Brasile
La guerra contro la foresta
di Gianni Alioti
Il governo Bolsonaro vuole sfruttare ancora di più le risorse della Foresta Amazzonica. E i popoli della regione lottano per impedirlo. Intanto deforestazione, incendi e mutamento climatico stanno portando l'Amazzonia verso un cambiamento irreversibile.
Il Brasile, come sosteneva lo
scrittore Jorge Amado, è un paese surreale.
Ricardo Salles, avvocato di 43 anni e nuovo ministro dell'ambiente,
fino a febbraio di quest'anno non aveva mai posato i piedi in
Amazzonia.
Soldato fedele del presidente Jair Bolsonaro, con lui condivide
l'ossessione di un “marxismo culturale” che si sarebbe
infiltrato nel paese. Una a una sta smantellando tutte le strutture
pubbliche incaricate della preservazione ambientale. Ha dimesso
tutta la direzione dell'Instituto Chico Mendes, sostituendola
con un gruppo di ex poliziotti militari. Si è liberato
dei responsabili dell'Istituto Ibama, principale braccio operativo
del ministero dell'ambiente e ha tagliato di un quarto il loro
budget destinato alla salvaguardia delle risorse naturali rinnovabili.
Tra le prime misure adottate, ha firmato insieme al ministro
dell'agricoltura un progetto di legge che facilita la concessione
di permessi di sfruttamento del territorio, dribbla alcuni vincoli
ambientali e riduce le sanzioni per crimini ecologici. E quel
che è peggio pretende di promuovere l'”integrazione”
degli indios aprendo le terre indigene allo sfruttamento minerario.
Un discorso in voga in Brasile durante la dittatura militare,
quando furono massacrati 8 mila nativi.
Ricardo Salles può contare sul sostegno delle lobby dell'agrobusiness
e dell'industria mineraria, entrambe molto forti nel parlamento
brasiliano. Ma dichiarare guerra all'ambiente in un paese che
contiene gran parte della foresta amazzonica, delle terre indigene
conosciute internazionalmente e una delle maggiori biodiversità
del mondo, è un azzardo.
La presidenza di Jair Bolsonaro, con le sue posizioni contro
i vincoli ambientali e il diritto - sancito nella Costituzione
- dei popoli indigeni all'autogestione delle proprie terre,
si è giocata il jolly per conquistare il sostegno di
uno dei gruppi di pressione più potenti del Brasile:
i fazendeiros, ovvero i grandi proprietari terrieri,
agricoltori e allevatori, che dominano i settori primari dell'economia
brasiliana. In Brasile, il principale emblema delle profonde
disuguaglianze esistenti.
Come ha scritto Carlo Cauti sulla rivista Limes, “l'agrobusiness
brasiliano è un potere economico gigantesco, che equivale
al 23,5% del PIL e dà lavoro a 20 milioni di persone,
tutti peraltro potenziali elettori. I fazendeiros vanno a Brasilia
a difendere i propri interessi organizzati nel Fronte parlamentare
ruralista, il gruppo più organizzato del Congresso: 210
deputati e 26 senatori, ovverosia il 39,7% di tutti i parlamentari
brasiliani, suddivisi in 18 partiti, che marciano insieme travolgendo
qualsiasi ostacolo”.
Nel parlamento brasiliano l'appartenenza “corporativa
e lobbista” si sovrappone e supera, per importanza, quella
partitica. E oggi il fronte ruralista ha in mano il governo,
per questo la riduzione dei vincoli ambientali e l'assalto alle
risorse dell'Amazzonia e delle terre indigene, da sempre suoi
principali obiettivi, sono ora una priorità dell'agenda
iper-liberista del nuovo ministro dell'Economia, Paulo Guedes1.
Ai fazendeiros, inoltre, Bolsonaro ha assicurato che
il governo non solo non penalizzerà l'agrobusiness con
nuove tasse, ma cancellerà - attraverso il progetto di
legge 9.525 del 2017 - anche 3,8 miliardi di euro di debiti
accumulati dall'agroindustria con il Fondo Assistenza al lavoratore
rurale. Quanto basta per far dire a molti che “se con
il governo Temer l'agro-banditismo stava al Potere, nel governo
Bolsonaro è il Potere”.
