Crimini fascisti e pacificazione nazionale/
Contro il mito del “bravo italiano”
Perché si preferisce celebrare il mito del “bravo
italiano” e si dimenticano i carnefici italiani: uomini
e donne che parteciparono al genocidio degli ebrei? Si parla
sempre delle vittime del genocidio, spesso anche dei salvatori,
dei giusti; mai dei persecutori.
“Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”,
amici, come cantava De André. Siamo tutti complici di
un silenzio che deve essere rotto. Lo storico Simon Levis Sullam
ci ha dato il la con la pubblicazione, presso Feltrinelli
nel 2015, de I carnefici italiani.
Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente l'autore e di
frequentarlo nell'ambito della lavorazione del mio album Temuto
come grido, atteso come canto, che racconta in un ciclo
di canzoni le storie degli ebrei deportati dall'isola-manicomio
di San Servolo, a Venezia. Non avrei scritto le mie canzoni
senza il prezioso supporto della sua ricerca, senza il suo generoso
sprone. Viviamo nell'epoca della post-memoria; i testimoni diretti
della Shoah sono morti quasi tutti.
Oggi più che mai è fondamentale, mi ha fatto comprendere
Simon, il ruolo degli artisti nel narrare la Shoah. L'ultimo
libro che ha curato, infatti, non è un libro storiografico,
ma una collezione di racconti. Torneremo sull'argomento. Ora
rivolgiamoci a I carnefici italiani. Ottantuno anni dopo
la promulgazione delle leggi razziali (1938) e le deportazioni
degli ebrei dall'Italia pochi anni dopo, questo libro cerca
di dare risposta a domande scomode.
Michele – Qual è stato lo spunto iniziale
per la stesura de I carnefici italiani?
Simon – L'intenzione iniziale è stata quella
di richiamare l'attenzione sulla natura criminale del fascismo,
troppo spesso trascurata. Inoltre certamente ha contato la mia
implicazione personale e familiare nelle vicende della Shoah
in Italia.
Il tuo libro è, credo, un unicum nel nostro paese.
Certamente lo era al momento della pubblicazione e, credo, ancor
oggi. Ciò dimostra che è incredibilmente difficile
pubblicare un libro del genere in Italia. Viviamo sempre in
un regime?
In realtà il mio libro si colloca sulla scia di una serie
di ricerche senza le quali non sarebbe stato scritto: penso
agli studi su scala nazionale di Michele Sarfatti e di Liliana
Picciotto, autrice de Il libro della memoria, che narra
i destini delle migliaia di ebrei italiani deportati dall'Italia
nel 1943-45. Inoltre ci sono state ricerche locali importanti:
specie quelle sulla Toscana coordinate da Enzo Collotti. Ma
resta vero che il ruolo degli italiani nella Shoah è
rimasto a lungo in ombra e in parte lo è ancora nell'opinione
pubblica.
Qual è la reazione dei tuoi studenti all'Università
quando proponi, oggi, questi temi?
Questi temi sono, come dicevo, ancora poco conosciuti nell'opinione
pubblica italiana; ma mi accorgo che quando li affronto, quando
pongo il problema del “mito del bravo italiano”
e dei crimini degli italiani, nel fascismo, in Africa e nella
Seconda guerra mondiale, gli studenti mostrano grande interesse
e coinvolgimento. Si tratta di temi che generalmente non affrontano
a scuola e che in qualche modo percepiscono essere stati loro
sottaciuti.
C'è stata, lo scorso anno, una traduzione in lingua
inglese, in America. Segno tangibile di un'importante attenzione
all'estero.
La traduzione del mio libro presso Princeton University Press
ha segnato un nuovo interesse americano, e spero nel tempo internazionale,
per gli italiani e la Shoah e per il volto oscuro del fascismo.
Ci sono state parecchie recensioni: da “Newsweek”,
all'“Economist”, al “Times of Israel”,
per citare importanti testate. Credo che gli americani in particolare
si cullino ancora in una rappresentazione benevola del fascismo
e che questo libro li prenda in contropiede. Inoltre c'è
stata la coincidenza del rigurgito elettorale e politico delle
destre, che ha posto nuovi interrogativi sul passato dell'Italia.
La tua ricostruzione storica si focalizza soprattutto
su tre città: la tua Venezia, Brescia e Firenze. Spiegaci
perché.
