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 Marche/Epopea operaia di una lotta vincente
 È uscito a marzo un libro bello, intenso e coraggioso, 
                  che fa rivivere un'epopea operaia lunga quasi vent'anni, dalla 
                  fine degli anni '70 alla metà dei '90 del Novecento. 
                  Il libro è La Simeide. Una lotta vincente di Tullio 
                  Bugari (Seri Editore, Macerata 2019, pp. 353, € 15,00).
  Quello che scorre nelle pagine, in una cronaca incalzante narrata 
                  con sapienza, è un protagonista corale: operai in assemblee 
                  e cortei, delegati e sindacalisti nei Consigli di Fabbrica e 
                  di Zona, padroni che fuggono e altri che ci credono, sindaci 
                  e politici e partiti in consigli comunali e a facilitare trattative, 
                  studenti che si mobilitano e cittadini che applaudono gli operai 
                  in lotta. La fabbrica è la SIMA di Jesi nelle Marche, coi suoi 
                  700 operai che la salveranno insieme con gran parte dei posti 
                  di lavoro. Operaio tra gli operai c'è Cesare Tittarelli, 
                  anarchico, delegato nel CdF, in prima fila nella lunga lotta, 
                  fuori dalla lista dei riassunti. È una storia lontana, 
                  che parla però forte al presente.
 Parla al presente per la memoria di persone che non devono essere 
                  dimenticate, e di vicende che non devono andare perdute. Parla 
                  al presente per la qualità della democrazia in cui viviamo, 
                  così incerta oggi da dovere saper attingere a esperienze 
                  di così grande partecipazione: di persone, comunità, 
                  soggetti collettivi politici, sindacali, sociali. Parla al presente 
                  anche per l'affidabilità delle fonti: cronache d'epoca, 
                  ricerche, archivi personali, memorie orali; per “raccontare 
                  dal punto di vista operaio”, scrive l'autore; ma anche 
                  – guardando alla contemporaneità – per riaffermare 
                  il valore delle fonti storiche contro la dittatura della post-verità, 
                  di un'autoreferenzialità per cui ogni opinione è 
                  vera e ogni fatto vale quanto un altro, in una sorta di inversione 
                  di valore di quella democrazia diretta che Cesare Tittarelli 
                  e gli operai della SIMA hanno saputo praticare.
 Di fronte a un'impasse nella trattativa “la reazione 
                  degli operai è immediata [...] escono dallo stabilimento 
                  di Roncaglia e vanno a bloccare la ferrovia [...]: c'è 
                  chi [Cesare] si incarica di intralciare i binari ed esce dallo 
                  stabilimento con un muletto, si arrampica sulla scarpata, prosegue 
                  per alcune centinaia di metri in direzione di Jesi seguito dagli 
                  operai come in una specie di corteo, e poi lo lascia in mezzo 
                  ai binari, estrae le chiavi e le scaglia lontano in mezzo all'erba 
                  alta della campagna, gridando: Voglio vedere chi lo toglie!”
 Dentro il vivo d'un racconto in presa diretta, ecco un primo 
                  dilemma: trattativa e lotta, responsabilità e radicalità; 
                  perché il “senso di responsabilità [...] 
                  si costruisce ogni giorno, e occorre ogni volta riguadagnarselo 
                  tra le tante discussioni interne, con opposti punti di vista, 
                  ma pronti a ricomporsi”, anche ricorrendo ad azioni aspre: 
                  “Il blocco si prolungava e la polizia aveva cominciato 
                  a prepararsi per sgomberare i binari con la forza [...] Poi 
                  arriva dalla direzione opposta un altro treno [...] e allora 
                  gli operai indietreggiano [...] arrivano in fondo, dove ai lati 
                  della ferrovia appare la città e c'è il passaggio 
                  a livello, chiuso [...] È mezzogiorno, molti operai di 
                  fabbriche e officine vicine stanno tornando dal lavoro e sono 
                  fermi lì [...] e dai balconi e dalle finestre la gente 
                  si sta affacciando [...] e inizia a battere le mani agli operai. 
                  Dirigenti della polizia e delegati del CdF parlamentano di nuovo, 
                  alla fine si accordano, prima smobilitano i poliziotti e dopo 
                  cinque minuti si impegnano a farlo anche gli operai. Ma dopo.”
 Quelli erano anni in cui partiti, istituzioni, eletti avevano 
                  spesso un rapporto reale con la base, e forti erano anche le 
                  spinte dal basso, esperienze di autonomia e autogestione. “Il 
                  Consiglio Comunale all'unanimità esprime parere favorevole 
                  alla trattativa”; la strategia operaia “non poteva 
                  avere confini aziendali ma doveva anche ricercare all'esterno 
                  l'unità necessaria [...] su proposta del CdF si costituisce 
                  un Comitato interpartitico a cui aderiscono Pci, Dc, Pri, Psdi, 
                  Pdup e Amministrazione comunale.”
 Ma ecco, da contrappunto, l'operaio comunista Giordano Mancinelli 
                  che puntualizza con orgoglio: “Le iniziative erano sempre 
                  le nostre, le lotte, le assemblee, i blocchi sulla strada statale, 
                  e anche quando andammo a Roncaglia ad aprire la manopola del 
                  gas, perché ci avevano interrotto la fornitura, e ci 
                  prendemmo la denuncia, mica chiedemmo prima ai sindacati o ad 
                  altri, decidemmo da soli di andare.” E “se c'era 
                  uno che spingeva continuamente, e diede un contributo fondamentale, 
                  era proprio Cesare Tittarelli”.
 Ecco un secondo dilemma che il libro ci squaderna continuamente 
                  davanti, tra democrazia diretta e delegata, che la realtà 
                  d'allora e di oggi pone con evidenza come questione permanente.
 Quella vertenza ebbe un esito innegabilmente positivo. Eppure 
                  l'autore sente di doverlo ribadire nelle ultime righe del libro, 
                  quasi ad esorcizzare contraddizioni e limiti, su cui ancora 
                  una volta è Cesare Tittarelli, il libertario, a riflettere; 
                  lui che, non riassunto dalla sua fabbrica e costretto a trovarsi 
                  un lavoro diverso, guida fino all'ultimo il comitato dei “cento 
                  operai senza fabbrica” che – dice – “si 
                  sono dovuti arrangiare: chi consegna pacchi, chi fa l'ambulante, 
                  chi è rientrato in fabbrica ma con profili di basso livello. 
                  Altri si sono persi di vista [...] Purtroppo, anche oggi che 
                  il Comitato chiude per missione compiuta, non me la sento di 
                  cantare vittoria.”
 Ecco un terzo dilemma che il libro non può certo risolvere, 
                  e che si presenta anch'esso come parte di un'idea regolativa 
                  per una democrazia più vera, quello tra inclusione e 
                  esclusione, integrità e compromesso.
 Cesare Tittarelli era già stato l'anima operaia e sindacale 
                  dell'Organizzazione Anarchica Marchigiana che con Tullio, giovani 
                  studenti nei primi anni '70, abbiamo condiviso. Cesare ci ha 
                  lasciato da un po' d'anni. Non c'è alcuno che, avendolo 
                  frequentato, non gli abbia riconosciuto intelligenza, passione, 
                  dedizione.
 Tullio Bugari lo fa qui con discrezione, dentro il protagonismo 
                  collettivo di una lunga vertenza operaia, magistralmente narrata 
                  come epopea di un'intera comunità.
 Massimo Lanzavecchia 
 
 Cultura proletaria o bolscevica?/La rivoluzione parte da noi
 “Più lo frequentava e più si rendeva conto 
                  che il limite di Gor'kij non era la scarsa attitudine per la 
                  filosofia. Il suo vero problema era non saper decidere tra due 
                  innamoramenti: da un lato sé stesso, dall'altro la società. 
