ricordando Angelo Pagliaro
Dal dogma all'utopia
scritti di Letizia Attanasio Pagliaro, Paolo Finzi, Marco Capecchi e Angelo Pagliaro
È morto a Paola (Cosenza) Angelo Pagliaro, anarchico, storico collaboratore di A. Il ricordo della moglie, di un nostro redattore, e di un libraio fiorentino. E lultima sua lettera pubblicata su A. Su questo stesso numero, la sua ultima recensione. Che esce postuma. Tema, a caso: la Calabria.
Ad Angelo, il sognatore che sta ora vivendo il suo più grande sogno
di Letizia Attanasio Pagliaro
Nel ricordo della sua adorata compagna, qualche
elemento per comprendere meglio la grandezza di un uomo.
Angelo Pagliaro nasce a Toritto (Ba) il 25 settembre 1959, da padre ferroviere e madre casalinga. Nei primi due anni della sua vita vive a Milano. A seguito del trasferimento della famiglia a Paola (Cs), Angelo diviene “calabrese di adozione”.
Il padre, e ancor di più il fratello dello stesso, sono accesi sindacalisti. Da loro Angelo mutua l'indignazione verso le ingiustizie e lo sfruttamento. La sua storia appare scandita da passioni che si succedono e caratterizzano interi periodi della sua vita, sorreggendolo e mettendo alla prova la sua ecletticità.
A 15 anni il suo interesse si rivolge alle organizzazioni politiche che operano nel suo paese: segue per qualche mese “Servire il Popolo”; poi decide di iscriversi alla FGCI, la federazione giovanile del Partito Comunista; viene eletto rappresentante degli studenti nel Consiglio di Istituto dell'Istituto “Pizzini” di Paola, dove frequenta l'indirizzo di geometra e nel quale conduce le lotte che interessano la scuola italiana negli anni 70. Grazie al suo carisma, viene considerato un leader e ha largo seguito nell'ambiente studentesco.
Divenuto maggiorenne, si iscrive al PCI e, nel 78, partecipa al congresso del partito che si tiene a Firenze. Nel settembre dello stesso anno, si iscrive alla facoltà di Agraria dell'Università Statale di Milano, dove affianca allo studio il lavoro di interscuolista in un istituto per non vedenti.
Vivere in una città complessa come Milano lo induce a riflettere e a mettere in discussione alcune sue convinzioni politiche. Determinante è l'incontro, nella Casa dello Studente in cui alloggia, con alcuni giovani anarchici del circolo del Ponte della Ghisolfa, in particolare quello con Agostino Manni. Con lui si instaura un rapporto politicamente acceso e di forte amicizia, portato avanti fino alla fine con grande stima e affetto reciproci.
Dopo la laurea, Angelo si stabilisce in Calabria, dove svolge la sua attività di agronomo, come funzionario regionale, occupandosi della coltura del cedro e approfondendo lo studio dell'utilizzo rituale di questo frutto nella cultura ebraica.
Nei primi anni del 2000, inizia la sua collaborazione giornalistica con il periodico di enologia “EV”, che vede come direttore responsabile Luigi Veronelli, la cui figura ieratica suscita in Angelo un rispetto reverenziale (è con immenso piacere, infatti, che riceve da Luigi il titolo di “figlio adottivo”). In questo periodo, decide di approfondire la conoscenza dei vini, si iscrive e segue i corsi previsti per la qualificazione professionale di sommelier e ne consegue il titolo.
I nuovi input ricevuti lo conducono ad approfondire la storia dell'anarchia e ad intessere rapporti e scambi culturali con altri eminenti rappresentanti del pensiero libertario. A completamento di questo percorso, diventa socio dell'I.C.S.A.I.C. (Istituto calabrese per la storia dell'antifascismo e dell'Italia contemporanea) e decide di dedicarsi alla ricerca storica, con la trattazione di storie di uomini e donne che si sono opposti al regime fascista in Italia. Si tratta di microstorie, spesso trascurate e dimenticate, che contribuiscono, nel loro insieme, a determinare i più noti avvenimenti riportati dalla Storia ufficiale.
Così, dal 2004 ha pubblicato, come unico autore o in collaborazione con altri storici, una decina di libri e altri due sono in fase di pubblicazione.
Questa la “sintesi più sintetica” proponibile, a proposito dell'evoluzione del sentimento libertario in un grande (concedetemelo, perché lo amo) uomo che, inizialmente animato da un dogma, è approdato all'Utopia.
