Biennale Venezia
Lo stato dell'Arte in tempi interessanti ovvero
la Biennale di Venezia all'epoca di Salvini
reportage di Franco Bunčuga
Le nostre lettrici e lettori sono abituati ai critici e caustici resoconti della Biennale di Venezia a firma di Franco Bunčuga. Anche quest'anno Franco ci è andato e ci è anche tornato una seconda volta. Questa volta ci è andato da direttore della rivista ApARTe° – materiali irregolari di cultura anarchica. Ma la carica non gli ha dato alla testa. Un esempio: per lui il Padiglione Italia merita una “minzione d'onore”. Leggete leggete.
May you live in interesting
times, il titolo scelto dal curatore Ralph Rugoff per la
58° Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di
Venezia in corso dal 11 maggio al 24 novembre di quest'anno,
è in realtà una “fake news”. E questo
dà il tono a tutta la baracca.
«Mi sembra un titolo adatto a una mostra che, almeno in
parte, si chiede come funzioni l'arte in un'epoca di falsità
e bugie», chiosa Rugoff e propone un'edizione che pone
il focus, a suo dire, sui “cambiamenti climatici”,
“la rinascita dei programmi nazionalisti”, “l'impatto
pervasivo dei social media” e la crescente disuguaglianza
economica”. Vaste programme!
Rugoff ci rivela come la pluricitata maledizione-augurio “che
tu possa vivere in tempi interessanti” non sia un vecchio
detto cinese, come mille volte riportato da autorevoli interpreti,
ma un motto inventato di sana pianta, probabilmente da un diplomatico
inglese per fini tutti interni ai suoi scopi politici.
I meccanismi della politica non cambiano poi granché
nel tempo.
Secondo il curatore gli artisti devono prendere in considerazione
che oggi, nel mondo, qualsiasi forma di ordine “si sia
trasformato nella presenza simultanea di ordini diversi”;
per questo motivo non propone una “narrazione complessiva
o una tematica generale” ma sceglie una narrazione fluida
e dichiara di ispirarsi al saggio Opera Aperta del nostro
Umberto Eco, rinunciando così alla tradizione ormai un
po' desueta di un curatore “forte”, unico artefice
di un progetto chiaro e vincolante, alla Szeeman, per intenderci.
Tra gli elementi di interesse e di novità di questa esposizione,
oltre alla forte presenza femminile tra gli artisti, spicca
la felice scelta di esporre quasi esclusivamente artisti viventi
e ancora attivi.
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Due dei numerosi poster con gli autoritratti di Zanele Muholi, lesbica sudafricana e militante LGBT |
Un'esposizione bipolare
Sicuramente una caratteristica originale della mostra è
la sua divisione in due presentazioni distinte: la proposta
A all'Arsenale e la proposta B ai Giardini. Due facce della
stessa frittata, due sedi separate, due allestimenti separati
con gli artisti che presentano nei due luoghi separati modi
e momenti diversi della loro attività. Una mostra bipolare
insomma, anche questo in linea con i tempi, ma anche un modo
intelligente di focalizzare l'attenzione su un numero più
ristretto e selezionato di artisti.
Anche quest'anno comunque un'edizione malata di gigantismo che
cerca di aprire uno sguardo critico sul panorama dell'arte contemporanea,
settore in continua crescita e rifugio privilegiato di raffinati
speculatori finanziari.
L'arte contemporanea è una bolla che non scoppia perché
fatta della materia dei sogni, perché vende quella che
altre volte ho definito la “merce perfetta”, merce
prodotta da una materia prima eterna e inesauribile con un costo
lasciato all'assoluta arbitrarietà del mercato e all'opportunità
del momento: da zero a infinito e ritorno. Un taglio sulla tela
può valere milioni, così come una scatoletta di
merda (vera o presunta), salvo riacquistare potenzialmente valore
zero nel caso (altamente improbabile) di una improvvisa rivolta
sociale, politica o culturale che col dito puntato ricordi ai
soliti gonzi che «il re è nudo». Ma il Mercato
ci sorprende sempre!