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Brasilia (Brasile), 26 aprile 2019 - La marcia di protesta dei popoli indigeni davanti al Congresso brasiliano |
Amazzonia sotto attacco
Nei fatti il patrimonio naturale dell'Amazzonia sta subendo
un attacco ancora più drastico di quello subito durante
l'amministrazione Temer. Ora Bolsonaro rilancia una sfida ancor
più grande alle politiche di tutela dell'ambiente e alle
terre indigene.
Gli indios, in base alla Costituzione del 1988, hanno l'usufrutto
esclusivo delle loro terre ancestrali. Hanno il diritto a viverci,
secondo la loro cultura e le loro regole, conservandole. Le
terre indigene sono un bene comune, sono terre pubbliche. Non
possono essere vendute. Il disegno di Bolsonaro invece è
quello di trasformare ciò che è terra pubblica
protetta in terra privata commercializzabile.
La principale meta dell'attuale governo brasiliano è
trasformare la foresta amazzonica in merce. La ragione è
abbastanza semplice. È in Amazzonia che ci sono ancora
terre disponibili (se ci si libera dei vincoli ambientali e
dei diritti dei popoli originari) per l'avanzata degli allevamenti
di bovini e dei campi di soia. Oltre che per lo sfruttamento
degli enormi giacimenti minerari.
L'Amazzonia è quindi la regione dove il capitalismo -
non solo brasiliano - vede ancora spazio per uno sfruttamento
predatorio delle risorse naturali. E i popoli nativi sono un
ostacolo. Una “barriera per il progresso o per lo sviluppo”.
C'erano settori che lo pensavano persino nei governi a guida
PT (Partito dei Lavoratori). In effetti, le comunità
indigene sono i principali difensori della foresta. Basta osservare
le mappe e i numeri della deforestazione. È nelle terre
indigene, seguite dalle unità di conservazione, che la
foresta è maggiormente preservata.
Nonostante la costituzione brasiliana preveda un sistema di
norme molto avanzate per proteggere effettivamente i diritti
e gli interessi degli indios, i popoli nativi sono trattati
oggi come una specie di “stranieri nativi”. Una
contraddizione vissuta come normale da larghi settori della
società brasiliana. Ciò favorisce il disegno di
usurpazione delle terre indigene. Un processo iniziato negli
ultimi anni, sin dal governo di Dilma Rousseff, che aveva intensificato
i contatti con la lobby ruralista nel Congresso. Figure
come Kátia Abreu e Gleisi Hoffmann sono state decisive
per lo smantellamento della Fundação Nacional
do Índio (Funai). E non possiamo dimenticare che fino
al 2016, quando fu destituita per un impeachment senza
fondamento giuridico, Dilma era la presidente che meno aveva
tutelato le terre indigene. Solo Temer, subentrato a Dilma,
ha fatto peggio di lei.
Bolsonaro si è spinto oltre. Da quando è entrato
in carica, non ha perso tempo nella sua “guerra sporca”
contro gli indios. Ha tolto la Funai dal Ministero della
Giustizia e e l'ha posta sotto il controllo del Ministero della
Famiglia, Donne e Diritti Umani. Ministero presieduto da Damares
Alves, una predicatrice evangelica la cui ONG è sotto
indagine per istigazione all'odio razziale contro i popoli indigeni.
Infine, ha affidato la responsabilità di delimitare le
terre indigene al Ministero dell'Agricoltura, guidato dalla
lobby ruralista.