                  Quando la voce interiore gli sussurrava “io, io, io” 
                  subito si sentiva colpevole per non aver pensato “noi, 
                  noi, noi”. Allora, per dimostrarsi all'altezza del suo 
                  ruolo intellettuale, scriveva un peana per l'Umanità, 
                  l'unico vero Dio che bisognava costruire e adorare insieme [...]. 
                  Il giorno seguente, però, l'idea di una simile fusione 
                  lo preoccupava, perché lo avrebbe privato dell'ammirazione 
                  altrui [...]. Alto sul piedistallo, gridava “noi” 
                  con tutto il fiato, ma il suo era soltanto un plurale maiestatis”.Questo breve paragrafo, che nulla rivela della curiosa trama 
                  di questo romanzo, Proletkult (Wu Ming, Einaudi, Torino 
                  2018, pp. 333, € 18,50), ne “spoilera” invece 
                  a mio giudizio le intenzioni.
 In quella discrepanza – fondamentale eppure spesso così 
                  difficile da cogliere – tra il “noi” e il 
                  “plurale maiestatis” si annidano sogni e bisogni, 
                  ideologie e fallimenti, rivoluzioni e restaurazioni. E non solo 
                  nella storia di cui qui si tratta, quella del post-Grande-Rivoluzione-d'Ottobre; 
                  ma in quella di tante altre rivoluzioni, avvenute prima o dopo 
                  o mai.
 
  Il 
                  Proletkult, l'Organizzazione Culturale-Educativa Proletaria, 
                  era stato fondato a Mosca poche settimane prima della Rivoluzione, 
                  dal critico marxista e intellettuale bolscevico, nonché 
                  scrittore di fantascienza, Aleksandr Bogdanov autore del famoso 
                  romanzo “Stella rossa”. Nelle intenzioni del promotore, questa organizzazione avrebbe 
                  dovuto gettare le fondamenta per un'arte e una cultura profondamente 
                  proletarie, scevre da influenze e sfumature borghesi. Bogdanov 
                  credeva nella rivoluzione, della quale era stato convinto fautore; 
                  ma era al tempo stesso consapevole che la “rivoluzione 
                  agita” non sarebbe durata a lungo senza una base culturale 
                  costruita dal basso, a-gerarchica, solidale e cooperativa. L'emergere 
                  di una vera arte proletaria, creata dai proletari per i proletari, 
                  priva degli orpelli della cultura borghese, avrebbe gettato 
                  fondamenta sicure, sulle quali edificare concretamente il sogno 
                  del mondo giusto e uguale.
 L'idea del Proletkult funzionò oltre le aspettative; 
                  in tutto il paese fiorirono istituti, scuole, laboratori e corsi, 
                  allo scopo non solo di insegnare ai lavoratori a leggere, ma 
                  anche di incoraggiarli a “produrre” vere e proprie 
                  opere teatrali, letterarie, poetiche.
 A soli tre anni dalla sua fondazione il Proletkult vantava più 
                  iscritti di quanti ne aveva il Partito, cioè mezzo milione 
                  circa. E se il prodotto letterario/artistico di tanto fervore 
                  non sempre poteva definirsi degno di gloria imperitura, certamente 
                  colpisce l'energia creativa che così tante persone tirarono 
                  di colpo fuori dal cassetto dei desideri.
 Il Proletkult non era controllato direttamente dal Partito, 
                  però era sovvenzionato dallo Stato; questa sorta di libertà 
                  condizionata, per quanto forse inevitabile in quel contesto, 
                  ne decretò ben presto la fine; osteggiato dai leninisti 
                  che esigevano la centralizzazione del potere negli apparati 
                  statali, fu presto inglobato nell'apparato burocratico dell'Unione 
                  Sovietica, per essere poi abolito da Lenin nel '23.
 Il Dottor Bogdanov fu spedito a dirigere il centro trasfusionale 
                  di Mosca, dove il suo agognato collettivismo letterario dovette 
                  cambiare forma e trasformarsi in “collettivismo fisiologico” 
                  o “comunismo del sangue”, basato su pratiche trasfusionali. 
                  Bè, meglio di niente.
 Fin qui i fatti e la storia. Dentro i quali e la quale, nel 
                  romanzo ambientato nel 1927, dunque dieci anni dopo la rivoluzione 
                  e con Lenin già imbalsamato, si infilano nientepopodimeno 
                  che... gli alieni. Nello specifico Denni, ragazza dall'aspetto 
                  androgino proveniente dal lontano pianeta Nacun. Dove il socialismo 
                  reale regna sovrano già da un bel po', comunque da abbastanza 
                  tempo per vederne con chiarezza tutti i limiti e dover correre 
                  altrove a cercar rimedi.
 L'incontro tra Bogdanov e Denni – sul pianeta terra per 
                  rintracciare suo padre, Voloch, vecchio rivoluzionario amico 
                  di Bogdanov – dà il via a una serie di vicende 
                  condite di discussioni, confronti e racconti dai quali emerge 
                  un quadro credibile, a tratti ironico a tratti malinconico, 
                  dei protagonisti di quel pezzo di storia così importante 
                  per il destino dell'Europa e del mondo.
 Il punto di vista della ragazza – ovviamente considerata 
                  un caso clinico, e come tale trattata – apre a Bogdanov 
                  prospettive insolite, lo costringe in qualche modo a rileggere 
                  passato e presente; lo conduce a un finale dove i “padri” 
                  si scambiano i ruoli perché “i figli sono di chi 
                  li cresce” o di chi per loro crea un pianeta dove possano 
                  crescere e vivere, se non nel modo perfetto, almeno nel modo 
                  più giusto possibile.
 Romanzo storico, fantascientifico, di riflessione sociale e 
                  politica, nessuno di questi, di tutti un po'.
 Il “socialismo agito” visto dal futuro, o da pianeti 
                  lontani, rivela tutti i suoi limiti.
 Perché ahimè, quando i sogni si trasformano in 
                  vita reale, si traducono facilmente in privilegi, invidie, sospetti, 
                  punizioni.
 Il potere accentrato taglia via la volontà di emancipazione, 
                  l'energia rivoluzionaria, il potenziale dei singoli moltiplicato 
                  dal collettivo. E i sogni finiscono per diventare di un triste 
                  colore molto simile al grigio.
 Dalla Rivoluzione ai ministeri, il passo per alcuni non è 
                  così lungo; le barricate si tramutano in ricordi, i whisky 
                  di pregio in una comoda realtà. Gli ostinati, i sognatori, 
                  quelli che davvero ci credevano, vengono spostati, trasferiti, 
                  messi a fare altro; gli altri, gli improvvisamente ubbidienti, 
                  gestiscono poterini e miserie burocratiche, sono i Varenucha 
                  e i Nikanor Ivanovic di Bulgakov ne “il Maestro e Margherita”. 
                  E lì non bastano nemmeno gli alieni, deve scendere in 
                  terra il Diavolo in persona a risistemare qualche equilibrio.
 Ammesso che esista la ricetta per una rivoluzione duratura, 
                  dobbiamo cercarla dentro di noi, prima che contro qualcun altro. 
                  O, meglio, le rivoluzioni esteriori devono corrispondere a quelle 
                  “dentro”. Nessuna rivoluzione sopravvive a lungo 
                  quando il “noi” è un plurale maiestatis; 
                  e nessuno di noi è del tutto immune a questa contraddizione.
 Facile a dirsi, difficilissimo a farsi.
 Forse dovranno davvero venire gli alieni, ad aiutarci a casa 
                  nostra.
 O magari il diavolo, chissà.