La bolla cresce, cresce e non scoppia né si sgonfia mai.
Un po' come la nostra Biennale, ogni anno si lamenta la crescita
eccessiva dell'esposizione, ma lei cresce: padiglioni nazionali
nuovi, nuovi eventi collaterali in nuovi quartieri, nuove sedi
sulla terraferma, a Mestre, Marghera e oltre.
Da tempo abbiamo smesso di temere-sperare che la bolla scoppi:
anche le leggi della fisica nel mercato dell'arte non funzionano...
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Arte
in fumo alla Biennale, installazione di Lara Favretto |
L'Arsenale
Ormai si comincia sempre la visita dall'Arsenale. All'ingresso
un ottimo auspicio: una grande tela con due “imbriagoni”
contenti, Double Elvis di George Condo che rifanno il
verso alle omonime serigrafie di Andy Warhol alle quali il giovane
artista aveva collaborato nel '63: “la grandiosa glorificazione
dell'umanità più abbietta” ci dice. Bene!
Un omaggio al doppio e all'ebbrezza, un bel pezzo grezzo nell'esecuzione
come nei contenuti, un omaggio a un Dioniso “de noantri”!
Anche in questa edizione le fotografie, sempre troppe, così
come i video, anche se in questa edizione ce ne sono stati alcuni
molto interessanti, come quello degli scontri nella striscia
di Gaza che sono riprodotti qui in loop. Un video molto celebrato
dai critici è 48 War movies di Christian Marclay,
la proiezione di 48 film di guerra sovrapposti di cui si intravede
solo la cornice e si è frastornati dalla sovrapposizione
di 48 colonne sonore sovrapposte. Insopportabile! Scappo subito.
La prima cosa che noto è la quantità di opere
che hanno come soggetto (e spesso autore) neri, scene di ghetto,
di povertà e degrado di zone etniche e ritratti di personaggi
di colore, a volte bellissimi e raffinati, altri duri e aggressivi,
una specie di neo-realismo straccione all'afro-americana che
va dai ritrattisti di Obama e signora a una sorta di nuova-oggettività
da rapper.
Naturalmente i soliti stracci di ogni tipo qua e là,
video che si possono ben saltare o che non si riesce a vedere
per la folla della vernice, finti feticci, Wonder Woman all'uncinetto,
tappeti erotici, giochini di realtà virtuale, video di
fantasmini e finti giocattoloni in stile Depero.
Ogni tanto un'oasi di creatività come una camera musicale,
The Ground di Tarek Atoui che mescola arte contemporanea
e musica sperimentale prodotta da tante improbabili macchinette
inutili, che riproducono i suoni tradizionali delle popolazioni
del delta del Fiume delle Perle in Cina che ha raccolto in un
suo viaggio di cinque anni.
Poi i tubi, armadi ossa, bucrani e stracci colorati che sono
valsi il premio alla carriera a Jimmie Durham che dopo aver
lottato per anni a fianco dei Nativi d'America si è un
po' troppo immedesimato in uno sciamano Indiano da condominio.
In un angolo le bancherelle finte di Zhanna Kadyrova, con formaggi,
prosciutti e verdure tutti rigorosamente finti, una fontana
con salamoia fermentata e ancora tanto neo-realismo africano.
Più in là, sempre molto bello, Re (saggezza
in mandarino) il padiglione Cinese curato da Wu Hongliang che
dimostra come sempre che la grande tecnologia, un'arte raffinata,
i migliori software e algoritmi sul mercato, uniti a una volontà
di potenza possano produrre un'arte di regime di qualità
che prefigura i nostri possibili futuri di sottomissione digitale.
