lavoro
Salario minimo orario e lotta di classe
di Cristiano Valente
Le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori sono sempre più difficili. Un militante della Federazione dei Comunisti Anarchici analizza i dati sociali e la proposta di legge all'esame del Parlamento. Ne esce un quadro drammatico.
Le ultime statistiche relative alla condizione salariale complessiva della forza lavoro in Italia testimoniano una presenza di lavoratori al di sotto dei minimi contrattuali all'incirca del 10% del totale della forza lavoro. A questa cifra va sommata quella delle lavoratrici e dei lavoratori che, pur facendo riferimento ad un contratto nazionale siglato fra le parti, sono inquadrate e inquadrati in contratti cosiddetti “pirata”, stipulati dalle diverse associazioni datoriali con sindacati di comodo, gialli o corporativi.
In una recente indagine i contratti collettivi nazionali sottoscritti in Italia sono passati da 498 a 864.
Per chi lavora in ristoranti, alberghi, agenzie viaggi e affini i contratti specifici sono 42, più 14 contratti generici allargati anche a chi lavora nel turismo.
Nel commercio i contratti sono più che raddoppiati: erano 91 nel 2010; sono diventati 214 nel 2018. Si contano 18 tipi di contratti per il settore agenti, 11 per le imprese di vigilanza, 26 per gli studi professionali. In agricoltura sono passati da 18 a 52, nell'industria meccanica da 11 a 31, fino al caso di Fiat che, uscita dall'associazione Federmeccanica e quindi da Confindustria, ha siglato un suo contratto con i rappresentanti delle lavoratrici e dei lavoratori. È uno dei 31 archiviati al Cnel sotto la voce meccanica.
Questi contratti nazionali di settore possono avere voci salariali inferiori anche del 20%, con un differenziale retributivo annuo che può variare da € 2.000 a € 3.500. Questo significa che la differenza salariale tra chi compie lo stesso lavoro può variare da due a tre mensilità l'anno.
Esistono poi ambiti lavorativi dove il datore di lavoro obbliga le lavoratrici e i lavoratori a contratti part time non volontari (ciò avviene particolarmente nella grande distribuzione e nei settori alberghieri e turistici) o modalità di contrattazione a tempo determinato.
Sommando tutti questi lavoratori si supera la soglia dei 5 milioni sui 23 milioni circa del totale della forza lavoro dipendente; si tratta del 20%.
Siamo di fronte a milioni di lavoratori che vivono al di sotto di quella che viene definita la soglia minima di sussistenza, in contraddizione a quanto previsto dall'art. 36 della nostra Costituzione, a conferma vieppiù di quanto la pura norma cartacea sia inutile e di fatto inapplicata a fronte dei reali rapporti di forza esistenti fra le classi.
Tutte queste lavoratrici e questi lavoratori vengono indicati nella letteratura economica politica e sindacale come working poor, cioè poveri nonostante il lavoro. Per questo la discussione sulla proposta di un salario minimo orario assume un importante significato politico.
Attualmente la discussione verte su un disegno di legge presentato dal Movimento 5 Stelle, dalle diverse posizioni di attori istituzionali quali Istat, Inps, Cnel, organizzazioni sindacali e le associazioni e organizzazioni padronali, Confindustria in testa.
Quest'ultima, fortemente contraria alla misura del salario minimo
orario, nei suoi documenti afferma: “nel nostro Paese,
la mancata adozione di un salario minimo legale è da
mettere in correlazione proprio alla diffusione della contrattazione
collettiva (cioè dai rapporti di forza esistenti fra
padronato e movimento operaio) (...) È del tutto evidente
come una scelta di tal genere ben potrebbe ingenerare nelle
imprese la tentazione di “sciogliersi” dal complesso
di obblighi che derivano dal rispetto dei contratti collettivi,
a favore di una regolamentazione unilaterale del rapporto di
lavoro che troverebbe, però, nel rispetto del salario
minimo la sua tutela fondamentale. Si tratta del cosiddetto
fenomeno della fuga dal contratto collettivo che si sta registrando,
già da tempo, in vari paesi europei che hanno adottato
il sistema del salario minimo legale”.1
Rapporti di forza
Fra le ulteriori criticità individuate dal fronte padronale
vi è inoltre la constatazione che la soglia minima di
9 euro lordi determinerebbe una minore disponibilità
per trattamenti retributivi aggiuntivi, quali premi di produzione
e welfare aziendale; quelle quote di salario accessorio che
colpevolmente le organizzazioni sindacali hanno favorito, contribuendo
alla maggiore divisione e frantumazione del movimento dei lavoratori
e delle lavoratrici.
