille lame, pungolano le coscienze, sono inviti alla riflessione e alla lotta, teoria che diviene prassi quotidiana di esercizio della libertà. Ma le parole possono anche, se usate in maniera “criminale”, passare dei messaggi sbagliati, costruire luoghi comuni difficili da abbattere, discriminare, incitare all'odio, creare dei “diversi” da sbattere in prima pagina come il male assoluto, rendendo le nostre società sempre meno inclusive, transennate dal filo spinato dell'ignoranza e del razzismo”. Così si esprimeva Giancarlo Siani, profeta abusivo dell'informazione ucciso a Napoli dalla camorra il 23 settembre 1985.
Ho pensato a queste parole mentre ascoltavo il nuovo progetto del gruppo sardo Musica ex Machina, Burp. Una sorta di ragionamento, di pensamentos musicale che traduce, in una forma di narrazione sonora senza voce, la grande abbuffata di notizie servita al self-service dell'informazione e che “bulimizza” cervelli e coscienze.
Ne parliamo con Guido Coraddu, pianista “abusivo” e una delle “firme” del progetto Musica ex Machina.
Digerire l'indigeribile
Gerry – Guido raccontaci la “metabolizzazione”
di Burp.
Guido – L'idea del progetto nasce da un episodio
della “morte accidentale di un anarchico” di Dario
Fo: un benpensante apre il giornale e vi legge di tragedie,
scandali e guerre, e la sua indignazione cresce sempre più
fino a che arriva il “ruttino liberatorio” che gli
permette di mandare giù tutto ed andare avanti.
Da tempo osserviamo attoniti le pagine web con cui si presentano
i magazine online: alla notizia del giorno, quella che orienta
e disorienta le masse, si va ad affiancare paccottiglia di ogni
genere. In questo momento la prima notizia è “Nave
Alan Kurdi verso Malta”. A fianco figurano “Caprioglio
lascia senza fiato”, “Troppi caffé? Ecco
i rischi”, “Sesso, effetti sulla pressione”,
“Voli per partire anche nel 2020”, eccetera.
Un miscuglio di gossip, notizie pseudo-scientifiche, pseudo-archeologiche,
sport e curiosità che servono ad incrementare il tempo
in cui un utente rimane su un sito, in modo da alzare il valore
della pubblicità da esso veicolata (questo il motivo
economico di tanta pochezza), ma che hanno l'effetto di un nuovo
tipo di Alka Seltzer, che attutisce la tragedia quotidiana in
una sorta di rumore di fondo, facendoci digerire l'indigeribile,
senza neanche bisogno del ruttino liberatorio.
Morte accidentale di anarchico è una “finestra
aperta” su uno dei laboratori più interessanti
dell'utilizzo dell'informazione “deviata”. Da una
parte la vicenda Pinelli e l'iniezione anestetica dei fatti
dagli imbonitori di regime, dall'altra il giullare del popolo
Dario Fo che con la fonetica dei suoi versacci spariglia le
carte ai saltimbanchi e agli acrobati del potere.
Al tempo del movimento antiglobalizzazione, che ha visto il
suo apogeo nelle giornate del G8 a Genova, si aveva una grande
fiducia nelle potenzialità di strumenti di rottura verso
il moloch dell'informazione di regime quali quelli offerti dalle
tecnologie telematiche. Penso a Isole nella Rete, Indymedia,
ecc. In effetti la generalizzazione di questi strumenti, divenuti
“social media”, li ha trasformati in potentissimi
mezzi per inoculare contenuti eterodiretti nel dibattito politico
e sociale. Mica tanto facile sparigliare...
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Copertina di BURP, disegno di Mauro Testa |
Un nostro portale di pseudo-informazione
Burp è un progetto artistico “progressivo”
(mi viene questa citazione musicale datata) e articolato: un
portale di controinformazione, un cantiere aperto di espressioni
artistiche, un ragionamento sonoro. Da quale concetto, anche
storico-sociale, attinge il senso di Burp e come si sviluppano
le trame sonore?