 Claudia Ceretto 
 
 Racconti/La Calabria di ieri e di oggi
 I racconti di Angelo Gaccione (L'incendio di Roccabruna, 
                  Di Felice Edizioni, Martinsicuro - Te 2019, pp. 120 € 12,00) 
                  sono ambientati in un paesino della Calabria al quale l'autore, 
                  originario di Acri (CS), ha dato un nome di fantasia, “Roccabruna”.Al pari del più noto paesello siculo di “Vigata”, 
                  reso celebre dai racconti di Camilleri, i cittadini che lo abitano 
                  hanno caratteristiche varie, ricoprono ruoli diversi, appartengono 
                  a classi sociali molto distanti tra loro e quindi in contrasto 
                  fortissimo per interessi economici e opzioni culturali, politiche 
                  e sociali diverse.
 Il libro contiene quindici racconti, storie estreme e truci 
                  (storie di briganti, di vendette, di soprusi, di follie, di 
                  ignoranza, di abusi e misfatti del potere, di fanatismi religiosi...), 
                  come scrive nella sua bella prefazione Vincenzo Consolo, che 
                  si consumano in un luogo abitato da gente dallo spirito vendicativo.
 
  Nel 
                  racconto “Il Sacrilegio” si parla di Roccabruna 
                  come di un paese caratterizzato politicamente dalla presenza 
                  di circa 200 anarchici, “duecento teste calde che non 
                  aspettano altro. Nel disordine ci sguazzano come vermi nell'acqua 
                  marcia”, dove la vendetta viene vista come un dovere sociale, 
                  come il giusto epilogo di uno scatto di dignità, di una 
                  rivolta necessaria ritenuta, da un sottoproletariato perennemente 
                  umiliato, come “l'unico perdono possibile”. Di queste vendette sono piene le cronache di fine Ottocento-inizi 
                  Novecento, consumate contro chi sparava e torturava la povera 
                  gente, sicuro di godere della stessa impunità che non 
                  fu accordata né al Re Vittorio Emanuele III, giustiziato 
                  da Gaetano Bresci e neppure al colonnello della Polizia di Buenos 
                  Aires, Ramòn Falcòn, fatto saltare in aria da 
                  Simon Radowitsky, solo per citare alcuni “gesti eroici” 
                  che, piacenti o nolenti, fanno comunque parte della storia del 
                  movimento anarchico internazionale.
 Anche nella filmografia più recente vengono rappresentate 
                  storie in cui la rivolta singola e/o popolare si manifesta in 
                  modo violento. Basti ricordare i film Novecento di Bertolucci 
                  o V per Vendetta di James Mc Teigue, nei quali ritorna 
                  il tema del “giustiziere politico e sociale” che, 
                  con un sol gesto individuale, pensa di regalare il definitivo 
                  riscatto ad interi popoli. In ogni singolo racconto, Gaccione 
                  descrive con così grande accuratezza e precisione i protagonisti 
                  che sembra quasi di vederli: il loro temperamento, le delusioni, 
                  le umiliazioni che subiscono si riflettono tristemente sulle 
                  vite dei familiari, spesso donne umili e bimbi così piccoli 
                  da giustificare la rabbia che spinge il soggetto sfruttato alla 
                  ribellione.
 In modo molto efficace, l'autore non si disperde nel riannodare 
                  i fili di una tirannia storica, che affligge la Calabria da 
                  migliaia di anni, ma utilizza singoli episodi, detti popolari 
                  e proverbi che più di ogni artificio letterario rendono 
                  chiarissimo il contenuto e lo spirito degli episodi di ribellione. 
                  Al tempo dei Borboni, anche in Calabria nacque il brigantaggio, 
                  fenomeno resistenziale durato oltre quindici anni, di cui l'autore 
                  fa cenno nel racconto dal titolo “La taglia”.
 Il brigante Natale Cozza, protagonista di questo racconto, rivolgendosi 
                  ai cittadini avverte: “La ricchezza si è fondata 
                  sulla frode e sul delitto. Pensateci ogni qual volta vi chinate 
                  a riverire”. Una volta finito il dominio in Calabria, 
                  i Borboni furono sostituiti egregiamente, nel Novecento, da 
                  una borghesia creatasi, come affermava Corrado Alvaro, nell'ultima 
                  guerra con la “borsa nera”.
 Una borghesia, ricordava Pier Paolo Pasolini, “arroccata 
                  su posizioni dolorosamente antidemocratiche, convenzionali, 
                  servili”.
 Gaccione, nei suoi racconti intrisi di ingiustizie e dolori, 
                  constata l'amarezza della vita soprattutto nell'azione di uomini 
                  e donne che invece di prendere coscienza si dimenticano di essere 
                  stati servi e diventano a loro volta aguzzini. Nel racconto 
                  dal titolo “L'incendio di Roccabruna”, il padrone 
                  Vincenzo Baffi impone una cena a casa di Turi Corda, il fattore 
                  considerato da lui meno di uno schiavo. Durante il pranzo, il 
                  barone Baffi chiede a Corda “A chi appartieni tu?”. 
                  “A Voscienza” risponde l'uomo. E poi, non soddisfatto, 
                  continua a chiedere al fattore, sghignazzando, a chi appartenessero 
                  il casolare, la moglie, le scarpe, e i pensieri, e l'aria che 
                  respira, e gli uccelli, e l'acqua che vi scorre, ottenendo sempre 
                  la solita risposta ubbidiente: “A Voscienza”.
 Alla fine, preso da un delirio di onnipotenza, il barone arriva 
                  all'obiettivo prefissato: “E Nerina?” (la figlia 
                  giovanissima e bella del fattore). “Nerina è sangue 
                  mio” risponde Tulli Corda con una dignità che nessuno 
                  si aspettava. Quella risposta gela l'aria, il viso di don Vincenzo 
                  diviene satanico e, più cattivo che mai, urla ai suoi 
                  sgherri con gli occhi venati di sangue... “Sgozzatelo!”
 Quella descritta dall'autore è una parte importante della 
                  storia della Calabria di allora; quella di oggi, grazie a meccanismi 
                  e sistemi di potere sofisticati, a dinamiche meno evidenti, 
                  sottili e alquanto complesse è, per certi versi, ancora 
                  peggiore.
 Angelo Pagliaro 
 
 Egitto/Cosa resta della primavera
 Sono passati ormai più di otto anni da quell'ondata 
                  di proteste e di rivendicazioni che ha attraversato gran parte 
                  del Nord Africa e del Medio Oriente e che oggi ricordiamo come 
                  “primavera araba”. In Egitto il 25 gennaio 2011 
                  una folla di manifestanti si riversava per le strade del Cairo 
                  denunciando la corruzione dilagante e richiedendo le dimissioni 
                  di Hosni Mubarak, al potere ininterrottamente da un trentennio. 
                  Le immagini di Piazza Tahrir e di quelle migliaia di persone 
                  che la occuparono per giorni rimbalzavano in tutto il mondo 
                  e facevano da eco alle rivendicazioni dei manifestanti che invocavano 
                  libertà, democrazia e giustizia sociale. Dopo diciannove 
                  giorni Mubarak cadde, ma per l'Egitto non si è aperta 
                  quella fase di pluralismo e democrazia in cui molti avevano 
                  sperato.
