esperienze concrete
Camilla e le altre
di Massimo Torsello
A Bologna, lo scorso febbraio, ha aperto Camilla – Emporio di Comunità, la prima Food Coop (cooperativa di consumo) italiana. I soci (più di 400) sono contemporaneamente proprietari, fruitori e gestori, e tutte le mansioni vengono suddivise. La storia della loro esperienza.
Nel campo dell'economia solidale sono una delle nuove pratiche che cercano di sperimentare modelli di produzione e consumo differenti rispetto al modello unico imposto dal mercato capitalistico; assieme alle CSA (Comunità di Supporto all'Agricoltura), le cosiddette Food Coop (Cooperative di consumo autogestite) possono essere considerate come l'evoluzione dei Gruppi di Acquisto Solidale, da tempo in “crisi” (fatte le debite eccezioni) di progettazione e partecipazione.
In realtà le Food Coop, in quanto cooperative di consumo a tutti gli effetti, fanno parte della storia del movimento cooperativo mondiale nato in ambito operaio e socialista (ma anche cattolico-sociale) fin dalla metà dell'800.
Fino all'avvento del fascismo, il loro sviluppo in Italia è stato consistente, più che altro al nord, soprattutto come risposta al carovita e agli aumenti dei prezzi che periodicamente l'economia di mercato imponeva ai consumatori.
Dopo il ridimensionamento quantitativo e qualitativo operato
dal regime fascista (che aveva cercato di piegare la cooperazione
ad un modello economico corporativo), dalla fine della seconda
guerra mondiale si ha una progressiva ripresa del movimento
cooperativo in generale e, a partire dal boom economico degli
anni sessanta in avanti, con la rinascita delle cooperative
di consumo si è anche assistito ad un loro progressivo
mutamento di indirizzo, conglobate anch'esse nei meccanismi
del mercato con una deriva che ha portato (a partire dagli anni
’80 del secolo scorso) a processi di concentrazione e
sviluppo tali da sfociare nella grande distribuzione organizzata
(GDO), con tutte le valenze negative incorporate in tale strumento,
dal punto di vista dello sfruttamento del territorio, delle
risorse e del lavoro di chi produce.
Collaborative e autogestite
Le Food Coop di cui parliamo qui, quelle cioè collaborative
e autogestite, in cui i soci sono contemporaneamente proprietari,
fruitori e gestori e in cui vige la stretta osservanza della
suddivisione dei compiti e delle mansioni che tutti i soci sono
tenuti a svolgere, nascono negli Stati Uniti a metà degli
anni ’70: in particolare a New York, dove un piccolo gruppo
di hippie nel 1973 “ebbe l'idea di provare ad aprire un
negozio di alimentari, invitando le persone a partecipare non
solo per l'acquisto della merce, ma anche per la vendita, mettendo
a disposizione parte del loro tempo per lavorare in negozio”.
Partiti con circa 1.000 soci, oggi la Park Slope Food Coop (www.foodcoop.com)
ne conta più di 17.000.
Negli ultimi anni, anche in Europa si è sviluppato il movimento delle Food Coop collaborative e autogestite, soprattutto in Francia, e oggi anche in Italia è attiva la prima esperienza di questo tipo.
Il 9 febbraio 2019 apre ufficialmente a Bologna, Camilla – Emporio di Comunità, la prima Food Coop italiana (camilla.coop). 170 mq di negozio (di cui 40 mq dedicati a ufficio soci e sala riunioni) in cui i soci iscritti possono acquistare cibo e prodotti non alimentari di qualità, sani e provenienti da aziende etiche, rispettose dell'ambiente e dei diritti del lavoro.
Sono andato a visitare Camilla un sabato di aprile insieme ad altri partecipanti a Gas milanesi; siamo stati accolti e ospitati da Susanna (presidente dell'emporio), Sergio (ex-sindacalista ora in pensione), Fabio (ricercatore al CNR) e altri membri della cooperativa in ordine sparso. In quattro ore di visita ci hanno illustrato filosofia, pratiche, organizzazione, punti di forza e punti deboli del progetto. Quello che segue è un breve resoconto della visita.
La prima Food Coop italiana
Ci sono voluti circa tre anni di gestazione da quando, nel
gennaio 2016, un piccolo gruppo di aderenti al Gas Alchemilla
e all'associazione Campi Aperti hanno cominciato a pensare al
progetto; all'inizio il gruppo promotore, che aveva raggiunto
la quota di circa 20 persone, si incontrava anche 3-4 giorni
alla settimana per progettare la cooperativa e stendere la carta
degli intenti. Poi si sono ampliati fino a circa 50 persone,
che hanno formato il gruppo fondatore e hanno cominciato a suddividersi
in gruppi di lavoro per sviluppare i diversi ambiti del progetto
(individuazione della forma societaria, statuto, regolamento,
obblighi normativi, rapporti coi fornitori, comunicazione, ecc).