Letizia Attanasio Pagliaro
Quelle telefonate infinite (con Letizia ad ascoltare)
di Paolo Finzi
Le ragioni di un'intesa speciale. Sullo sfondo, Errico Malatesta, Bruno Misefari, Nino Malara.
Conobbi Angelo a Milano, negli anni '80. Sono sincero, non ho un ricordo preciso del nostro primo incontro. Mi parlò poi lui, per telefono, dei nostri incontri nella redazione di “A”, in piazza, al circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa”, spesso con il nostro comune grande amico e compagno Agostino Manni.
Credevo che Angelo fosse calabrese e ho scoperto ora che era pugliese, come Agostino: ma non ditelo ad Agostino, ci tiene moltissimo alla propria salentinità. Ad una conferenza da lui tenuta al circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa”, negli anni 90, mi rispose per aver osato definirlo “pugliese”.
Curiose le questioni relative all'identità. Il pugliese Angelo è stato uno dei calabresi più calabresi mai conosciuti in ambito libertario. E parla uno come me amico da decenni di tanti anarchici calabresi (Minicuz, Geppino, Iachè, ecc.). tutti anarchici calabresi fino all'osso. Macchè: Domenico Liguori, u' maestru, è spezzanese, di nazionalità arbresh, orgogliosamente arbresh calabrese. Ben distinto da Vincenzo che vive a San Lorenzo del Vallo, comune attaccato a Spezzano, come Milano e Sesto San Giovanni. Ma a Spezzano si parla arbresh (albanese), a San Lorenzo calabrese. Che casino le identità. Angelo avrebbe sorriso di queste mie divagazioni. Forse mi avrebbe ricordato che siamo e vogliamo essere cittadini del mondo.
Già, Angelo. Ci siamo visti pochissimo, quasi niente, nelle nostre vite. Telefonate tante e lunghissime, “se hai un'oretta libera, parliamo” e giù ad affrontare i massimi sistemi: il ruolo possibile e per tanti versi mancato dell'anarchismo, i pensatori più innovativi dei filoni libertari, tanta storia: dal banditismo alla Resistenza, dalla questione meridionale a piazza Fontana. Una mente lucida, quella di Angelo. Un anarchismo aperto, tutto teso (anche) al meticciamento con altri filoni di pensiero, ad altre sensibilità, mai dogmatico, sempre a porsi interrogativi, con la coscienza che non se ne sa mai abbastanza, che c'è sempre da apprendere.
E poi quel forte legame con la terra e la storia calabrese, l'amicizia tra mio suocero Alfonso Failla e Bruno Misefari, grande militante calabrese, antifascista anarchico; la mia premessa a una breve storia dell'anarchismo calabrese; il ripercorrere tante figure di compagni calabresi, il mio incontro con Nino Malara, le sue ricerche storiche.
In famiglia
Avevamo una visione dell'anarchismo a tratti – forse in quelli essenziali – simile. Un forte senso di appartenenza all'anarchismo come patrimonio teorico e storico al movimento anarchico, ma nessuno spirito di “superiorità”. Piena e sofferta coscienza dei molti, troppi limiti geografici e temporali delle esperienze dell'anarchismo anche organizzato, spesso come rinchiuso a propria difesa con affermazioni generali, di principio, generiche, poco disponibile a confrontarsi con la dura concretezza del vivere. Angelo no, era una spugna che si impregnava della vita vissuta, l'analizzava, studiava come meglio cambiarla. In pratica, non a chiacchiere.
Aveva, Angelo, una qualità rara ed essenziale: l'equilibrio tra il credere nei nostri sogni e il sorriderne anche con distacco, mai con freddezza.
Confrontarmi con lui è stato per me piacevole, educativo, mai vacuo. “Ascoltavo le vostre conversazioni grazie al vivavoce” mi ha detto candidamente Letizia, la moglie e compagna di una vita. Insieme hanno generato Marco e Giorgia e questo apre un altro piccolo scorcio del “compagno” Pagliaro, bella persona a tutto tondo, capace di vivere tante nostre belle teorie nella pratica di una vita famigliare che da lontano mi pareva, e certamente era, bella bella. Un uomo caldo, solare, innamorato di Letizia, dei loro figli. Quando ne parlava gli si allargava il cuore, si capiva anche per telefono.