Ho scelto di raccontare le deportazioni: cioè gli arresti
di ebrei (quasi ottomila), compiuti in circa la metà
dei casi da italiani (volontari del partito fascista, forze
di polizia in particolare carabinieri, ecc.), ma anche le spoliazioni
di beni ebraici, il tema della delazione, le campagne di stampa
ferocemente antisemite, leggendo queste vicende attraverso l'analisi
di casi locali.
Sono per così dire delle microstorie che raccontano ora
per ora cosa avviene in alcuni centri italiani: come singole
società vengono trasformate dal genocidio; come l'apparente
normalità prosegua, sia anche lacerata dall'odio, da
un'estrema violenza, da vendette, regolamenti di conti, “spiate”.
Tutto ciò è meglio percepibile e interpretabile
attraverso studi locali, fondati su ricerche archivistiche mie
e di altri.
Tremendo nella sua verità l'ultimo capitolo: “Amnistie,
rimozioni, oblio”, tra poliziotti mai processati e fascicoli
scomparsi dagli archivi...
Uno dei grandi temi che ho solo iniziato ad affrontare è
in effetti la cosiddetta “mancata Norimberga italiana”,
il fatto che non si siano fatti i conti giudiziari con queste
vicende, i responsabili non siano stati giudicati e puniti.
Ciò ha creato anche un notevole vuoto conoscitivo su
quello che avvenne. Pesò molto anche l'amnistia Togliatti
del 1946, che cancellò migliaia di processi per crimini
fascisti, in nome della pacificazione nazionale.
Inoltre molti corpi dello Stato furono caratterizzati da notevoli
continuità: in particolare le polizie, ma anche la magistratura,
il cui personale non cambiò minimamente tra fascismo
e Repubblica, benché spesso si fosse macchiato di veri
e propri crimini. Una delle vicende più soprendenti fu
quella di Gaetano Azzariti, già presidente del Tribunale
della Razza nel 1938, che negli anni Cinquanta divenne presidente
della Corte costituzionale.
Hai definito questo libro “un gesto etico-politico”.
Parliamone.
Ciò che ho voluto dire è che con questo piccolo
libro, fondato soprattutto su storie raccontate – ma tutte
storicamente documentate! – ho voluto lanciare un sasso
nello stagno della storia della violenza fascista e dei suoi
crimini. La ricerca deve cioè continuare, specie per
gettare luce e ricostruire le vicende del 1943-45: le minute
vicissitudini dei carnefici italiani, le loro motivazioni, la
loro mentalità. Non furono solo ideologicamente motivati:
contò il contesto della guerra civile, la ricerca del
guadagno (tramite denunce e accaparramenti), la caccia al “nemico
interno” sotto l'occupazione tedesca, il contesto della
Seconda guerra mondiale.
Viviamo nell'epoca della post-memoria. Fondamentale il
ruolo degli artisti, in questa fase. In questo senso è
avvenuto anche il nostro incontro. Uno degli ultimi libri che
hai curato, accennavamo nella nota introduttiva, non è
un libro storiografico, ma è una collezione di racconti...
Nel volume 1938. Storia, racconto, memoria, edito da
Giuntina, ho chiesto a un gruppo di scrittori e di storici di
professione di raccontare attraverso racconti di fiction, le
vicende delle leggi razziste del 1938 e delle loro conseguenze.
Ritengo che nell'era della post-memoria, dopo la fine de “l'ultimo
testimone”, accumulate migliaia di testimonianze e di
pagine di storia, dobbiamo trovare nuove strategie comunicative
per raccontare il fascismo, la violenza e l'orrore. Per trasmettere
questa Storia occorrono nuove storie, che rendano la memoria
di quelle vicende vive presso le nuove generazioni. L'aspetto
immaginativo dell'attività dello storico e quello creativo
della scrittura anche di fiction devono intrecciarsi esplicitamente.
Unendo i documenti alla libertà dell'immaginazione possiamo
sconfiggere i fantasmi di Auschwitz e far meglio conoscere quelli
della Shoah italiana.
Michele Gazich
Movimento No Muos/
Crisi e tendenza alla guerra
Quest'estate si è tenuto a Niscemi (Cl) il consueto campeggio del movimento No Muos che si oppone al sistema di ascolto satellitare dell'esercito Usa in Sicilia. Pubblichiamo ampi stralci di un documento programmatico redatto dalle/dai partecipanti.