Dopodiché hanno cominciato a fare iniziative di promozione
e raccolta adesioni.
Agli incontri proponevano di aderire alla coop in forma di “promessa
di adesione”, in cui i firmatari dichiaravano la propria
intenzione di aderire una volta formatasi ufficialmente la cooperativa.
La raccolta delle adesioni è proseguita fino al raggiungimento
della quota di 400 soci, individuata come soglia minima per
poter aprire l'emporio.
Una volta trovata la massa critica, è stato individuato
il locale e sono iniziati i lavori di ristrutturazione, quasi
completamente autogestiti grazie alle competenze tecniche di
alcuni soci. Attrezzature, arredi e suppellettili sono stati
ricevuti in regalo o acquistati nei circuiti dell'usato, coerentemente
con i principi del riuso e del riciclo.
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Bologna, l'emporio di comunità “Camilla” - Attività di formazione dei soci |
Contro la logica dei grandi numeri
Camilla non è propriamente simile alle altre Food Coop,
che tendono ad essere dei veri e propri supermercati (per quanto
“alternativi”) in cui si può trovare quasi
di tutto; hanno preferito definirsi Emporio di Comunità,
perché l'ambito di intervento è più ristretto
e perché rifuggono dalla logica dei grandi numeri che
rischia di degenerare nel puro economicismo: “L'emporio
autogestito e solidale non ha finalità di lucro e mira
al bene comune della comunità che lo sostiene. Grazie
alla sua organizzazione interna e al rapporto diretto con i
produttori – che sostiene con patti di collaborazione
– offre ai soci la possibilità di nutrirsi di buon
cibo a buon prezzo e, nel contempo, garantisce ai contadini
e agli altri fornitori un degno compenso del loro lavoro.
Al contrario, il supermercato persegue una finalità di
profitto e offre prodotti a basso prezzo grazie alla sua posizione
di potere nella filiera, che consente ad esso di imporre ai
produttori compensi sempre più bassi. Per molti decenni,
i consumatori sono stati indotti ad inseguire il prezzo basso,
come se i costi di produzione fossero comprimibili all'infinito.
Ora sappiamo che questo era un inganno e il prezzo si paga sempre
e comunque. Ciò che non paghiamo oggi in merce, lo pagheremo
poi (noi o altri) in minor salute, minori salari, minore occupazione,
minore salubrità dell'ambiente, ecc.”
È proprio l'attenzione verso i produttori, considerati
compagni di percorso, che caratterizza l'esperienza bolognese
e ne rappresenta il valore aggiunto: “La lunga esperienza
nei Gruppi di Acquisto Solidale e la presenza a Bologna di una
solida rete di mercati contadini biologici promossi dall'associazione
Campi Aperti ci ha consentito di ragionare concretamente sul
problema della distribuzione commerciale e ipotizzare una soluzione
al problema a partire dalla collaborazione tra soggetti ugualmente
schiacciati dal sistema economico: da un lato i consumatori,
che vedono progressivamente ridursi il loro potere di acquisto
e le possibilità di scelta nei consumi e dall'altro i
produttori (agricoli, ma non solo), che trovano nella vendita
diretta la sola possibilità di sottrarsi al ricatto della
Grande Distribuzione Organizzata e salvaguardare così
il loro reddito”.
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Il reparto dei prodotti confezionati |
“La priorità sono le relazioni”
La caratteristica comune con Park Slope e le altre Food Coop
europee, rimane nel modello organizzativo, in cui la parola
chiave è “autogestione”: tutti i soci della
cooperativa si impegnano ufficialmente a dedicare una quota
del proprio tempo (3 ore al mese) alla gestione dell'emporio,
svolgendo a turno le varie mansioni che permettono il buon funzionamento
dell'attività. È una reciproca assunzione di responsabilità
nei confronti degli altri soci e del progetto nel suo insieme,
mediante la quale “grazie alla collaborazione di tutti
i soci, le spese di gestione dell'emporio saranno ridotte al
minimo e di conseguenza anche i prezzi di vendita saranno ridotti
e il più possibile alla portata di tutte le tasche”.
La sostenibilità economica del progetto è una
questione importante ma in questa fase di avvio non è
sentita come prioritaria: “Essendo un emporio –
e quindi di fatto una impresa – deve avere una sostenibilità
economica e per ottenere questo serve avere un elevato livello
di efficienza organizzativa, ma quello che abbiamo imparato
in tutto questo tempo è che l'efficienza non è
la priorità; la priorità sono le relazioni che
si creano tra i partecipanti, attorno ai valori forti che informano
e sorreggono il progetto, valori che devono proteggere il progetto
da derive efficientiste fini a se stesse.