Abbiamo pubblicato (anche sullo scorso numero di “A”) documenti esplicitamente critici con la famiglia tradizionale, per il superamento (quasi obbligatorio, sembra) della vita di coppia “tradizionale”. Se ne parlava con Angelo. La vita concreta è assai diversa, più ricca, articolata delle chiacchiere ideologiche di molti/e. La famiglia “classica”, quella se vogliamo tradizionale, padre madre e figli in un contesto parcellizzato, ci poteva (e ci può) stare, secondo noi. Nella libertà che comprende, con pari dignità, anche altre diverse scelte di vita e di convivenza, libero amore, poliamore, lgbtq, restare singoli/e, ecc. E qualsiasi meticciamento possibile.
Angelo aveva un forte coscienza sociale, era un albero con tanti rami orientati nelle mille direzioni possibili dell'utopia, ma anche profonde radici nella storia e nell'etica del movimento operaio e contadino, socialista, repubblicano, comunista, anarchico. Aveva vissuto anche altre esperienze politiche, prima di approdare all'anarchismo, e portava i segni di un vissuto sempre convinto, mai superficiale. Quel percorso dal dogma all'utopia che Letizia, donna sensibile, ha voluto sottolineare, come chiave possibile per la lettura della ricca esperienza politica del suo e nostro compagno.
Quante riflessioni, quante messe a punto, sull'uso della violenza, sulle modalità dell'organizzazione anarchica, sulle questioni di genere, ecc. Sapevamo di avere un solido terreno di comune partenza nella lettura, sempre critica, dell'anarchismo etico malatestiano, ma non ci fermavamo mai nell'approfondire, non davamo mai niente per scontato.
E questo continuo approccio critico lo si ritrova anche nella sua vasta produzione storico-letteraria; nel suo seguire su “A” il caso drammatico di Francesco Mastrogiovanni, sempre in contatto con l'ottimo Giuseppe Galzerano, in tanti suoi interventi, il cui ultimo – in merito alla questione mediorientale – potete rileggere nella pagina accanto.
L'anno prossimo a Paola
Nelle ultime settimane della sua vita, ricordandogli di averlo io nominato negli anni 90 – era un gioco, ma nascondeva qualcosa – proconsole della rivista “A” per la Calabria, lo spingevo ad occuparsi lui di “costruire” un minitour calabrese, o almeno cosentino, di presentazioni del nostro libro sul pensiero di Fabrizio De André. E “nostro”, in questo caso, vuol dire anche suo, di Angelo, perché così – anche suo – lo sentiva.
Ora, mio caro Angelo, come un anarchico o come un bastardo te ne sei andato senza chiedere il permesso a nessuna/o, né ai tuoi cari né a noi, le tue compagne e compagni, e nemmeno al tuo “direttore”.
Ma sono sicuro che riusciremo a farlo, prima o poi, il nopoteribuoni tour calabrese. Da queste colonne lancio un appello ai famigliari e alla militanza anarchica tra Riggiu e Paola, per ritrovarci numerose/i tra un anno, nel giugno 2020, nel primo anniversario della morte di Angelo, sicuramente a Paola (e se possibile in altri centri calabresi) per una o più serate che uniscano nella nostra memoria e nell'impegno pubblico due grandi persone, che in modo differente ma con uguale forza, umanità e determinazione hanno scritto la storia sociale, ideale e poetica dell'anarchismo e dell'umanesimo socialista: Angelo Pagliaro e Fabrizio De André.
Due persone della cui concreta testimonianza di vita e di pensiero, parimenti, possiamo tutte e tutti – la famiglia di “A”, l'anarchismo calabrese e meridionale, l'intera comunità anarchica – andar fieri.
L'anno prossimo a Paola, Angelo avrebbe colto la sottile, un po' criptica, ideale analogia con un'altra storia, anche mia, anche sua. “Amava il tuo umorismo yiddish” mi ha detto Letizia.
E da dove si trova, mi piace pensare che stia sorridendo.
Paolo Finzi
Dava voce a protagonisti dimenticati
di Marco Capecchi
“Non l'ho mai incontrato, ma gli ho voluto un gran bene.” Il ricordo di un libraio fiorentino.
Angelo Pagliaro non è più con noi. È una notizia che addolora.
Ho conosciuto Angelo solo per telefono. Lo cercai qualche anno fa per un libro che aveva scritto sulla Famiglia Scarselli. Colpiva l'entusiasmo e la modestia che metteva nelle sue ricerche storiche che miravano a dare dignità a uomini e donne del passato ignorati dalla storia ufficiale. Colpiva l'umanità, l'altruismo e la generosità che metteva in ogni confronto e discussione. Le telefonate con lui hanno scandito per un decennio le nostre vite.