La guerra negli ultimi anni sta diventando una realtà concreta. Una
guerra che rischia di svilupparsi su scala globale, come alcuni
osservatori stanno notando, e che potrebbe coinvolgere diversi
attori della scena internazionale. Molti fattori ci indicano
come la tendenza a una guerra globale si stia facendo sempre
più marcata e ormai, con cadenza quasi mensile, si verificano
incidenti diplomatico-militari che rischiano di diventare dei
casus belli da cui fare partire il tutto.
Tra questi indicatori il più evidente è l'incremento
della spesa militare a livello mondiale. Se, come è sempre
stato storicamente, le guerre si preparano e non scoppiano all'improvviso,
allora è conseguenziale pensare che gli attori globali
si stiano preparando a questa eventualità, rendendosi
responsabili di attentati all'ambiente, delle attuali e future
emigrazioni forzate e, infine, dell'arricchimento dei signori
internazionali della guerra, vere e proprie mafie globali.
La rincorsa agli armamenti ha conosciuto delle notevoli trasformazioni
dall'89 in poi. Non siamo più di fronte a un mondo bipolare
che usa lo strumento della militarizzazione anche come forma
di deterrenza reciproca. Gli attori in competizione sono aumentati,
è venuta meno quella configurazione geopolitica mondiale
che ha caratterizzato la seconda metà del '900,
e la competizione globale conosciuta prima come “globalizzazione”,
con una forte guida USA, adesso si sta trasformando in una nuova
competizione tra potenze imperialiste e subimperialiste o aspiranti
tali.
La crisi economica del 1973, pur cercando una via d'uscita di
lungo periodo, non ha trovato sbocchi soddisfacenti, passando
attraverso la finanziarizzazione dell'economia. La crisi finanziaria
del 2006-08 ha confermato l'estrema labilità di questa
soluzione e oggi il capitalismo si trova di fronte a una crisi
che non permette più agli investimenti gli stessi tassi
di profitto del passato (la c.d. crisi di valorizzazione del
capitale). Per provare a superare tale crisi, si è fatto
ricorso alle fusioni di aziende e alla creazione dei grandi
gruppi oltre che all'intervento massiccio negli Stati delle
politiche economiche neoliberiste. La nascita delle multinazionali
e il loro stretto collegarsi col mondo finanziario rispondono
a questa logica. (...)
La militarizzazione della Sicilia, con le trasformazioni organizzative
di Sigonella, l'implementazione del Muos e del Porto di Augusta,
passando dai droni killer ai sottomarini nucleari, consegna
la nostra regione alle necessità strutturali della guerra,
sia come territorio da sfruttare e organizzare secondo le esigenze
belliche della NATO sia come possibile bersaglio militare in
eventuali, e sempre più plausibili, scenari di guerra
globale.
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Niscemi (Cl), 2/4 agosto 2019 - Un campeggio No Muos all'insegna dei giovani e delle donne quello svoltosi il 2-3-4 agosto al presidio a ridosso della base della marina militare USA di Niscemi. Dedicato al dibattito sulle tendenze alla guerra e di come coniugare lotta alla militarizzazione e alle guerre e battaglie territoriali, il cui filo comune è l'anticapitalismo, il campeggio ha avuto anche un importante momento di discussione femminista. Aperto da quattro comizi di quartiere, si è chiuso con una manifestazione a Niscemi, cui hanno preso parte oltre 400 persone.
Nella notte tra il 3 e il 4 una passeggiata lungo la base è stata accolta da una presenza poliziesca (elicotteri, cavalleria, celere...) senza precedenti. Sono piovute anche le prime denunce e i primi fogli di via per manifestazione non autorizzata.
La lotta contro il MUOStro continua
Pippo Gurrieri
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Sviluppo diseguale, sfruttamento della natura, emigrazione
Se la Sicilia è dentro le dinamiche della competizione
economica globale come dominio militare degli USA, il territorio
siciliano (e non solo) è anche al centro di logiche speculative
e di sfruttamento capitalistico di un certo tipo. Da sempre
nel nostro Paese, come in tutti i paesi a capitalismo avanzato,
la borghesia, dagli Agnelli ai Benetton, ha approfittato dello
Stato e dei suoi beni per fare affari, qualificandosi come classe
parassitaria che ricorre allo Stato in termini di Profit State.
Ma se l'evoluzione della competizione capitalistica negli ultimi
anni ha trasformato le grandi famiglie industriali in soggetti
internazionali, altri soggetti rimangono ancora legati a una
dimensione nazionale, che ne accentua il modello di valorizzazione
in senso estrattivo o di sfruttamento intensivo della manodopera.