Abbiamo voluto fare un'operazione di tipo situazionista andando
a disegnare un nostro portale di pseudo-informazione (visitabile
all'indirizzo www.burp.be)
in cui ogni articolo è associato ad un brano del disco.
Gli articoli hanno contenuti ambigui: pur contenendo fatti reali
sono associati da un menù generale alquanto provocatorio
(per esempio, alla voce “salute” si parla di trattamenti
sanitari obbligatori, alla voce “natura” si parla
di zoologia fantastica, alla voce “tradizioni” si
parla delle infinite cosmologie inventate dalle religioni, e
così via).
Normalmente nei portali di informazione, all'articolo è legato un contenuto video. In Burp i video sono stati creati da artisti che hanno aderito al progetto, riprendendo se stessi mentre realizzano un'opera legata ad uno dei brani del disco. La cifra del progetto è la dissolvenza del concetto di verità, che va a diluirsi in questo marasma di informazioni. “L'informazione non è conoscenza, la conoscenza non è saggezza, la saggezza non è verità,” diceva Frank Zappa.
Presentaci la “redazione musicale” di
Burp, i tuoi compagni di viaggio.
A parte me, che suono il pianoforte, abbiamo Simone Sedda, batterista poliedrico e produttore dei nostri lavori con la sua etichetta Hopetone Records; Mauro Sanna è al basso elettrico, l'anno prossimo fa sessant'anni ed è senz'altro uno dei massimi protagonisti della scena musicale dell'isola di Sardegna (e un'imponente fonte di aneddoti); Francesco Bachis alla tromba, musicista con un bagaglio di esperienze sfaccettate, oltre che apprezzato antropologo. Saltuariamente si uniscono altri compagni di strada: una volta abbiamo fatto una bellissima versione di Sante Caserio con Marco Rovelli, ma con noi può capitare di sentire amici come Daniele Sepe, Victor See Yuen (il percussionista di Sonny Rollins), Kenny Brawner o Louis Sclavis.
Sentite inevitabile l'identificazione con il genere?
Perché jazz o d'avanguardia?
Siamo incasellati nel jazz perché una line-up così appartiene per forza alla tradizione jazz e perché i nostri brani sono pensati in modo funzionale all'improvvisazione. E all'improvvisazione siamo molto legati per due motivi: il primo è che il jazz è uscito dai ghetti afroamericani grazie al fatto che, con la sua pratica “improvvisativa”, consente a un musicista di qualunque tradizione di inserirsi nel flusso musicale, e questo ha fatto nascere innumerevoli jazz autonomi, da quello latino a quello turco.
L'altro motivo è che il fatto di essere improvvisata rende questa musica non riducibile alla riproducibilità tecnica, non essendo mai identica a se stessa, e ciò ha reso il jazz uno strano antagonista dell'era moderna, nonostante ne sia pienamente espressione. Però per noi non è un obiettivo fare avanguardia: quando usiamo il “codice” dell'avanguardia è perché è funzionale all'economia della musica, così come facciamo con qualunque altra semantica musicale.
Forse la forza dell'originalità del vostro
agire musicale si rivela nell'atipica funzione da cantastorie
contemporanei che esprimete nonostante l'assenza della parola.
Narraci dunque delle storie declinate nel disco.
Se ne può citare qualcuna, visto che son tante... alcune leggere, come quella dell'insulso componente chimico Polivinilpirrolidone o quella della matrice pagana del Natale (confermata da Benedetto XVI in persona!). Ma ci sono anche storie drammatiche, come la vicenda di sig. Giuseppe Casu, ambulante vessato dalle multe della polizia municipale, sottoposto a T.S.O. a seguito della sua reazione ad un ulteriore verbale di €5000, e poi deceduto dopo una settimana di contenzione senza poter essere visitato da nessuno. Una morte per la quale sono stati condannati solo i compagni che hanno protestato.
E poi, inevitabilmente, si affronta il dramma dell'immigrazione
con un brano associato alla campagna di sea rescue “Open
Arms”. In questo caso abbiamo rievocato l'afro beat di
Fela Kuti, uno che di integrarsi non ne ha proprio voluto sapere,
per dire che la cosiddetta “integrazione” è
la foglia di fico della xenofobia: “quanto più
diventerai simile a noi, tanto più sarai accettato”.