Da esse nacque il progetto di scrivere con Fabrizio Poggi le vicende della “Banda dello Zoppo” di Certaldo: la storia di un gruppo di anarchici che seppe resistere al fascismo al suo stato aurorale e che racconta la tragedia di combattenti oppressi e annientati dai regimi totalitari del 900. Ma non di questo intendo dire. Ora intendo testimoniare, anche se non ci siamo mai incontrati di persona, ciò che Angelo riusciva a trasmettere in chi lo ascoltava. Quel suo modo coinvolgente di parlare, mai presuntuoso e che rivelava la profonda conoscenza delle vicende dei ceti subalterni, quella sua passione nel dare voce ai sommersi della Storia, quel suo mettere a suo agio l'interlocutore e di sentirselo amico e compagno dopo le prime parole. Per quasi sette anni periodicamente siamo stati in contatto.
Mi mancherà quel suo: “Ciao Marco, sono Angelo” e ascoltarlo nei suoi progetti di risarcimento a persone comuni che nessuno più ricordava e che invece avevano avuto la forza e la dignità di lottare contro le ingiustizie. Colpiva l'affetto con cui dava voce a protagonisti dimenticati eppure significativi per capire e comprendere il passato e il presente. Commuoveva quella capacità di ridargli vita e descriverli come se fossero presenti, quasi parlare con loro e conoscerli nelle loro psicologie. Competenza di storico, si dirà. Io aggiungo anche tensione ideale di vivere la ricerca storica come una militanza che teneva assieme intelligenza e amore.
Addio Angelo, non ci siamo mai visti, non abbiamo presentato assieme il libro che tu tanto hai voluto (ricordi i miei dubbi sulla mia partecipazione all'impresa?), ma ti ho voluto un gran bene.
Marco Capecchi
Israele e i palestinesi/ I rigurgiti antisemiti e le parole malate a sinistra
di Angelo Pagliaro
L'ultima sua lettera, pubblicata su “A”.
Arrivederci padre o forse addio: era mio nonno il vero padre mio, cancellato come un numero dalla lista delle spese, ma così tanto più grande delle offese: questi sono alcuni versi del famoso brano Shalom pubblicato da Roberto Vecchioni, nel 2002, all'interno dell'album “Il lanciatore di coltelli”.
Quando lo ascoltai per la prima volta provai una sorta di sollievo. Il cantautore brianzolo era riuscito, da vero poeta, ad esprimere in poche parole un disagio che non era solo mio, ma che da decenni tormentava migliaia di militanti della sinistra cresciuti con quei valori che valgono ancora: solidarietà, antifascismo, libertà, fraternità, uguaglianza, democrazia.
Ascoltando Shalom ritornai indietro con la mente agli anni universitari, alla Statale di Milano. Ricordo come se fosse oggi quando, avvolto dalla kefiah, all'indomani del massacro di Sabra e Shatila (18 settembre 1982) mi recai in corteo con altri studenti di agraria davanti al consolato israeliano. Quel massacro, e quelli che seguirono nei decenni successivi, ci cambiarono dentro. Ci chiedemmo chi fosse, in quei giorni, Davide e chi Golia.
Poi le intifade mostrarono al mondo, con grande evidenza, la sproporzione delle forze in campo: ragazzini da una parte armati di fionde e il quarto esercito più potente del mondo dall'altra. Come Vecchioni ci chiedemmo, e ci chiediamo ancora, se quelli di oggi sono gli eredi di coloro che, grazie ai giusti, superarono il valico di Ventimiglia, vissero per mesi negli scantinati delle abitazioni, fuggirono da sicura deportazione nascosti nelle barche dei pescatori liguri.
Criticare i governi israeliani, senza antisemitismo
Racconti “versati nelle nostre orecchie” sin da bambini che ci fanno appartenere a quelle sofferenze. Se per scelta di vita abbiamo deciso di stare dalla parte dei deboli, dei sofferenti, degli ultimi così come accadde per il popolo ebraico, non potemmo e non possiamo restare indifferenti nei confronti della tragedia del popolo palestinese e sperare, con tutte le nostre forze, che si affermi il loro diritto alla terra e a una vita dignitosa. Ecco perché bisogna continuare a ricordare e a esercitare il diritto di critica nei confronti dei governi israeliani, senza sprofondare nell'antisemitismo, lavorando per una riconciliazione tra i due popoli che paghi i propri debiti nei confronti dei lutti ai quali entrambe le comunità sembrano essersi abituate. Le memorie sono necessarie perché mutano al mutare dei quadri sociali. I differenti gruppi ricostruiscono il proprio passato adattandolo ai quadri sociali del presente, cancellandone alcuni tratti e attivandone altri, e nello stesso tempo progettano anche il proprio futuro.