La chiarezza delle posizioni padronali è al pari della
loro tracotanza. Per l'organizzazione padronale è fin
troppo evidente che al di là della definizione legale
di una qualsiasi cifra del salario minimo orario, la realtà
dei salari reali non sarà data dalla norma cartacea,
ma dai rapporti di forza esistenti fra le classi. Quindi un
salario minimo orario legale non solo non rappresenterebbe un
effettivo argine alla diffusione di salari al di sotto della
soglia eventualmente stabilita, ma là dove questa scelta
diventasse reale, il primo aspetto a essere messo in discussione
e a franare sarebbe proprio la contrattazione nazionale.
Le organizzazioni sindacali, Cgil, Cisl e Uil, a loro volta
evidenziano come la sola definizione di un salario minimo legale
orario ben difficilmente riuscirebbe a garantire quel trattamento
economico complessivo che la contrattazione collettiva ha ormai
sancito in ogni comparto lavorativo, così come le tutele
normative da essa garantite. Le attuali retribuzioni non sono
costituite meramente dai minimi orari, ma sono composte da più
voci retributive (13a e in alcuni casi 14a
mensilità, dinamiche retributive dei livelli di inquadramento,
maggiorazioni per prestazioni orarie o di altro tipo, ferie,
indennità, EDR e altri voci e premi retributivi settoriali
di carattere nazionale) e da ulteriori tutele che risultano
essere sostanziali e fondamentali per un dignitoso rapporto
di lavoro (riduzioni di orario contrattuali, tutele per malattia,
maternità, infortuni superiori a quelle di legge, erogazione
di un welfare previdenziale e sanitario diffuso e significativo).
In sintesi, l'effettiva retribuzione oraria di un lavoratore
coperto da Ccnl è ben superiore al semplice minimo tabellare.
I working poor, fenomeno reso strutturale dalla presenza
di masse giovanili disoccupate che, insieme alla forza lavoro
immigrata, formano il classico esercito industriale di riserva
con l'altrettanta classica funzione di abbassare i salari; paghe
orarie ben al di sotto del costo minimo orario calcolato nelle
imprese industriali (7,5 euro lordi), in particolare nei settori
lavorativi con meno valore aggiunto (lavoro domestico, agricolo,
grande distribuzione, settori dei servizi all'imprese o alle
persone); tutto ciò si deve all'assenza di una reale
contrattazione generalizzata sul salario oltre che sull'occupazione
che ha contribuito alla divisione e frantumazione del movimento
dei lavoratori e delle lavoratrici.
La proposta del Movimento 5 Stelle afferma che nessun lavoratore
può guadagnare meno di quanto previsto dai Ccnl più
rappresentativi e, comunque, il salario stabilito dal contratto
collettivo non potrà mai scendere sotto i 9 euro lordi
all'ora.
In questo modo, secondo gli estensori, verrebbe rafforzata la
contrattazione collettiva, contrastando i contratti pirata (quelli
sottoscritti da organizzazioni sindacali gialle e scarsamente
rappresentative), il dumping salariale, quindi la concorrenza
sleale, e si creerebbe di fatto un sostanzioso avanzamento salariale.
Si stima che l'adeguamento salariale costerebbe 5,5 miliardi
di euro. Calcolando una sorta di effetto trascinamento, e prevedendo
un aumento del 5% delle retribuzioni già sopra i 9 euro
l'ora, si arriverebbe a 12 miliardi di incremento del costo
del lavoro. Nel medesimo disegno di legge, riguardo alla rappresentatività,
si fa poi esplicito riferimento all'accordo del Testo Unico
del 2014 sulla rappresentanza siglato fra Confindustria e Cgil,
Cisl e Uil.