Una bella scoperta il padiglione indiano Our Time for a Future
Caring con le sue installazioni etniche, le teche piene
di oggetti, i sandali e le foto storiche degli artisti Nandalal
Bose, Atul Dodiya, Gr Iranna, Rummana Hussain, Jitish Kallat,
Shakuntala Kulkarni e Ashim Purkayastha. Coinvolgente la parete
di fumo su cui scorrono le parole del Mahatma Gandhi a cui è
dedicata l'installazione nell'ambito delle celebrazioni del
150esimo anniversario dalla sua nascita che vuole sottolineare
l'influenza del suo pensiero nel mondo di oggi.
Ma forse il padiglione più inaspettato e di qualità
è quello del Ghana con la complessa installazione Ghana
Freedom progettata dall'architetto David Adjaye che racchiude
gli interventi di vario tipo degli artisti Felicia Abban, John
Akomfrah, El Anatsui, Ibrahim Mahama, Selasi Awusi Sosu, e Lynette
Yiadom-Boakye.
Alla fine degli edifici dell'Arsenale attraversiamo “lo
sbadiglione Italia”, come Pablo Echaurren definisce ironicamente
sui social il Padiglione Italia di quest'anno, così inconsistente
che meriterebbe l'attribuzione di una “minzione d'onore”.
Un labirinto di frivole banalità.
In un angolo, sotto gli ombrelloni, si suona Bella Ciao
e altre canzoni di Kusturica, sparsi nei rami dell'installazione
le opere di Enrico David, Chiara Fumai e Liliana Moro non riescono
ad attirare l'attenzione. È un padiglione che anche quest'anno
si può tranquillamente saltare, fortunatamente un falso
labirinto dal quale si può uscire in fretta. I giochini
politici e i favori incrociati di tutto quello che passa sotto
il “brand” Italia sono insopprimibili, un po' come
la Mafia, l'Evasione Fiscale e la Famiglia (tutte con la maiuscola,
mi raccomando) e la qualità delle opere necessariamente
si adegua al gusto degli sponsor. Facciamocene una ragione.
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Il mio ticket al padiglione israeliano |
I Giardini
All'entrata del Padiglione Centrale ai Giardini, il timpano è coperto da un'emissione discontinua di fumo, anche questa un'installazione, dell'italiana Lara Favaretto.
Subito dopo l'entrata, all'improvviso, dopo un muro sormontato da filo spinato che ci accoglie a mo' di barricata, in una grande teca di vetro vediamo i movimenti violenti e scomposti di una grande macchina industriale che con un braccio agita una gigantesca spatola che cerca di contenere una colata di un liquido purpureo (vino-sangue) che continuamente gli sfugge, è un'opera di SunYuan e Peng Yu, Can't help myself, 2016.
Gli artisti hanno insegnato a questo robot 32 movimenti che spaziano dal “grattarsi” a “dimenare il sedere” per renderlo più umano, ma non mi sembra siano riusciti a renderlo particolarmente simpatico.
Anche qui ai Giardini lo stile che domina è il realismo ignorante o etnico dei ritratti di Henry Taylor in falso stile Outsider Art o delle scenette di Nicole Eisenman (Morning Studio, ad esempio) o le ambientazioni di Jill Mulleady, anche se in generale troviamo un po' più di giochini e luci che all'Arsenale, e si respira un'aria più rilassata e da parco giochi a tema, come d'abitudine ormai alla Biennale che deve accogliere ogni tipo di visitatore/consumatore.
I padiglioni
Meno immondizie che in altre biennali, più quadri, più
pittura, è una tendenza che viene dalle periferie del
mercato globale: Africa, Asia, Neri d'America, e che marca un
segno forte in questa esposizione. Non è più tempo
per le colte e cervellotiche autoreferenzialità delle
varie avanguardie europee che si ridicolizzano sempre più,
autocitandosi in continuazione fuori dal tempo e dello spazio:
non siamo più al centro di nulla, non dominiamo più
nessun territorio, neppure gli USA amano definirsi “occidentali”,
la magica parola che per un paio di secoli stava per “dominanti”.