Ma per aprire l'Amazzonia allo sfruttamento dell'agrobusiness
e delle risorse minerarie (è fortissima la pressione
dei governi e delle multinazionali di Canada, Cina e Stati Uniti),
oltre che costruire strade, ferrovie, ponti e centrali idroelettriche,
Bolsonaro deve cambiare profondamente la Costituzione. L'articolo
231 è il principale ostacolo a questo disegno. Afferma,
infatti, che le popolazioni indigene hanno “diritti originari
sulle terre che hanno tradizionalmente occupato”. Per
questo il vice-presidente, generale Hamilton Mourão in
campagna elettorale ha anticipato la necessità di una
“nuova Costituzione”. Da scrivere attraverso una
“commissione di esperti”. E se questa strada fosse
sbarrata, si potrebbe sempre attuare un “auto-golpe”,
con l'appoggio delle Forze Armate.
D'altronde la nostalgia con cui questo governo guarda al ventennio
di regime militare, durato in Brasile dal 1964 al 1985, è
esplicita. In quegli anni, contro le popolazioni indigene, lo
Stato aveva condotto una guerra spietata a base di torture,
attacchi con armi chimiche, arresti di massa, stupri ed esecuzioni
extra-giudiziari. Misfatti certificati dal Rapporto Figueiredo,
pubblicato nel 2013.
“È un peccato che la cavalleria brasiliana non
sia stata efficiente quanto quella americana nello sterminare
i suoi indiani”, ha affermato senza mezzi termini Bolsonaro.
In Brasile vivono circa 900 mila indios. E, più
che in qualsiasi altro luogo del mondo, vivono nella foresta
amazzonica quasi cento tribù native mai contattate. Se
le loro terre non saranno protette, sono in pericolo. I nativi
dipendono dalla terra non solo per i loro mezzi di sussistenza,
ma anche per il loro benessere fisico e spirituale. Se gli strumenti
per il pieno riconoscimento costituzionale dei territori indigeni
saranno sospesi, la lotta per proteggere le loro vite e l'ecosistema
da cui dipendono sarà brutale e violenta.
Contro i difensori dell'ambiente
Il Brasile è già uno dei paesi più a rischio
per i difensori dell'ambiente e per gli indios. Specie
nello Stato amazzonico del Pará, il peggiore del pianeta.
E questa violenza rischia di moltiplicarsi con la retorica pubblica
denigratoria verso i popoli originari. In questi mesi, non a
caso, sono cresciute le invasioni di terre indigene da parte
dei cercatori d'oro e delle imprese di legname. E molti leader
indigeni sono minacciati di morte.
Come ha scritto Survival nella sua campagna internazionale a
difesa degli indios: “è in gioco l'anima
del Brasile, il futuro della foresta amazzonica e la straordinaria
diversità umana rappresentata dalle 350 tribù
del Paese”.
In tutto il Brasile, i popoli indigeni stanno resistendo. Non
permetteranno a nessuno di derubarli della loro terra, perché
senza di essa non possono sopravvivere. “Se i popoli indigeni
si estinguono e muoiono, saranno in pericolo le vite di tutti
perché noi siamo i guardiani della natura”, hanno
detto gli indios Guaraní. “Senza foresta,
senza acqua, senza fiumi non c'è né vita né
speranza per nessun brasiliano. Abbiamo resistito 518 anni fa;
tra vittorie e sconfitte continuiamo a lottare, la terra è
nostra madre. Finché splenderà il sole e all'ombra
di un albero ci sarà aria fresca, finché ci sarà
ancora un fiume in cui bagnarsi, noi continueremo a combattere.”
Dinamam Tuxá, vice-coordinatore della Articulação
dos Povos Indígenas do Brasil (APIB), principale organizzazione
indigena del paese, ha accusato lo Stato brasiliano di voler
“istituzionalizzare il genocidio”. In un'intervista
ad Amazônia Real ha affermato “[...] questo governo
milita contro i diritti dei popoli indigeni, finendo per avallare
una tendenza genocida. Siamo tornati al punto di partenza, al
Brasile del 1500, quando ci massacravano e prendevano i nostri
territori. Siamo coscienti che verranno giorni difficili, che
la violenza prevarrà, ma combatteremo e resisteremo.
La sensazione è d'insicurezza, ma anche di lotta, perché
i nativi hanno resistito in passato e continueranno a farlo
anche nei prossimi quattro anni.”