  L'egiziano 
                  'Ala al-Aswani, dentista di professione nonché uno dei 
                  più apprezzati scrittori arabi contemporanei, ha preso 
                  parte alla rivolta e scritto diversi testi a riguardo; Sono 
                  corso verso il Nilo (Feltrinelli 2018, pp. 384 € 18,00) 
                  è uno di essi. Mantenendosi in equilibrio sulla linea 
                  di confine tra cronaca, testimonianza e narrativa, al-Aswani 
                  dà vita a molteplici personaggi le cui vite si intrecciano 
                  e si condizionano, e con la sua abilità nello strutturare 
                  i capitoli in modo che il fuoco si sposti costantemente da una 
                  vicenda all'altra, crea un gioco di suspense in grado di trattenere 
                  il lettore fino all'ultima riga, lasciandogli poi il bisogno, 
                  terminato il romanzo, di metabolizzare con calma e riflettere. Tanti sono i protagonisti di questa storia, tra essi spiccano 
                  Asma, giovane insegnante che rifiuta di indossare il velo, e 
                  Mazen, ingegnere impegnato nel difendere le rivendicazioni degli 
                  operai del cementificio in cui lavora. Entrambi lottano contro 
                  la corruzione nei rispettivi ambienti di lavoro e scendono in 
                  strada insieme, scoprendo in se stessi una forza che forse non 
                  credevano di avere e innamorandosi una dell'altro. C'è 
                  poi Ashraf Wissa, ricco cristiano copto di mezza età, 
                  che vive di rendita e sognava un tempo di diventare un grande 
                  attore; Ashraf è profondamente scontento della propria 
                  esistenza, solo l'hashish e il suo sarcasmo gli permettono di 
                  andare avanti, fino a che la rivolta irrompe nella sua routine, 
                  esattamente sotto il suo balcone. La vista dei primi giovani 
                  morti sotto i colpi dell'esercito lo sconvolge, scopre che fuori 
                  dal piccolo mondo in cui si era rintanato c'è una generazione 
                  che ha deciso di lottare per cambiare le cose anche a costo 
                  della vita, e insieme a Ikram, la domestica con cui aveva una 
                  relazione clandestina, ma che diventa sempre più una 
                  donna che ama e stima, una compagna, si unisce a quei ragazzi 
                  cambiando nel profondo.
 Sono corso verso il Nilo non ci porta solo tra le strade 
                  e nelle piazze del Cairo: questo romanzo è anche la storia 
                  di un regime che viene preso alla sprovvista da una ribellione 
                  che non si aspettava, un regime disposto a sacrificare il suo 
                  “uomo forte”, ma allo stesso tempo disposto a tutto 
                  purché l'Egitto non cambi davvero. Ed 'Ala al-Aswani 
                  ci accompagna dietro le quinte del potere, mostrandoci l'utilizzo 
                  della religione per manipolare gli individui, lo sporco lavoro 
                  dei servizi segreti del generale Ahmed 'Alwani e l'apparato 
                  di menzogne propagandate dai media attraverso figure come quella 
                  dell'abile presentatrice Nurhan, bugie diffuse con lo scopo 
                  di spingere il popolo a invocare la sicurezza e a dissociarsi 
                  dai ribelli. Ci racconta poi delle violenze di un esercito che 
                  uccide e tortura, senza che le vittime abbiano possibilità 
                  alcuna di ottenere giustizia in un'aula di tribunale, nemmeno 
                  dopo la caduta del dittatore, quando avevano creduto che si 
                  stesse finalmente delineando il mondo da loro immaginato. E 
                  ci ricorda infine che spesso il corpo delle donne è campo 
                  di battaglia, e quelle sono le pagine più dure da leggere. 
                  Complessa è la figura di 'Issam Sha'lan che in qualche 
                  modo rimane a cavallo tra queste due spinte contrapposte della 
                  società: comunista e ribelle in gioventù, non 
                  ha sopportato le torture e le umiliazioni inflittegli in carcere, 
                  e si ritrova da direttore di una fabbrica che sopprime gli scioperi 
                  degli operai, a osservare l'Egitto sollevarsi contro il suo 
                  governo, facendolo dubitare di quella certezza che si era dovuto 
                  costruire per scendere a compromessi con il potere, ovvero che 
                  gli egiziani non avrebbero mai potuto reagire, e che chiunque 
                  avesse voluto lottare, sarebbe stato lasciato solo.
 Con Sono corso verso il Nilo 'Ala al-Aswani ha lavorato 
                  partendo dalla propria esperienza in piazza Tahrir, dalle persone 
                  che ha incontrato e con cui ha discusso, per scrivere un romanzo 
                  e dare vita a personaggi che affrontano momenti realmente accaduti. 
                  Intrecciando realtà e finzione ci restituisce il quadro 
                  di un evento che è accaduto da poco, ma che è 
                  già storia. E con la consapevolezza che questo romanzo 
                  non restituisce del tutto la complessità degli eventi 
                  accaduti e della molteplicità delle forze in campo, che 
                  non è un saggio socio-politico ma narrativa, credo che 
                  possa aiutarci a comprendere qualcosa in più.
 Diana Galletta 
 
 Intorno al '68/Storia di utopia e speranze
 A distanza di 50 anni, il '68 è diventato materia di 
                  studio nelle scuole medie superiori e nelle Università. 
                  La puzza e la forza dirompente dei lacrimogeni, la violenza 
                  scagliata contro gli studenti e contro i lavoratori, in breve 
                  contro il binomio studenti-operai, la mobilitazione continua 
                  di quell'anno in particolare e del lungo decennio successivo, 
                  sono fatti che, per così dire, con il tempo si sono smaterializzati, 
                  fino a diventare oggetto di pensiero e di riflessione.
  Si 
                  è in presenza di fatti storicizzati, del tutto facenti 
                  parte della comune nostra percezione sociale. Il '68 è 
                  il termine di riferimento ormai diffuso concernente l'inizio 
                  di una nuova epoca storica del Paese, come del resto dappertutto. Scrittori, storici, professori, ricercatori ne hanno fatto materia 
                  di nostalgica rievocazione, argomento di corsi universitari, 
                  materia di ricerca degli e sugli snodi ed i meccanismi sociali 
                  e politici postsessantotteschi, che hanno consegnato il Paese, 
                  pur scosso, rinnovato e ribaltato dal '68, al prevalente, consistente 
                  e maggioritario blocco attuale di potere.
 Tutto ciò è pur assai lodevole in quanto conserva 
                  la memoria dell'inizio del rinnovamento strutturale e profondo 
                  della nostra società, ancorché rapidamente contrastato 
                  e recuperato dalle forze della conservazione e della reazione. 
                  Ma non sono molti i libri che restituiscono il clima del '68, 
                  i suoi temi, le sue profonde passioni di giustizia e uguaglianze 
                  e le autentiche idealità, la difficile elaborazione ideologica 
                  e politica che affrontarono gli anarchici dell'epoca, assediati 
                  dalla repressione spietata e a rischio di confondersi e disfarsi 
                  nelle varie traduzioni e versioni organizzative politiche del 
                  marxismo e del leninismo.
 Massimo Ortalli nella sua introduzione si dichiara convinto 
                  che la storia sia maestra di vita, come ne sono convinto anche 
                  io, e che quanto scritto da Massimo Varengo sia annoverabile 
                  fra “gli strumenti più idonei per capire il presente 
                  e prefigurare il futuro”. Già questo sarebbe sufficiente 
                  per suggerire la lettura del libro.
 Con il suo libro Intorno al '68. Utopie e autoritarismi nel 
                  decennio 1968-1977 (Zero in Condotta, Milano 2018, € 
                  7,00) in appena 96 pagine sobrie e sintetiche, Massimo Varengo 
                  ci riporta in pieno a ciò che è stato il '68. 
                  Gli anni raccontati sono stati anni pesantissimi, ma pieni di 
                  speranze e sotto certi aspetti, a guardare la scena attuale, 
                  pieni di generose illusioni.
 Il libro tenta, e in gran parte vi riesce, di dare un senso 
                  anarchico a quello che è successo. È articolato 
                  per chiare e lineari descrizioni e talvolta interpretazioni 
                  dei diversi eventi che si sono succeduti. Dal prologo costituito 
                  dalla ribellione cosiddetta giovanile alla società patriarcale 
                  e autoritaria, al vero e proprio '68, allo stragismo e alle 
                  vittime della strategia della tensione, prevalentemente anarchici, 
                  ma non solo, per giungere al movimento del '77 e alla violenza 
                  rivoluzionaria.