Si espongono sì ancora molti video, alcuni veramente
di grande qualità, alcune opere concettuali o minimaliste,
ma la grande massa delle opere esposte ha spesso un tono etnico,
una qualche forma di realismo spiccio, una pretesa “locale”,
“nazionale” o di appartenenza specifica: come nel
bellissimo padiglione indiano, ad esempio, che ho già
citato e in qualche modo in quello cinese e anche, in modo originale,
in quello russo la cui curatela è affidata all'Ermitage
di San Pietroburgo, prima istituzione museale a organizzare
un Padiglione alla Biennale di Venezia.
L'allestimento è stato curato da Ralph Rugoff e vede
come protagonisti il regista Alexander Sokurov e l'artista teatrale
Alexander Shishkin-Hokusai. Lc. 15: 11-32 è il
titolo della mostra, riferito ai versi tratti dal Vangelo di
Luca in cui è narrata la parabola del figliol prodigo
e tutta l'installazione ruoterà attorno al capolavoro
di Rembrandt Il ritorno del figliol prodigo conservato
nel museo. Anche questa una forma di orgoglio nazionalistico.
Non si possono non notare i fotografatissimi e premiati pupazzi
etnico-favolisti horror del padiglione Belga, che come spesso
succede ha un taglio assolutamente originale, una sorta di teatrino
di pupazzi meccanici intitolato Mondo Cane, realizzata
dagli artisti Jos de Gruyter e Harald Thys, e curata da Anne-Claire
Schmitz.
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Il teatrino con i pupazzi meccanici horror del padiglione belga |
Baratta ha sempre ragione
Ha sempre ragione Baratta, l'eterno direttore della Biennale
di Venezia, che esorta il popolo dei giorni dell'inaugurazione
di tornare almeno una seconda volta per apprezzare la Grande
Macchina.
In effetti questa edizione ha un disturbo bipolare: per scelta
del curatore troviamo gli stessi artisti sia ai Giardini che
all'Arsenale, con opere che dovrebbero avere un'impostazione
diversa e mostrare un'altra faccia dell'autore. Non sempre riesce,
spesso sono semplici ripetizioni e cambia solo la scala dell'intervento
e il contenitore. Spesso in ambito psichiatrico si dice bipolare
per non dire schizofrenico, termine che per anni ha goduto di
cattiva stampa. Una doppia visita a una doppia esposizione in
realtà aiuta e svela tanti schizofrenici comportamenti
del popolo delle vernici.
Esempio: nei giorni dedicati agli operatori del settore davanti
ad alcuni padiglioni c'erano code infinite, davanti a quello
francese si snodava un serpentone di curiosi che copriva gran
parte del viale e arrivava quasi sino all'ingresso, qualche
ora di attesa per farsi visitare al finto ospedale del padiglione
israeliano (lì, per fortuna, almeno davano il biglietto
con un numero e ti potevi sedere nella sala d'attesa come in
qualsiasi ambulatorio che si rispetti), in un paio di altri
padiglioni o sale con video l'attesa si riduceva “solo”
a una mezz'oretta.
Sono tornato la settimana dopo e in una Biennale deserta mi
sono finalmente goduto l'esposizione: al padiglione francese
sono entrato senza nessuna coda, mi sono anche seduto a un tavolo
con dei fantasmi virtuali e mi sono soffermato ad osservare
i giochi di luce nelle stanze. Anche qui dal timpano all'ingresso
neo-classico si sprigionava fumo. Strane coincidenze.