Si tratta di forme di sfruttamento del territorio e dei beni
pubblici, cui si ricorre tramite privatizzazioni, assegnazioni
di appalti più o meno truccati, bandi per grandi opere
che generano profitti anche solo con l'avvio della progettazione
(come vorrebbero accadesse con il Ponte sullo Stretto), o tutto
il campo dell'agricoltura che vive di lavoro nero e della manodopera
immigrata.
Se queste sono le logiche di sfruttamento della natura e del
lavoro, più intense quanto più agguerrita è
la lotta per la sopravvivenza dentro gli scenari di crisi e
di competizione, ci poniamo il problema di come poter reggere
lo scontro con questi comitati d'affari che lucrano sulla pelle
e la salute delle persone, siano esse italiane o no, ma che
sicuramente vivono una condizione di subalternità sia
in termini sociali che economici. Comitati d'affari portati
spesso a inscenare rivendicazioni di maggiore autonomia o sovranità
su fette di territorio ricche per soddisfare la propria posizione
di privilegio all'interno del dominio globale del capitale.
In questo senso abbiamo dato avvio in questo anno a una riflessione
che ha messo in relazione guerra, migrazione e sfruttamento
della natura, che ha segnato un primo punto di arrivo nel convegno
che si è tenuto a Catania nel mese di giugno 2019.
Il capitalismo è dunque fondato su un doppio movimento
sempre finalizzato all'incessante accumulazione di capitali.
Da una parte la necessità di appropriarsi di risorse
naturali sempre più scarse e dall'altra il bisogno di
nuovi mercati spingono infatti all'intensificarsi della competizione
mondiale nella ricerca di nuove frontiere da conquistare e sfruttare.
Tale sfrenata competizione palesa quindi non solo la tendenza
alla guerra sopra descritta, ma anche la radicalizzazione dei
processi di devastazione ambientale necessari all'appropriazione
di risorse e all'allargamento dei mercati. Ciò ha chiaramente
delle pesantissime ricadute sia sulla salute delle persone che
su quella dell'ecosistema, oltre a porsi quale causa principale
delle emigrazioni di massa, prodotte appunto dalla distruzione
dell'equilibrio geofisico del nostro pianeta e dall'esplodere
di conflitti bellici.
Riannodare i fili delle lotte
Come Movimento No Muos stiamo cercando di capire come superare
la parcellizzazione delle lotte cui siamo stati ridotti negli
ultimi decenni, complice anche una narrazione che si è
imposta in gran parte dei movimenti, che ha reputato meglio
fare qualcosa, ma farlo “nel proprio piccolo”, ma
che comunque ha rappresentato una linea di resistenza a fronte
di una crisi generale dei movimenti politici eredi degli anni
settanta e di una scomparsa di soggetti politici dediti alla
mediazione. Finché questo genere di lotte ha sviluppato
grandi movimenti popolari (dai No Tav fino ai No Muos) questa
frammentazione ha potuto celarsi dietro la legittima attesa
dei movimenti di opporre una sana resistenza popolare al modello
di sfruttamento del territorio. Ma quando, per ragioni diverse
ma ricorsive, i movimenti popolari tendono ad assottigliarsi,
fino ad estinguersi come in alcuni casi, emerge la precarietà
di una soluzione politica basata sul modello “Nimby”
(Not in my back yard) e sulla difficoltà/incapacità
di individuare i trait d'union tra aspetti parziali e
specifici e tra questi e il contesto generale.
Senza voler proporre soluzioni politiche unitarie, crediamo
ci sia il bisogno di leggere le dinamiche di fondo per trovare
punti di raccordo per le nostre lotte e provare a costruire
un fronte unitario di lotta. Con questo documento vogliamo offrire
alle realtà sparse nel nostro territorio (come punto
di avvio) uno spunto di ragionamento aperto e franco, senza
chiaramente volerci offrire come guida per nessuno. Sentiamo
la necessità di unire i ragionamenti e di conseguenza
le lotte, pur salvaguardando le specificità e l'autonomia
di azione di ognuna di esse.
In questo tentativo, invitiamo le realtà a porsi su un
terreno di confronto aperto e pratico provando a rispondere
alle seguenti domande che sono state oggetto dell'assemblea
tenutasi al campeggio No Muos il 3 agosto.
1) Quali sono gli strumenti teorici per leggere il fenomeno
di sfruttamento capitalistico del territorio in cui si svolge
la nostra lotta? Come invertirne la logica e contrastarne gli
interessi?
2) Crediamo che sia possibile estendere il modello di sfruttamento
individuato nella nostra realtà anche ad altre realtà?