Innumerevoli sono state le manifestazioni in questi mesi culminate
nell'accampamento Terra Livre dal 24 al 26 aprile nel
Planalto Central a Brasilia. Di fronte al Congresso e
ai palazzi del Potere, protetti da ingenti forze della Sicurezza
Nazionale. L'ultimo giorno oltre 4 mila persone in rappresentanza
di 305 popoli nativi hanno manifestato e occupato gli spazi
esterni dei Ministeri della Giustizia e della Salute. Edinho
Macuxi, coordinatore del Conselho Indígena de Roraima
(CIR)2, rappresentativo di 237
comunità indigene nello Stato, afferma che gli indios
combatteranno su una base di parità e che sono pronti
a difendere le proprie conquiste. “Non dice Bolsonaro
che il Brasile è in cima a tutto? Noi siamo i popoli
nativi di questo paese ed esigiamo i nostri diritti di cittadinanza”.
È necessario che tutta la popolazione prenda posizione
in questo conflitto: “È nelle terre indigene che
s'incontrano foreste in piedi, acqua e suolo non contaminati.
Noi ci prendiamo cura non solo della nostra esistenza in quanto
popolo, ma della sopravvivenza dell'umanità”.
Questione indigena e questione ambientale
Anche gli Yanomami contestano le politiche del governo: “I popoli Yanomami e Yekwana non vivono poveri, come si dice. La nostra ricchezza non è poter vendere la terra, estrarre l'oro. La nostra ricchezza è vivere bene nella nostra terra, la foresta, avere i fiumi puliti, garantire la salute delle persone. [...] Siamo contrari a legalizzare l'estrazione mineraria nel nostro territorio. Per noi l'oro deve restare sottoterra. Vogliamo reddito dai nostri progetti che rispettano la nostra foresta, come stiamo sviluppando nelle nostre comunità. Noi siamo i legittimi brasiliani, originari della terra, dove siamo nati e dove moriremo”.
Marcos Apurinã, leader della federazione delle Comunità Indigene del Rio Purus dopo aver ricordato in un'intervista che le terre dei nativi sono sacre, in quanto terre ancestrali, ha dichiarato che: “Bolsonaro e i colonnelli della lobby ruralista sanno che per collocare più terre nel mercato devono impedire il riconoscimento delle terre indigene, quilombolas, insediamenti per la riforma agraria e unità di conservazione. Ma sanno anche che la prospettiva del mondo è verso una nuova modalità di produrre e consumare e che non esiteremo a denunciare questo governo e l'agrobusiness nei quattro angoli del mondo, denunciando ed esigendo l'adozione e il rispetto delle garanzie sociali e ambientali, necessarie al fedele adempimento dei nostri diritti costituzionali. Siamo preparati, non ci tireremo indietro, né rinunceremo ai diritti conquistati e tantomeno consegneremo i nostri territori per onorare l'accordo tra Bolsonaro e i suoi colonnelli”.
Anche da queste parole emerge la forte correlazione tra la questione indigena e questione ambientale, tra difesa degli habitat naturali e condizioni di vita dei popoli della foresta. Come aveva benissimo intuito Chico Mendes, sindacalista dei seringueiros, ucciso nella sua casa di Xapurí nel dicembre 1988 su mandato dei fazendeiros dell'Acre3.
In Brasile, come in tutto il mondo, riconoscere e sostenere i diritti civili delle popolazioni indigene è quindi lo strumento più potente per la protezione delle foreste primarie. Oltre a rappresentare l'habitat di moltissimi animali e piante, le foreste primarie sono anche uno strumento cruciale nella lotta al riscaldamento globale. Secondo le stime del WRI, nel 2017 in conseguenza alla deforestazione sono state emesse in atmosfera circa 7,5 miliardi di tonnellate di CO2, circa il 50% in più di quelle prodotte dall'intero settore energetico degli Stati Uniti. Mentre la distruzione delle foreste produce enormi quantità di CO2, la loro crescita (specie di quelle tropicali) la assorbe. La loro protezione, quindi, è uno degli elementi chiave nel contrasto dei cambiamenti climatici.