 La bella introduzione di Massimo Ortalli ci riporta l'eco di 
                  quegli anni e introduce il concetto come la fughe in avanti 
                  di alcuni settori del movimento “divennero il cavallo 
                  di troia con il quale fu possibile scardinare e scompaginare 
                  un intero movimento”. Un concetto che viene sviluppato 
                  dall'autore nel capitolo “Appunti sul movimento anarchico 
                  dal '68 al '77”. Appunti particolarmente importanti perché 
                  nelle pagine dedicate alla progressiva rinascita e sdoganamento 
                  sociale e politico del movimento anarchico, che pure è 
                  stato uno dei principali movimenti politici del nostro Paese 
                  fino all'avvento del fascismo, sono descritti in modo preciso 
                  i passaggi complicati attraverso i quali il movimento ha di 
                  nuovo incontrato e di nuovo fatto proprio, senza però 
                  mai averlo dimenticato, il pensiero del maestro Malatesta.
 Enrico Calandri 
 
 Rudolf Rocker/Per un pensiero organico della trasformazione sociale
 Contro la corrente (Milano 2018, pp. 208, € 15,00) 
                  è il titolo della raccolta di saggi di Rudolf Rocker 
                  recentemente pubblicata da Eleuthera e curata da David Bernardini 
                  e Devis Colombo. “Contro la corrente” è forse 
                  la definizione che più caratterizza l'identità 
                  storica del movimento anarchico, come scrive lo stesso Rocker, 
                  “malgrado tutto e tutti!”; ma “contro la corrente” 
                  è soprattutto la cifra biografica di Rudolf Rocker, figura 
                  di riferimento del movimento anarchico internazionale fino alla 
                  metà del secolo scorso. Se dovessimo raccontare la storia 
                  della pratica internazionalista degli anarchici ci basterebbe 
                  ripercorrere le gesta del sindacalista tedesco per addentrarci 
                  in una storia dal sapore mitico, ma dai tratti reali. Chi volesse 
                  accingersi in tale avventura potrebbe farlo tuffandosi nelle 
                  centinaia di pagine che l'anarchico tedesco ha donato ai posteri 
                  e che Andrea Chersi ha reso disponibili in italiano.Bernardini e Colombo regalano al pubblico italiano una raccolta 
                  curata con intelligenza, che valorizza la profondità 
                  della riflessione di Rudolf Rocker. Una riflessione di spessore, 
                  mai accademica, superficiale o, peggio, consolatoria. I saggi 
                  si snodano in un arco temporale che attraversa tutta la guerra 
                  civile europea, dal 1919 al 1953. Ma nonostante la loro età, 
                  leggendoli se ne può ammirare la freschezza. Ed è 
                  qui l'assoluta necessità di scoprire e approfondire la 
                  storia e il pensiero di Rocker, rimasto per troppo tempo nell'ombra, 
                  soprattutto nel contesto italiano in cui lo studio della storia 
                  anarchica non eccelle tra gli argomenti dell'accademia.
 
  L'inverno 
                  politico che stiamo affrontando è ancora una farsa, seppur 
                  concretamente vera, rispetto al nazifascismo e allo stalinismo 
                  con cui si confrontò Rocker. Siamo ancora ad uno stadio 
                  democraticamente autoritario, e non propriamente fascista. Eppure 
                  l'analisi sviluppata nelle pagine di questi contributi ci parla 
                  con molta franchezza. Sono tre i temi su cui Rocker più 
                  si spende: l'analisi della scure totalitaria; l'autocritica 
                  per il movimento anarchico; il metodo d'intervento di una politica 
                  trasformatrice. Andando in ordine, Rocker leggeva nella dittatura “un'idea 
                  di per sé controrivoluzionaria”, pertanto volgeva 
                  la sua critica tanto ai regimi fascisti quanto al blocco sovietico, 
                  in cui individuava una matrice comune. Raccogliendo questi scritti, 
                  Bernardini e Colombo riportano al centro dell'attenzione le 
                  riflessioni anarchiche sul totalitarismo, la tara della loro 
                  importanza nel processo storico della contemporaneità. 
                  Rocker si inserisce in quella famiglia anarchica che nell'equidistanza 
                  tra regimi fascisti, egemonia bolscevica e democrazie borghesi 
                  ha costituito la propria specificità.
 In questi scritti Rocker citava a ripetizione Lenin quando affermava 
                  che “la libertà non è altro che un pregiudizio 
                  borghese”. Per lui non era praticabile una società 
                  migliore nelle torbide maglie di una visione escludente delle 
                  libertà personali poiché “ogni scopo si 
                  impersonifica nei suoi mezzi”. In queste parole sentiamo 
                  echeggiare quelle affinità elettive che hanno spesso 
                  unito, nella temperie fra le due guerre, liberal-socialisti 
                  e anarchici; di chi ritenne discriminante per la propria prassi 
                  politica legare immaginario futuro e coerente pratica quotidiana.
 Ma se si fosse limitato a questo, Rocker sarebbe risultato interessante, 
                  ma non illuminante, come a tratti invece appare. A tessere le 
                  fila delle riflessioni dell'anarchico è una costante 
                  verve auto-critica indirizzata alla propria area di appartenenza. 
                  Non è un caso che il secondo articolo di questa raccolta 
                  si apra con la denuncia della crisi del movimento anarchico. 
                  Una crisi che nel 1927, anno di pubblicazione dello scritto 
                  in questione, era palese su entrambe le sponde dell'atlantico.
 Meno evidente erano le tracce di cosa rappresentasse quella 
                  crisi, da cosa fosse data, come quindi era necessario intervenire 
                  per invertirne la rotta. In questo Rocker è diretto, 
                  non naviga a vista in analisi consolatorie sull'avanzata fascista: 
                  “noi siamo diventati troppo dottrinari e pensiamo a molte 
                  più cose più con la mentalità dei nostri 
                  predecessori che con la nostra”. È la stessa impostazione 
                  che lo caratterizzerà più di vent'anni dopo, quando 
                  nel 1953 denuncerà la “stagnazione mentale” 
                  che conduce a dimenticare “che anche il tempo scorre e 
                  con lui tutti i mezzi che sono nati dal suo grembo”.
 Le considerazioni del vecchio anarchico erano indirizzate su 
                  molteplici direttrici, per quanto riguarda i suoi compagni, 
                  la critica si assestava sul fatuo rivoluzionarismo intransigente, 
                  incapace di leggere la rilevanza delle piccole riforme nel processo 
                  rivoluzionario (senza necessariamente accomodarsi sul riformismo 
                  politico); sia nei limiti di una visione economicista che vedeva 
                  nella lotta economica “un fine in sé”.
 Non è questo il luogo per approfondire i temi citati, 
                  che pure Rocker affronta con mirabile chiarezza e capacità 
                  di sintesi. Per chiudere è necessario spendere qualche 
                  parola sul passaggio che dalla critica dell'economicismo ci 
                  porta all'ultimo punto che credo possa sintetizzare la sua visione: 
                  la necessità di uno “sviluppo organico nella trasformazione 
                  sociale”. Rocker immaginava e costruiva delle linee per 
                  una pratica rivoluzionaria che fosse al tempo stesso liberatrice 
                  e libertaria.
 Sfogliando le pagine di questa pubblicazione, andando avanti 
                  e indietro tra gli articoli, i tre temi che qui ho brevemente 
                  sintetizzato si intrecciano, si parlano a vicenda, se a tratti 
                  uno sembra più rilevante, subito dopo torna a confrontarsi 
                  con una visione complessiva della politica. Una visione organica, 
                  appunto, che parte dalla riappropriazione del socialismo come 
                  “in ultima istanza una questione culturale”. L'attenzione 
                  di Rocker andava all'”universo mentale” su cui intervenire, 
                  all'idea, come scrivono bene in introduzione Colombo e Bernardini 
                  che “una premessa fondamentale per la messa in atto del 
                  socialismo fosse la più larga diffusione e comprensione 
                  possibile dei suoi presupposti culturali”.