3) Che relazione troviamo tra il modello di sfruttamento capitalistico
locale e gli scenari di competizione globale vigenti?
4) Pensiamo che la tendenza alla guerra sia un problema secondario
subordinato rispetto alle lotte territoriali portate avanti?
5) Pensiamo che sia possibile trovare forme di lotta e obiettivi
comuni per superare la frammentazione delle lotte? E se sì,
quali?
6) Riteniamo utile una forma stabile di coordinamento tra le
diverse realtà?
Movimento No Muos
Atene/
Un incontro internazionale di militanti ecologisti radical
Ecologisti radicali di tanti paesi, in arrivo da Londra e da
Istanbul, da Helsinki e da Barcellona, si riuniranno ad Atene
in ottobre, in una conferenza organizzata dall'Istituto Transnazionale
di Ecologia Sociale (TRISE, www.trise.org),
con sede nella capitale greca, fondato più di cinque
anni fa.
La conferenza di quest'anno si svolge dal 25 al 27 ottobre e ha per tema “Il potere di distruggere, il potere di creare: costruire una cultura della resistenza – verso un profondo cambiamento della società”.
Il TRISE si è costituito ad Atene nel 2012. Il primo incontro-conferenza si era svolto sull'isola di Creta, nel villaggio di Myrtos, nel 2013. Vi avevano partecipato una ventina di persone provenienti da tutta Europa e un paio dall'America settentrionale. Le successive conferenze hanno avuto luogo a Maratona, Patrasso e Salonicco, tutte con un numero crescente di intellettuali e militanti. Quella di quest'anno si terrà per la prima volta ad Atene, al Centro di Cultura nell'area centrale della città. Ogni conferenza si concentra su un tema generale, relativo in qualche modo all'ecologia sociale. Un'altra tematica importante riguarda l'affermarsi di politiche radicali nelle metropoli europee e la possibilità di creazione di un potere duale basato sui quartieri e le comunità.
La prospettiva dell'ecologia sociale si fonda sull'assunto secondo il quale la crisi ambientale è sostanzialmente una crisi sociale. La crisi si manifesta intorno al cambiamento climatico e molti aspetti relativi delle numerose devastazioni in ambito naturale si collegano a una causa di fondo. Tale causa, tale problema, è il carattere della nostra società nella forma di capitalismo avanzato. Dopo tanti anni, infatti, dopo tanti decenni di ricerche scientifiche condotte dal Panel internazionale delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (IPCC), con quindicimila scienziati impegnati nella raccolta di dati, l'analisi conclusiva afferma che il problema, in sostanza, siamo proprio noi, la società umana. Questa conclusione, ovviamente, non è piaciuta ai politici e ai burocrati di Stato.
Come era successo qualche anno fa al COP 21, il summit parigino, dietro a porte chiuse si è svolta una delle più incredibili battaglie tra scienziati e funzionari pubblici. Alla fine, però, la conclusione degli scienziati non è stata cassata. Era chiaro ed evidente che non è più possibile affrontare il problema ricorrendo solo a soluzioni tecniche. Dobbiamo mirare più in profondità e intraprendere azioni che impongano importanti e decisi cambiamenti socioeconomici e politici della nostra società. A partire dal basso, dai quartieri alle varie aree metropolitane, con l'obiettivo di prendere la città. Le varie aree urbane in radicale trasformazione sono invitate a federarsi, come hanno di recente tentato di fare in Spagna.
La conferenza di Atene vedrà discussioni a favore di un'ecologia radicale, da contrapporre a un ambientalismo tecnocratico. I vari movimenti politici verdi in molti paesi si sono divisi tra sostenitori delle politiche convenzionali dei partiti e strategie che si fondano su movimenti radicalmente democratici, centrati sull'ecologia dal basso. L'ecologia sociale ha esercitato un'influenza teorica e strategica centrale per i militanti nelle regioni curde del Medio Oriente, dove popolazioni etnicamente diverse hanno fatto nascere istituzioni di democrazia diretta confederale in una delle regioni del mondo più devastate dalla guerra. La comune internazionalista del Rojava sarà presente ad Atene e parteciperà alla discussione e al dibattito.
Tutta la sinistra libertaria europea è invitata a partecipare, in particolare chi condivide un interesse per un'ecologia politica radicale. Il programma completo della conferenza è reperibile sul sito del TRISE.