Siamo convinti che il raggiungimento di una forte coesione attorno
ai principi e una forte cultura dell'autogestione porteranno
per vie “naturali” verso il miglioramento dell'efficienza
organizzativa, fino al raggiungimento del giusto equilibrio
tra le due componenti. Ma questo è un percorso complesso,
va fatto un grosso lavoro culturale sulla pratica dell'autogestione;
molti soci differenziano ancora “noi e voi”: l'obiettivo
è che tutti i soci si identifichino con il noi”.
Dal punto di vista operativo, i soci sono organizzati in squadre
di 6-7 soci che svolgono turni di lavoro di 3 ore, oltre a 3-4
soci presenti in ufficio. Ogni squadra ha un referente che coordina
i lavori. Ci sono un totale di 44 referenti di squadra per il
pomeriggio (apertura dell'emporio) e 16 referenti per la mattina
(lavori di pulizia e ricevimento prodotti).
L'Ufficio Soci, composto complessivamente da 10-12 persone dedicate,
è l'organismo che fa funzionare la macchina, dal punto
di vista del coordinamento dei compiti; l'Ufficio Amministrazione
è dedicato alla contabilità; hanno un unico socio
dipendente, part-time, dedicato soprattutto alla gestione degli
ordini coi fornitori.
L'organo decisionale della cooperativa è l'Assemblea
dei soci, mentre il Consiglio di Amministrazione presiede alla
gestione e realizzazione delle decisioni assembleari; sono inoltre
attivi un certo numero di Cantieri, gruppi di lavoro che approfondiscono
alcune tematiche specifiche (rapporto con i produttori, comunicazione,
organizzazione, ecc).
I criteri di scelta dei produttori e le modalità di collaborazione
con essi, ricalcano quelli dei gruppi di acquisto più
evoluti ed attenti, nonché quelli della rete Campi Aperti:
materie prime e trasformati di natura biologica e/o biodinamica
e/o naturale, provenienti da piccole realtà quanto più
possibile locali, individuabili nell'ambito della cosiddetta
“agricoltura contadina”; attenzione verso progetti
sociali cooperativi e mutualistici (ad es. Sfruttazero - www.facebook.com/sfruttazero/
- interessante esperienza pugliese); relazioni aperte e trasparenti
di reciproca conoscenza che sfociano in Sistemi di Garanzia
Partecipata; la determinazione del “giusto prezzo”
(cioè un prezzo che corrisponda al prezzo di produzione)
a tutela del lavoro dei contadini e di coloro che partecipano
ai prodotti di trasformazione dei prodotti agricoli.
Come accennavo prima, questo è a mio avviso il valore
aggiunto dell'esperienza bolognese che sta già contaminando
altri gruppi e diffondendo in altre città italiane: a
Cagliari è in stato avanzato di lavori la Cooperativa
Mesa Noa (www.facebook.com/foodcoopcagliari),
mentre a Parma sono aperti i cantieri di Oltre Food Coop (www.oltrefoodcoop.it/);
anche a Milano si è da poco costituito un gruppo con
la stessa finalità (per maggiori info: max_1961@tiscali.it).
Diffondere la cultura del consumo critico
A parziale conclusione di questo breve resoconto, non posso tuttavia trascurare di riportare alcune potenziali criticità insite in questo progetto, che gli stessi soci di Camilla riconoscono e hanno ben presente: la relativamente bassa varietà di prodotti presenti in emporio (dovuta all'approvvigionamento diretto presso i produttori e alla decisione di non fare riferimento alle centrali di distribuzione – ad eccezione di quelle del commercio equo e solidale – che allungano la filiera) e il prezzo di vendita ancora relativamente alto (dato dalla somma tra il “giusto prezzo” riconosciuto al produttore e l'inevitabile ricarico – per quanto contenuto – finalizzato a coprire le spese di gestione dell'attività), possono costituire un disincentivo alla spesa (o quantomeno alla continuità di spesa), rischiando di rendere difficile il cammino a questo bel progetto di economia solidale.
Chi ci ha accompagnato nella visita è consapevole che quello da raggiungere è l'equilibrio tra l'offerta di prodotti di qualità ed un adeguato numero di soci in grado di garantire la sostenibilità economica, tant'è che la nuova campagna di adesioni è già cominciata. Ma la sfida si gioca anche sulla capacità di diffondere la cultura del consumo critico, della solidarietà e, in fin dei conti, di un progetto sociale e di una idea di società diversi da quello che ci impone il mercato.
In bocca al lupo!
Massimo Torsello
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