Le responsabilità di Cgil, Cisl e Uil
Se i motivi di contrarietà da parte padronale al disegno
di legge del M5S sono espliciti, miranti ad avere le mani libere
su quote di salario accessorio, simmetricamente anche i motivi
di contrarietà di Cgil, Cisl e Uil, a cui spetta la responsabilità
di non aver contrastato scelte padronali fortemente divisive
della classe, finiscono per assumere come obiettivo prioritario
il loro mero riconoscimento istituzionale nella contrattazione
e non la difesa delle condizioni di vita delle masse lavoratrici.
Nei confronti invece della proposta del Movimento 5 Stelle,
in questa fase di acuta debolezza della nostra classe e delle
sue organizzazioni di resistenza, il giudizio necessita di argomentazioni
quali la natura stessa di questo movimento, il blocco sociale
di riferimento, il suo essere stato forza di un governo di coalizione
con la Lega di Salvini.
Questo movimento, autodefinitosi né di destra né
di sinistra e quindi interclassista, con un progetto di società
che non è dato sapere, inconsapevole che soluzioni più
o meno avanzate nella società dipendono dai rapporti
di forza fra le classi, non può certo essere rappresentativo
delle masse lavoratrici.
La sua natura sociale costituita da mezze classi, in assenza
di un forte movimento operaio organizzato lo porta ad una generica
richiesta di onestà e di maggiori diritti che nello scontro
reale delle classi rimane pura propaganda.
La capacità di espellere velocemente “le mele marce”
non risolve certo le cause strutturali di questi accadimenti,
i quali restano per il M5S un mistero che non contribuisce a
mettere in discussione la struttura economica portante della
società cioè il capitalismo, la vera causa strutturale
della disonestà e dell'accaparramento individuale. Inoltre
la loro attenzione alla piccola e media industria, la loro incapacità
di riconoscere forme sociali che rappresentano particolari interessi,
quali le strutture sindacali, la loro presunta autosufficienza,
porta questo Movimento sulle posizioni classiche dei moderati
e dei conservatori.
Pasquale Tridico, presidente dell'Inps, espressione del Movimento
5 Stelle e forte sostenitore della proposta del salario minimo
orario afferma: “L'istituto stima che il costo per le
imprese sarebbe intorno ai 10 miliardi. Questo potrebbe essere
bilanciato da una riduzione del cuneo fiscale che possa interessare
le imprese che subiscono un aumento del costo”.2
Come si vede la proposta di un possibile avanzamento salariale
per le masse lavoratrici si scontra subito con la necessita
di tutelare la piccola e media industria e il padronato tutto,
usando per di più la leva fiscale, senza minimamente
intaccare e ridurre i profitti aziendali e industriali.
Non casualmente la Lega di Salvini, nella sua nuova veste nazionalista, ha condizionato l'eventuale via libera alla proposta solo a costi invariati, in particolare per le piccole e medie industrie.
Il problema non è quindi quello di fissare un livello minimo uguale per tutti, ma di estendere la contrattazione a chi ne è escluso con l'obiettivo di un salario adeguato per vivere dignitosamente e non più variabile dipendente dalla produzione e dal mercato, così come di una politica di riduzione dell'orario di lavoro al fine di maggiore occupazione.
In assenza di una forte ripresa organizzativa del movimento
operaio, delle sue organizzazioni di resistenza e della sua
autonomia politica da qualsiasi compagine governativa, tale
impostazione della questione salariale è destinata a
fallire sull'altare della presunta solidarietà nazionale
in una ulteriore concezione e versione della concertazione.
Contro l'avanzamento di disvalori collettivi quali xenofobia,
razzismo, contro la diffusione della rabbia sociale e l'ulteriore
frantumazione del tessuto sociale e civile, la necessità
di ritrovare la direzione di una pratica solidaristica ed egualitaria
presuppone la ripresa delle lotte economiche del movimento operaio
e la sua ritrovata autonomia politica.
Cristiano Valente
- Documento presentato a cura di Piarengelo Albini, direttore area lavoro, welfare e capitale umano di Confindustria in occasione audizione parlamentare 11° Commissione lavoro pubblico e privato, previdenza sociale. senato della Repubblica, 12 marzo 2019
- Festival del Lavoro Milano, 20/21 giugno 2019, www.pmi.it/economia
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