La foresta pluviale amazzonica è uno dei maggiori “serbatoi di carbonio” (carbon sinks) del mondo che contribuiscono ad assorbire l'anidride carbonica in eccesso dall'atmosfera. Motivo per cui, con un po' di retorica, la foresta pluviale è considerata il polmone del mondo.
Disboscamento fuori controllo
Conservare e recuperare le foreste tropicali, così come
i boschi di mangrovie e i terreni torbosi, rappresenta il modo
più efficace ed economicamente conveniente per ottenere
una quota del 23% dei tagli alle emissioni necessari da qui
al 2030. Nonostante ciò, spiega Frances Seymour del WRI,
gli Stati e i privati spendono ogni anno circa 100 miliardi
di dollari in sussidi e in investimenti che favoriscono l'urbanizzazione
e l'espansione dell'agricoltura a scapito delle foreste. Nel
frattempo, aggiunge, solo un miliardo di dollari l'anno è
speso per la loro conservazione: “[...] è come
cercare di spegnere un incendio con un cucchiaino mentre si
aggiunge combustibile alla fiamma”.
A livello mondiale nel 2018 si è registrato il più
alto tasso di deforestazione da dieci anni a questa parte. Tra
le aree più colpite figura l'Amazzonia. Solo nel Bacino
dello Xingu, secondo il monitoraggio dell'Istituto Socioambiental,
sono stati abbattuti nel 2018 oltre 150 milioni di alberi. L'elezione
di Bolsonaro alla presidenza del Brasile e la presa del potere
della lobby ruralista in Brasile è la classica
tanica di benzina versata su un incendio in corso.
L'allevamento di bestiame è la principale causa di deforestazione,
seguita dalla produzione di soia e dallo sfruttamento del legname.
A causa di ciò, dal 2001 al 2017, si sono persi nella
regione amazzonica4 50,9 milioni
di ettari di copertura forestale. Una diminuzione di poco meno
del 10% dal 2000 dell'intera zona boschiva originaria e 4,21
miliardi di tonnellate di CO2 di emissioni in atmosfera (vedi
grafico).
L'avanzamento della frontiera agricola, l'allevamento di bovini
e l'estrattivismo minerario hanno accelerato la deforestazione,
ormai fuori controllo.
Un gruppo di associazioni ambientaliste, formato da otto ONG,
ha identificato nella regione amazzonica 2.312 siti di estrazione
illegale in 245 aree di Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador,
Peru e Venezuela.
“L'incidenza di miniere illegali in Amazzonia, specie
in territori indigeni e in aree naturali protette, è
cresciuta in modo esponenziale negli ultimi anni con l'aumento
del prezzo dell'oro”, ha affermato l'antropologo Beto
Ricardo, coordinatore della Rede Amazônica de Informação
Socioambiental Geo-referenciada. Ma non solo oro. Anche coltan
e altri minerali strategici per produzioni elettroniche, batterie
elettriche e applicazioni militari.
“Come un'epidemia, l'estrazione illegale distrugge la
foresta, contamina i fiumi e minaccia la sopravvivenza di centinaia
di comunità autoctone”, specialmente per l'uso
del mercurio, avverte Ricardo, che dirige l'Instituto Socioambiental.
Uno studio pubblicato all'inizio di quest'anno nella rivista
“Science Advances” e firmato da scienziati di fama
internazionale, l'americano Thomas Lovejoy e il brasiliano Carlos
Nobre, mostra che la foresta raggiungerà un “punto
di inflessione” (di non ritorno) se la deforestazione
accumulata arriverà ad un valore tra il 20 e 25 per cento
della superficie totale. A quel punto l'Amazzonia soffrirebbe
di cambiamenti irreversibili, trasformandosi in una regione
con scarsa vegetazione (meno densa e continua) e con bassa biodiversità.
Alcuni studi realizzati dal professor Eneas Salati negli anni
'70 hanno dimostrato che l'Amazzonia genera circa la metà
delle sue piogge. Ci si è subito posti il problema di
capire dopo quale soglia di deforestazione il ciclo idrologico
amazzonico si degraderebbe al punto da non poter più
assicurare l'esistenza dell'eco-sistema pluviale.