Si scoprono più facilmente la qualità delle opere
e delle installazioni: ovunque sono le opere a parlare e gli
imbonitori delle varie parrocchie artistiche non blaterano per
promuovere i loro prodotti e i convitati non lottano all'ultimo
sangue per una tartina e un prosecco offerti dai vari padiglioni
nazionali. E – finalmente – ho potuto vedermi in
tranquillità i video in stand quasi deserti e farmi visitare
(e artisticamente oltraggiare) all'ospedale mobile del padiglione
israeliano dopo un'accettabile coda di mezz'ora.
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“Barca Nostra”, la nave naufragata nel canale di Sicilia nel 2015 e così ribattezzata dall'artista svizzero Christoph Büchel in ricordo delle 700 vittime |
Commento bipolare
Ho iniziato la seconda visita scendendo alla fermata del vaporetto Celestia, nome da favola, in un quartiere modesto e popolare, non ancora omologato dai flussi turistici più distruttivi, presto, al mattino e ho potuto con calma godermi il sole in una spiaggia all'interno di un vecchio capannone dell'Arsenale dentro la zona militare restaurata per l'occasione per ospitare il Padiglione della Lituania che inaspettatamente ha vinto il Leone d'Oro: la performance Sun & Sea (Marina), curata da Lucia Petroiusti e messa in scena dalle tre artiste Rugil Barzdziukait, Vaiva Grainyt e Lina Lapelyt.
Da Celestia si arriva all'Arsenale dalla porta nord, dopo la lunga passerella in acciaio a strapiombo sulla laguna e le piccole casette degli sfollati di Venezia e si entra alle Tese, un'area poco frequentata dai visitatori. Una giornata grigia novembrina un Arsenale mai visto, la Biennale deserta. Attraverso lo specchio d'acqua che mi separa dalla parte istituzionale dell'esposizione, evito il labirinto e ripasso, al contrario, la porta di nebbia nel padiglione indiano.
Devo dire, percorrendola dall'altro capo, che Ralph Rugoff ha realizzato una Biennale ben confezionata e piacevole, chiara, che si capisce: installazioni, video, foto e pittura cercano di continuo un equilibrio. Metà degli artisti partecipanti sono donne e soprattutto quest'anno molte sono le donne premiate. Insomma il trionfo del politically correct.
Per terminare in modo rilassato la visita mi sono dedicato ai video che non ero riuscito a vedere la prima volta. Due mi hanno veramente colpito: più di ogni altro Data-Verse, il lavoro di Ryoji Ikeda alle Corderie dell'Arsenale, un video che mescola il lavoro di compositori contemporanei come John Cage al trattamento di immagini, suoni, big data e algoritmi.
Il video, proiettato su uno schermo di grandissime dimensioni, usa come materiale grezzo una serie di data set provenienti da istituzioni scientifiche come il CERN, la NASA e lo Human Genome Project e li trasforma in ipnotiche immagini artistiche in movimento. Ikeda racconta di un universo in cui tutto è destinato a diventare codice e l'individuo annullarsi negli algoritmi: un tema molto simile a quello del padiglione cinese anche se sviluppato con altra sensibilità estetica.
E poi la video-installazione Assembly realizzata da Angelica Mesiti per il Padiglione Australiano una proiezione a tre canali all'interno di un'architettura ad anfiteatro: un video girato nelle aule del senato in Australia e Italia che vuol essere un inno alla funzione della musica come legante tra i popoli e stimolo alla democrazia, una proiezione davvero coinvolgente.
Ma, e a proposito, che dice il nostro Salvini del relitto della barca dei migranti esposta come opera d'arte su una banchina all'Arsenale? Si tratta dell'inconfondibile sagoma blu del peschereccio libico inabissatosi il 18 aprile 2015 nel Canale di Sicilia, che fece 700 vittime. È il simbolo delle morti in mare. Ora si chiama “Barca Nostra”, come l'ha ribattezzato l'artista svizzero Christoph Büchel che ne è l'ideatore. Anche se la paternità di questa e di molte opere simili può essere condivisa con molti dei nostri politici di ogni colore.
Franco Bunčuga
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