 A chiudere il volume sono due saggi. Il primo del traduttore 
                  Nino Muzzi e il secondo del curatore David Bernardini. Mentre 
                  il primo offre riferimenti sul linguaggio del nostro, il saggio 
                  di Bernardini bene inquadra la vicenda storiografica dell'anarchico, 
                  la sua biografia e la necessità di approfondirne lo studio. 
                  Speriamo sia solo la prima tappa di un percorso proficuo.
 Oreste Veronesi 
 
 Malamente/Una rivista di lotta e critica del territorio
 Alla redazione di Malamente abbiamo chiesto una presentazione della rivista. Eccola.   
   “malamente 
                  vanno le cose, in provincia e nelle metropoli malamente si dice che andranno domani
 malamente si sparla e malamente si ama
 malamente ci brucia il cuore per le ingiustizie e la rassegnazione
 malamente si lotta e si torna spesso conciati
 malamente ma si continua ad andare avanti
 malamente vorremmo vedere girare il vento
 malamente colpire nel segno
 malamente è un avverbio resistente
 per chi lo sa apprezzare.”
 Tutto va malamente, si direbbe in questi tempi, ma a ben guardare 
                  non sempre le cose vanno male per noi, a volte una lotta riesce 
                  a colpire malamente, ad aprire crepe nei muri e nelle catene 
                  che tengono imprigionate le vite e i desideri di chi è 
                  oppresso e sfruttato. L'incertezza e la crisi di questi tempi 
                  sono anche possibilità che si aprono, vecchie certezze 
                  che crollano.
 Malamente è una rivista completamente autoprodotta 
                  e autofinanziata, che esce ogni tre o quattro mesi. È 
                  nata nella primavera del 2015 per ospitare spunti di approfondimento 
                  e riflessione collettivi, per una condivisione dei saperi e 
                  delle pratiche di critica sociale, per aprire prospettive concrete 
                  di liberazione. È un cantiere aperto di sperimentazione 
                  culturale e politica sul territorio delle Marche, tra l'Appennino 
                  e la costa, ma non rispetta nessuna frontiera anche perché 
                  pensiamo che le lotte sociali possano e debbano costruire le 
                  proprie nuove geografie.
 Siamo consapevoli che una lettura realmente efficace dell'esistente 
                  non può essere calata dall'alto al basso come criterio 
                  di descrizione ideologica, perciò percorriamo il percorso 
                  opposto e a partire da ogni ambito del quotidiano in cui sperimentare 
                  una trasformazione rivoluzionaria ci spingiamo a osservare, 
                  ascoltare, dialogare con gli individui e le collettività 
                  e con le loro – e nostre – contraddizioni. Quanto 
                  più lontani dal replicare l'ennesimo spazio identitario 
                  legato a una sub-cultura rivolta su se stessa, vogliamo calarci 
                  nelle lotte sociali presenti sul territorio per individuarne 
                  le connessioni, trarne gli opportuni stimoli e tentare il contrattacco 
                  rifiutando l'arte di scegliere il male minore.
 Il timone della rivista è rivolto a proporre uno sguardo 
                  sul presente che abbia a cuore la libertà. Orientato, 
                  quindi, alla necessaria critica sociale, dal momento che quello 
                  che non manca, anche qui nella periferica provincia marchigiana, 
                  sono le buone ragioni per opporci a un'organizzazione sociale 
                  che mostra sempre più, se ancor ce ne fosse bisogno, 
                  la propria insensatezza prima ancora che insostenibilità. 
                  Sotto traccia, vi è il desiderio di rompere l'accerchiamento 
                  del progresso a tutti i costi e della mercificazione dell'esistente, 
                  per recuperare le capacità di saper agire nel mondo.
 “Malamente” esce in formato cartaceo: scelta dettata 
                  dalla volontà di riappropriarci di un mezzo di comunicazione 
                  stabile e che induce alla lettura piana e riflessiva. Riteniamo 
                  infatti che troppo spesso molti contenuti vengano oggi veicolati 
                  esclusivamente online e finiscano per perdersi dentro il frettoloso 
                  consumo quotidiano della rete. Nell'ottica della libera circolazione 
                  dei saperi, tutti gli arretrati sono disponibili gratuitamente 
                  in pdf sul sito della rivista. Benché consapevoli dei 
                  limiti e dei danni dei social network, abbiamo comunque profili 
                  facebook, mastodon e twitter con cui stiamo costruendo una rete 
                  di relazioni e contatti. Soprattutto, auspichiamo di trovare 
                  nuovi complici lungo la strada.
 Nell'ultimo numero (#14, maggio 2019) trovate allegate sette 
                  cartoline “d'autore/autrice”, disegnate da Aladin, 
                  Marco Bailone, Emma Bignami, Blu, Samuele Canestrari, Prenzy 
                  e Zerocalcare. Si tratta di un'iniziativa di solidarietà 
                  – promossa in collaborazione con le riviste Nunatak e 
                  NurKuntra – in sostegno di alcuni anarchici e anarchiche 
                  recentemente arrestati tra Torino e Trento perché amano 
                  (parecchio!) la libertà e per difendere quella di tutti/e 
                  noi che siamo fuori ma comunque prigionieri di un presente autoritario 
                  e becero che deve finire.
 Siamo sempre in cerca di proposte e collaborazioni. Contattateci 
                  e scrivete per Malamente!
 Se volete leggere o scaricare gli arretrati, li trovate qui: 
                  https://malamente.info/numeri-usciti
 
 Malamente. Rivista di lotta e critica del territorio
 1 numero: 3 euro.
 Distributori (da 3 copie): 2 euro.
 Abbonamento (sostenitore), 4 numeri: 15 euro.
 www.malamente.info
 malamente@autistici.org
 fb: www.facebook.com/malamente.red
 la redazione di Malamente 
 
 Orientalismo/Ripubblicato un librone degli anni '30
 Qualcuno fra i nostri lettori ricorderà l'intenso e 
                  vivace dibattito sviluppatosi un paio d'anni fa su queste pagine 
                  (“A” 416 
                  e 417, rispettivamente 
                  maggio e giugno 2017) intorno al tema, in verità poco 
                  frequentato, dell'orientalismo.Quella interessante discussione tra studiosi, operanti peraltro in contesti ambientali (Inghilterra, Spagna, Italia, Egitto) assai diversificati, sia dal punto di vista culturale che accademico e politico, si concludeva con l'auspicio di proseguire il confronto in ambito internazionale e di approfondire con particolare attenzione ed impegno proprio quelle ricerche di settore dedicate agli anarchici, “visti ogni volta sotto qualche prisma particolarmente contraddittorio”, come appunto l'orientalismo. Con il termine orientalismo – tanto per precisare – si intende quella rappresentazione stereotipata delle culture e degli ambienti orientali fatta in genere da scrittori e artisti occidentali.
 In tal senso questo nuovo libro di memorie (Romolo Garbati, Mon aventure dans l'Afrique civilisée, édition notes et dossier Paul-André Claudel, Alexandrie (Égypte), Centre d'Études Alexandrines 2018, pp. 330, € 20,00), terza uscita della Collection Littérature Alexandrine, scritto in francese e pubblicato ad Alessandria d'Egitto nel 1933, oggi riedito e arricchito di note, dossier e vari apparati utili alla lettura, costituisce una possibile fonte primaria e di verifica diretta sul tema.