In un momento in cui la tendenza di Israele a trasformarsi da uno stato democratico ad uno dell'apartheid (vedi discriminazioni dei palestinesi con cittadinanza israeliana) è purtroppo reale, credo sia opportuno che gli uomini di sinistra esprimano il proprio pensiero con parole chiare, precise, non malate di ipocrisia o intrise di ideologia.
A chi non riconosce il diritto all'esistenza di Israele occorre dire con chiarezza, soprattutto in questi periodi, che proprio perché la politica guerrafondaia di Netanyahu ha fallito, bisogna ribadire che non solo Israele ha diritto ad esistere ma ha diritto a vivere in pace entro i confini stabiliti dagli accordi di armistizio del 1949. Si può anche cancellare artificialmente quello stato dai libri di testo, come hanno fatto in molte scuole palestinesi, farlo sparire dalla carta geografica ma la realtà incontrovertibile è un'altra: gli uomini, le donne e i bambini israeliani, al contrario di altri popoli del Medio Oriente, vivono in una democrazia parlamentare i cui poteri costitutivi (legislativo, esecutivo e giudiziario) garantiscono e tutelano i loro diritti.
Sono passati esattamente 50 anni dalla drammatica e inaccettabile occupazione della Palestina da parte dell'esercito israeliano e l'associazione SISO (Save Israel, Stop the Occupation) ha lanciato un appello “agli ebrei del mondo”. Cinquecento tra intellettuali, politici, scienziati, attivisti per la pace, ebrei israeliani: tra loro scrittori come David Grossman, Amos Oz e Ronit Matalon, artisti come Noa e Amos Gitai, intellettuali come Naomi Chazan e Daniel Bar-Tal, l'ex-leader laburista ed ex-generale Amram Mitzna, l'ex-deputata ed ex-vicesindaco di Tel Aviv Yael Dayan, il Premio Nobel Daniel Kahneman chiedono di porre fine all'occupazione dei territori palestinesi.
Ritirandosi nei propri confini, Israele potrebbe...
Ciò dimostra che la società israeliana è complessa e in continua evoluzione. Certi giudizi cristallizzati o stracotte teorie complottiste, che iniziano ad albergare anche a sinistra, non aiutano certo il processo di pace, soprattutto se non si considera il contesto geopolitico in cui Israele vive. Siria e Iran ad esempio sono due stati dove le minoranze sono represse, poi vi sono altri stati dove le donne non hanno diritto di voto. In molti regimi arabi alla donne è vietato ricoprire incarichi politici o pubblici e/o non possono persino guidare l'auto. Al contrario vivono nella terra dei profeti punk, ebrei ortodossi, sionisti e antisionisti, gay, lesbiche e trans, comunisti, anarchici, ambientalisti e, purtroppo, anche gruppi neonazisti come raccontato più volte dal quotidiano Yedioth Ahronoth. Da qualche decennio molti giovani israeliani non rispettano lo Shabbat (il sabato ebraico) o la kasherut (l'insieme di regole alimentari ebraiche), non frequentano la sinagoga, lavorano nelle discoteche o nei pub anche di sabato e nessuno è stato perseguito per questo. La religione ha la sua importanza ma non limita la laicità.
Nella Knesset (il parlamento israeliano) sono rappresentate molte delle componenti vive e vivaci della società israeliana. I governi si alternano grazie al voto. Gran parte della cittadinanza israeliana è stanca di vivere nell'insicurezza, desidera la pace e lotta ogni giorno affinché il governo israeliano ponga fine all'occupazione, alla costruzione di nuovi insediamenti per i coloni, alle atrocità, alle persecuzioni, alle violenze, alle umiliazioni quotidiane e riconosca i diritti dei palestinesi perché questa è la precondizione per ogni seria trattativa politica. Tutti sanno che i territori sottratti ai palestinesi non servono a rafforzare le difese di Israele, questo stato ha solo bisogno di pace non di altre terre.
Ritirandosi nei propri confini Israele impedirebbe che le trattative falliscano di nuovo, recupererebbe quella dignità morale e legittimità democratica che oggi ha largamente smarrito e potrebbe regalare ai cittadini residenti e agli ebrei della diaspora la speranza di un futuro di convivenza rispettosa e pacifica tra i due popoli.
Angelo Pagliaro
Paola (Cs)
da “A” 419 (ottobre 2017)
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