Quello che so (e non so) fare
Qual è il tuo punto di rottura (o del ruttare)
per affrancarti dal rumore di fondo e portare sul piano l'evoluzione
sonora del tuo pensiero? Insomma, che rapporto hai con la composizione?
Scrivo musica da sempre, se non lo faccio mi perseguita, e devo
scriverla per liberarmene. Scrivo musica di molti generi diversi,
per svariatissimi ensemble, che perlopiù resta
solo su carta, anche perché se non me la suono da solo
non ho qualcuno che lo faccia.
Ho cominciato a scrivere musica da piccolo, mentre ancora imparavo
a suonare. Ho conservato un quaderno con spartiti scritti a
8 anni (tutti sbagliati, mica sono Mozart!). Sono un musicista
di formazione classica, ho fatto un po' di elettronica, e poi
sono tornato alla pratica dello strumento, che oggi concepisco
come una forma di artigianato: mi piace pensare che quello che
facciamo esiste mentre suoniamo, e poi svanisce, e la prossima
volta sarà diverso, per cui i brani sono aperti all'improvvisazione
dei solisti, ma anche collettiva.
I nostri dischi sono registrati in presa diretta, senza fronzoli
e trucchi, e fotografano un momento della nostra pratica del
repertorio. Infatti dopo qualche tempo finisce che gli stessi
brani li suoniamo in maniere assai differenti da come li abbiamo
registrati. Ritengo necessario tuttavia darci delle strutture
che garantiscano vivacità al brano, e soprattutto cerco
di enfatizzare il valore delle melodie, quelle che in ultimo
ti restano in testa. Nello scrivere e nel suonare riporto quello
che credo di aver capito della musica, quello che ho imparato,
quello che so fare, e a volte anche quello che non so fare.
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Da
sinistra: Guido Coraddu, Mauro Sanna, Simone Sedda,
Francesco Bachis
foto di Alessia Pala |
Si naviga a vista
“Quelli che l'ha detto il telegiornale...”
tanto per ricordare gli inarrivabili Enzo Jannacci e Beppe Viola.
Cito anche il buon Camilleri che in un'intervista datata a margine
del suo La tripla vita di Michele Sparacino (che consiglio
di leggere), in relazione all'uso dell'informazione mediatica
afferma: “Lo spettatore viene buttato a catafascio, cavallo
e carretto, come diciamo noi. Gli viene imposta una posizione.
Allora io racconto sempre quando c'era soltanto un canale della
televisione e c'era il famoso Bernacca che faceva le previsioni
del tempo e diceva: “Domenica è una bellissima
giornata e potete andare a fare una gita fuori porta.”
A quel punto il mio amico diceva: “Io po si o po no, l'ombrello
me lo porto”. “Allora”, chiude Camilleri,
“per favore, portatevi l'ombrello davanti alle notizie.
Se non altro vi ripara il cervello e potete ragionare meglio”.
Come ci si ripara, caro Coraddu?
Guarda che sono un musicista, mica un sociologo. L'unica idea che ho è quella di sfuggire dal virtuale e rifugiarsi nel reale: veri amici, vere lotte, veri amori e musica suonata, non progettata da uno scienziato della comunicazione e prodotta da una macchina. Portatevi l'ombrello di fronte al virtuale! A volte mi chiedo come faranno gli storici del futuro a documentare quest'epoca in cui gli stessi media che formano e deformano la coscienza della gente sono del tutto evanescenti.
Dopo il “ruttino”, quale abusivismo concettuale
sta elaborando Guido Coraddu per non abbandonarsi al sonno della
regione (sarda)?
Ultimamente il tirreno sembra essersi allargato e quest'isola assomiglia a una zattera che va alla deriva sempre più. Si naviga a vista, caro Ferrara. C'è poco da elaborare piani complicati.
Per contatti:
www.musicaexmachina.eu
www.burp.be
musicaexmachina@tiscali.it
3779081762
Gerry Ferrara
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