 Romolo Garbati (1873-1942) anarchico sardo, tipografo, impegnato fin da giovane nella militanza, costretto nel 1902 a lasciare l'Italia per sfuggire alle prigioni e alle persecuzioni, approda in Tunisia e in Algeria prima di stabilirsi al Cairo e ad Alessandria. È uno dei tanti dimenticati che composero la numerosa e multiforme diaspora libertaria nel XX secolo. Svolge un'intensa attività pubblicistica sulla stampa di movimento e intraprende poi la carriera giornalistica, diventando direttore de «Il Messaggero Egiziano», il principale quotidiano italiano nell'area del Vicino oriente, attenuando col tempo – così diranno almeno le carte di polizia – la sua originaria fede anarchica.
 Il titolo del volume non inganni. Il riferimento a “l'Afrique civilisée” è volutamente ironico; perché all'epoca – e, si deve dire, ciò è stato per lungo tempo – quasi tutta la letteratura sull'argomento si imperniava su argomentazioni stucchevoli e stereotipate, richiamando il fascino dell'avventura in un continente selvaggio, soddisfacendo insomma quel classico “bisogno” di esotismo coloniale così in voga nelle società dell'occidente progredito. Al contrario l'autore ci propone il racconto autobiografico di un significativo e singolare viaggio, effettuato in epoca primonovecentesca, nelle grandi città nordafricane (Algeri, Tunisi, Il Cairo, Alessandria), dove sussistono, insieme ad una borghesia cosmopolita e occidentalizzata, formata in larga parte da rifugiati ed emigrati, luoghi di immensa tribolazione e miseria. Diario di un esule e “viaggio di un passeggero di terza classe” (secondo la definizione dello stesso autore) e “odissea senza ritorno”, lo scritto ci fornisce un efficace spaccato sociale di quel mondo caratterizzato da grandi separatezze e contraddizioni; e ci dà anche spunti per meglio comprendere gli orizzonti mentali che pervadono quelle comunità di sradicati e le loro rarefatte connessioni con l'ambiente umano circostante.
 Dal racconto emerge una perfetta istantanea su quel milieu fatto di emarginati, avventurieri, sovversivi e rivoluzionari sognatori, ma ci appare anche “la migliore foto di gruppo” sulla stampa eurofona allora presente sull'altra sponda del Mediterraneo.
 All'editing raffinato di questa pubblicazione si affianca una ricca appendice, curata da Paul-André Claudel, con bibliografia e una biografia: Ritratto di un giornalista e libero pensatore, Romolo Garbati negli archivi del Casellario politico centrale. Davvero pregevoli le foto a corredo.
 Nel momento in cui usciva la prima edizione di questo volume – scrive il prefatore Daniel Lançon – un altro sardo, Antonio Gramsci, terminava i suoi Quaderni del Carcere, richiamando così i concetti di “subalternità” su cui poi poggeranno la storia sociale e della quotidianità, le storie di vita in auge qualche decennio più tardi. Da tale punto di vista il libro, “nouvelle micro-histoire de l'anarchisme”, si inserisce a pieno in questa tipologia di studi.
 Giorgio Sacchetti 
 
 Autoritarismo, metodi, libertà/L'attualità della rivoluzione russa
 Il libro curato da Antonio Senta (Gli anarchici e la rivoluzione 
                  russa (1917-1922), Mimesis, Sesto San Giovanni 2019, pp.168 
                  € 14,00) raccoglie gli atti di un seminario promosso dall'Archivio 
                  Famiglia Berneri – Aurelio Chessa e dalla Biblioteca Panizzi 
                  di Reggio Emilia tenutosi l'1-2 dicembre 2017.
  In 
                  ogni intervento emerge un'accurata documentazione, a riprova 
                  della competenza espositiva degli autori e di un dibattito più 
                  che mai attuale su un tema che, dopo anni di stasi, rinnova 
                  l'interesse storiografico grazie a documenti non più 
                  segretati dagli archivi sovietici. Fra le riflessioni, che l'eco 
                  del centenario del '17 ha suscitato, vi sono molti aspetti della 
                  critica che il movimento anarchico, pur nella sua complessità, 
                  elaborò già in prossimità di questi eventi, 
                  anticipando analisi e alternative. Ne è esempio la proposta 
                  autogestionaria (libera sperimentazione nel linguaggio di E. 
                  Goldman) nel suo profilo di compatibilità con il processo 
                  rivoluzionario: non la mera accettazione di un'aleatoria futura 
                  emancipazione subordinata a un autoritarismo “temporaneo”, 
                  ma la ricerca di una coerenza fra mezzi e fini su criteri di 
                  libertà. È Alexander Shubin a delineare l'excursus delle diverse 
                  fasi della rivoluzione, intesa come “l'ariete che elimina 
                  gli ostacoli allo sviluppo sociale”, sottolineandone gli 
                  aspetti meno scontati o tralasciati dalla divulgazione.
 Marcello Flores s'addentra nel diversificato coinvolgimento 
                  anarchico degli eventi fino all'insorgere dei contrasti alla 
                  svolta autoritaria. “Le critiche circostanziate e articolate 
                  (...) si accompagnarono a tentativi pratici di organizzazione 
                  sociale” che a distanza di anni suggeriscono “interpretazioni 
                  significative”: alle “speranze di emancipazione 
                  sociale” si sostituì “una serie di delusioni, 
                  di smentite, di disillusioni e di sconfitte”.
 Giuseppe Aiello, con un'esposizione accattivante ma rigorosa, 
                  si concentra sui “forti connotati da democrazia diretta” 
                  che fecero di Kronstadt un teatro favorevole alla “realizzazione 
                  di una nuova società basata su rappresentanze di lavoratori”. 
                  Un'esperienza sulla quale incombe una “graduale repressione” 
                  fino alla mancata terza rivoluzione e al “definitivo passaggio 
                  al terrore rosso come strumento di attuazione del dominio”.
 Mikhail Tsovma s'inoltra in “uno degli esperimenti sociali 
                  più significativi della rivoluzione russa”: la 
                  riforma agraria attuata dal movimento machnovista. La “brutale 
                  repressione dei bolscevichi” continuerà nella denigratoria 
                  propaganda di regime che soltanto negli ultimi tre decenni ha 
                  potuto essere dipanata a vantaggio di una conoscenza più 
                  completa.
 All'unica voce femminile il compito di ricostruire gli ultimi 
                  anni di P. Kropotkin, quando torna in Russia dedicandosi all'impegno 
                  sociale e agli ultimi scritti. Selva Varengo racconta della 
                  grande accoglienza ricevuta dopo l'esilio e delle difficoltà 
                  affrontate in un contesto nel quale “i mezzi dittatoriali 
                  adottati dai bolscevichi” si svelano via via più 
                  cruenti. L'esposizione dell'autrice è ancor più 
                  coinvolgente nel passaggio sui funerali: il “lungo corteo 
                  di migliaia di persone, non autorizzato” passò 
                  dalla “prigione di Butyrka dove i detenuti scuotono le 
                  sbarre delle celle intonando canti anarchici”.
 Pietro Adamo analizza l'evoluzione del pensiero di E. Goldman 
                  e A. Berkman rispetto agli eventi rivoluzionari: i tentativi 
                  di ricomporre un'idealità di supporto all'emancipazione 
                  sociale in un clima di incertezza ricostruito attraverso i reciproci 
                  scritti più noti e un fitto epistolario meno conosciuto. 
                  Emerge una “prospettiva interpretativa (...) differente: 
                  più decisa, aspra, convinta, Goldman, più dubbioso, 
                  possibilista, persino più conciliativo, Berkman”. 
                  Su quest'ultimo si sofferma Roberto Carocci descrivendo come 
                  da un “atteggiamento non pregiudiziale” segnato 
                  da “forti aspettative” giungerà dopo due 
                  anni a “un giudizio radicalmente opposto”, quando 
                  il pretesto della minaccia controrivoluzionaria non è 
                  più in grado di mascherare il vero volto del nuovo potere. 
                  Non a caso le analisi successive di Berkman si focalizzano sulla 
                  dicotomia rivoluzione sociale/rivoluzione politica e sull'assunto 
                  della coerenza fra mezzi e fini.