I primi modelli elaborati indicavano il 40% di deforestazione
come punto limite. In questo scenario le regioni centrali, e
del sud ed est del bacino amazzonico registrerebbero una riduzione
delle precipitazioni piovose e un prolungamento della stagione
secca. La vegetazione delle regioni a sud ed est finirebbe per
assomigliare alle zone di cerrado, simili alle savane
africane.
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Brasilia (Brasile), 26 aprile 2019 - La marcia di protesta dei popoli indigeni nella Esplanada dos Ministérios |
Deforestazione, cambiamento climatico e incendi
Nelle ultime decadi, altri fattori oltre alla deforestazione hanno cominciato a influenzare il ciclo idrologico amazzonico. In primo luogo i cambiamenti climatici globali che hanno alternato in Amazzonia lunghi periodi di siccità negli anni 2005, 2010, 2015 e 2016, con gravi inondazioni negli anni 2009, 2012 e 2014. In secondo luogo, il ricorso indiscriminato agli incendi da parte dei latifondisti durante i periodi secchi, con l'obiettivo di eliminare la bassa vegetazione e i resti degli alberi abbattuti, e per pulire il terreno e trasformarlo in foraggio o in campi di coltivazione.
Secondo i ricercatori, la combinazione di questi tre fattori avrebbe abbassato il punto d'inflessione. Carlos Nobre ha dichiarato: “Nonostante non sappiamo il punto esatto d'inflessione, stimiamo che l'Amazzonia è molto prossima a raggiungere questo limite irreversibile. L'Amazzonia ha già un 20% di area disboscata, equivalente a un milione di chilometri quadrati, anche se il 15% di quest'area [150 mila km2] sia in fase di recupero”.
Al fine di evitare che l'Amazzonia raggiunga il limite irreversibile, i ricercatori sostengono la necessità da parte di tutti i paesi della regione di azzerare la deforestazione nella regione amazzonica, e di attuare gli impegni assunti con l'Accordo di Parigi sul Clima nel 2015.
Impegni che per il Brasile prevedono la riforestazione di almeno 12 milioni di ettari di aree disboscate, di cui circa la metà nella regione amazzonica. In questo modo, secondo il calcolo di Carlos Nobre “[...] nel 2030 le aree disboscate in Amazzonia sarebbero intorno al 16-17% del totale” della copertura forestale in origine. “In questo modo saremmo nel limite ancora sicuro, affinché la deforestazione da sola non faccia che il bioma amazzonico raggiunga il punto irreversibile”.
La speranza degli scienziati si scontra però con la “guerra sporca” scatenata da Jair Bolsonaro contro gli indios e la foresta amazzonica. È difficile, pertanto, immaginare che gli impegni del Brasile nella lotta ai cambiamenti climatici siano rispettati. Tantomeno si è in grado di dire come finirà la “guerra sporca” di Bolsonaro.
Gianni Alioti
- Accademico e banchiere, ultimo erede della scuola di Chicago,
professore emerito all'università del Cile durante
la dittatura militare di Pinochet. Fondatore del think tank
neo-liberista Millennium Institute.
- Con il Consiglio Indigeno di Roraima ho avuto l'immenso
piacere, negli anni '90, di cooperare in alcuni progetti di
solidarietà e di lottare insieme affinché la
regione Raposa - Serra do Sol, nel nord-est dello Stato al
confine con il Venezuela, fosse riconosciuta tra le terre
indigene.
- Gianni Alioti, Chico Mendes, un sindacalista a difesa
della natura, Edizioni Lavoro, Roma 2008.
- La regione amazzonica corrisponde a oltre 7 milioni di km2
(700 milioni di ettari) del bacino idrogeologico del Rio delle
Amazzoni. La copertura forestale originaria si estendeva per
5,5 milioni di km2, di cui due terzi in Brasile
e il resto in Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Guyana Francese,
Perù, Suriname e Venezuela.
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