 “L'irruzione delle donne nella rivoluzione russa andrà 
                  di pari passo con un radicale cambiamento politico, sociale, 
                  culturale (...) spinte da un identico ideale: sovvertire il 
                  potere costituito, anche a costo di mettere in gioco la propria 
                  vita”. Così Lorenzo Pezzica con i suoi ritratti 
                  di donne capaci “di resistere, di opporsi, di protestare, 
                  di ribellarsi, di pensare altrimenti, che è già 
                  un essere contro”. La deriva autoritaria farà di 
                  loro delle “emarginate, perseguitate, arrestate”, 
                  destinate a carceri, manicomi, gulag o “relegate all'oblio 
                  della storia, al silenzio assordante della memoria rimossa”.
 L'approfondimento di Antonio Senta, supportato da una meticolosa 
                  ricerca sui periodici dell'epoca, è dedicato alle valutazioni, 
                  espresse dal movimento anarchico italiano, soffermandosi sul 
                  pensiero di Malatesta, Fabbri, Berneri, Galleani e Fedeli. Prese 
                  di posizione non uniformi, a volte contrastanti, che segnano 
                  il dibattito militante nella dolorosa evoluzione che vede gli 
                  anarchici tra “i più accesi fautori” per 
                  divenire “critici severi quando si delinea nella sua crudezza 
                  il monopolio del governo bolscevico”.
 David Bernardini sposta lo sguardo su quella “rete di 
                  mutuo appoggio transnazionale che permise al movimento anarchico 
                  di sopravvivere”: a Berlino fra il '19 e il '26 la militanza 
                  s'intreccia in un “network solidale e orizzontale (...) 
                  in sostegno ai profughi russi”. R. Rocker diviene il fulcro 
                  di quella opposizione al bolscevismo individuata nell'Internazionale 
                  anarcosindacalista che si intreccia al supporto di esigenze 
                  esistenziali primarie.
 “Scopo di questo breve saggio è presentare (...) 
                  libri e opuscoli pubblicati dal movimento anarchico di lingua 
                  italiana sulla Russia in generale e, in particolare, sulla rivoluzione 
                  d'ottobre e sul regime sovietico”, così Massimo 
                  Ortalli spiega il suo contributo aggiornandolo alle ultime novità 
                  editoriali che, nella continuità della ricerca, rendono 
                  giustizia a pensieri “rimossi, se non denigrati dalla 
                  storiografia ufficiale” ma anticipatori di un'analisi 
                  critica ora oggetto di studi meno elitari.
 Chiara Gazzola 
 
 Barbagia e cinema/60 anni dopo “Banditi a Orgosolo”
 Sessanta anni fa, nel 1959, il regista palermitano Vittorio 
                  De Seta (1923-2011), ancora giovane e già autore di interessanti 
                  documentari sulla difficile realtà dei contadini e dei 
                  pescatori siciliani, si reca in Sardegna, ad Orgosolo, per girare 
                  il suo primo lungometraggio, che avrà per soggetto i 
                  banditi che con le loro gesta hanno reso “famosa” 
                  l'interna e arcaica cittadina sarda. In due anni di vita vissuta 
                  tra la gente del luogo, che è fatta essenzialmente da 
                  pastori, De Seta dà seguito alla sua idea di film, che 
                  appunto vuole raccontare l'universo dei pastori sardi, ai quali 
                  spesso non resta altro modo, per sopravvivere, che diventare 
                  banditi.
  Nel 
                  '61, infatti, a Venezia, al Festival del Cinema, viene proiettato 
                  il suo film Banditi a Orgosolo, che racconta la storia 
                  del pastore Michele Jossu, che creduto erroneamente colpevole 
                  di aver ucciso un carabiniere, scappa per sfuggire all'arresto, 
                  perdendo, nella sua disperata fuga, il suo gregge di pecore: 
                  quindi, in sostanza tutti i suoi averi, e il suo status 
                  di pastore; vedendosi così costretto – per habitus 
                  e animus fatalista e ligio ai ferrei e vetusti codici 
                  comportamentali della sua tradizione - a rubare il gregge ad 
                  un altro pastore e diventando così, per caso e per necessità, 
                  bandito. Sul film di De Seta, che fece epoca e che contribuì a 
                  capire meglio la questione del banditismo in Sardegna e le sue 
                  cause, storiche-ancestrali - che risalivano a secoli di isolamento 
                  e sfruttamento della Barbagia e dell'area del Supramonte, dove 
                  risiede Orgosolo, e di condanna ad una vita di stenti e miseria 
                  dei suoi pastori - è stato appena pubblicato un bel volume 
                  di Antioco Floris che prende il titolo dal film, Banditi 
                  a Orgosolo (Rubbettino, Palermo 2019, pp. 264, € 18,00).
 Il corposo studio di Floris indaga compiutamente le ragioni 
                  che hanno indotto De Seta ad interessarsi dei pastori barbaricini, 
                  in linea con la sua attività di cineasta di segno neorealista, 
                  attento a documentare e a leggere criticamente la società 
                  e la storia del suo tempo, in specie quella del meridione d'Italia; 
                  offre un'ampia disamina della critica cinematografica sul film, 
                  che ne seguì, con lodi che arrivarono anche da Martin 
                  Scorsese, i successi internazionali e ne segnalò il rivoluzionario 
                  modo di leggere il banditismo sardo come risposta ineluttabile 
                  alle offese costanti e feroci dello Stato, assente e predatore, 
                  nei riguardi del mondo antico e povero della Barbagia. Inoltre, 
                  il volume, raccoglie alcuni scritti, notevoli e illuminanti, 
                  di De Seta; i materiali di lavoro (appunti del regista, sceneggiatura), 
                  una selezione delle foto di scena e di fotogrammi del film e 
                  soprattutto presenta acute analisi sulla ricezione, nel tempo, 
                  del film in Sardegna e a Orgosolo, dove è considerato 
                  parte integrante e iconica della propria identità storico-culturale. 
                  L'operazione di Floris, di recupero della storia del film di 
                  De Seta, peraltro pensata dall'autore del libro assieme allo 
                  stesso regista già nel 2011, quando quest'ultimo era 
                  ancora in vita, ha, in più, un senso e un motivo importante, 
                  di stimolo a una riflessione sull'attualità della Sardegna, 
                  come sottolinea in un passaggio del suo saggio, lo stesso Floris:
 “Il film è una metafora dei rapporti tra individui 
                  ed istituzioni. La sostanza del conflitto che contrappone Michele 
                  ai Carabinieri, non è molto diversa da quella che caratterizza 
                  il conflitto tra le istituzioni alte (Stato, Regione, Unione 
                  Europea) e la gente comune. L'inadeguatezza delle istituzioni 
                  nel dare risposte ai bisogni del territorio è ciò 
                  che costringe l'individuo a trovare da sé soluzioni in 
                  cui il problema della legalità (dello Stato) è 
                  del tutto secondario. La crisi economica riconduce a modelli 
                  che hanno molti elementi in comune con l'universo narrato da 
                  De Seta, certamente la società è cambiata ed è 
                  cresciuta, ma basta fare un'escursione sul Supramonte per averne 
                  conferma. Il territorio è sempre più abbandonato 
                  a se stesso, le pecore sono state sostituite dai bovini che, 
                  per il semplice fatto di esistere, danno diritto ad un contributo 
                  comunitario. Non è pertanto necessario curarli e così 
                  capita di vederli decrepiti o già cadaveri abbandonati 
                  ai lati delle strade come le pecore di Michele Jossu. A questo 
                  punto il film che è stato in grado di cogliere e rappresentare 
                  un carattere proprio della realtà orgolese, può 
                  valere ancora come lezione per interpretare il presente”.
 Silvestro Livolsi |