Dimitri Roussopoulos
traduzione di Guido Lagomarsino
Sentenza Piano Condor/
Quel nesso inscindibile tra dittature e militari
Con la sentenza pronunciata il giorno 8 luglio da parte di Agatella Giuffrida, presidente della Corte di Assise di Appello di Roma si conclude la seconda fase del Processo Condor che vedeva come imputati numerosi esponenti politici e militari delle diverse dittature che avevano insanguinato il Cono Sud dell'America Latina negli anni Settanta e Ottanta del Novecento.
Dopo i processi Esma, Massera e Podlech, anche la vicenda relativa alle vittime della violenza fascista legata al famigerato Piano Condor è ormai giunta ad una fase quasi definitiva (manca ovviamente la Cassazione), ponendo in evidenza anche sul piano giudiziario ciò che, da un punto di vista storico, l'ampia letteratura aveva già stabilito, restituendo, attraverso le fonti testimoniali dirette e indirette, un quadro sufficientemente chiaro in merito alle responsabilità dei crimini contro l'umanità commessi dai governi eversivi sudamericani.
Come già sottolineato nei nostri precedenti articoli pubblicati su “A”, il processo al Piano Condor possiede una particolare rilevanza politica poiché mai come ora è stato possibile definire attraverso una sentenza giudiziaria la natura criminale (in senso stretto) del patto che legava i Paesi del Cono Sud a una strategia di terrore e di morte, basata sulla tortura sistematica, l'eliminazione dei corpi delle vittime (col conseguente fenomeno dei desaparecidos) e il “furto dei bambini”.
Il verdetto pronunciato lo scorso 8 luglio ha così chiuso in modo pressoché definitivo ciò che ancora rimaneva da valutare dopo il giudizio espresso il 17 gennaio 2017 in primo grado, concluso con numerose condanne (9 ergastoli) nei confronti delle figure politiche di spicco dei governi dittatoriali, lasciando tuttavia sostanzialmente incolume il braccio militare e paramilitare dell'apparato repressivo.
In Appello la sentenza ha in parte ribaltato gli esiti processuali del 2017, accertando le responsabilità attribuite al comparto militare con la comminazione di 24 ergastoli nei confronti soprattutto di altrettanti gerarchi dell'esercito e della marina.
Sono stati così condannati fra gli altri il cileno Espinosa Bravo e l'uruguaiano Jorge Troccoli, ex capo del servizio di intelligence dei gorilla uruguaiani, il famigerato S2 del Fusna (il servizio segreto della marina uruguaiana), denominato dalle vittime ascoltate in aula “El torturador”.
L'esito processuale appare quindi in tutto il suo valore politico confermando il rapporto inscindibile fra poteri dittatoriali e poteri militari nell'azione repressiva prodotta dal piano criminale Condor.
Lino Rossi
CPT, CIE, CPR/
Due parole sulla detenzione dei migranti
Un fronte che risponde al nome di “Mai più Lager
– No ai CPR” si è compattato nell'ultimo
anno contro il decreto Sicurezza e Immigrazione, grazie a una
costante attività di sensibilizzazione, tra assemblee
anche pubbliche, manifestazioni e flash mob, mentre le persone
migranti hanno continuato a denunciare le condizioni di vita
disumane dall'interno dei centri. Tenendosi a debita distanza
dal sindaco Sala e dagli assessori del PD, celebri per il loro
antirazzismo di facciata, gli attivisti della rete, che ormai
conta sull'adesione di centinaia di soggetti non solo meneghini,
tra comitati studenteschi, circoli, associazioni no-profit,
centri sociali e partiti (Rifondazione Comunista, Sinistra Anticapitalista
e Possibile), hanno scelto di manifestare il proprio dissenso
con azioni dirette.
Nonostante gli sforzi della rete, però, l'impressione
è che il cittadino medio sia diventato impermeabile alle
notizie sui migranti, mentre nel frattempo pare diventato campione
di legalità e “decoro urbano” (vedi il “popolo
delle spugnette” di Expo 2015, il decreto Salvini-bis
e la riesumazione del Daspo urbano). Da anni infatti si parla
solo di fastidiosi sbarchi e lager libici (comunque finanziati
da noi), mentre abbiamo dimenticato che i più vicini
sono in casa nostra. Per questo vale la pena ricordare che già
una quindicina di anni fa l'Italia fu teatro di proteste dentro
e fuori gli allora CPT.
Tutto partì dallo scandalo, oggetto di un libro in preparazione,
che raccontiamo qui di seguito per fornire un'idea più
chiara di come agisca il meccanismo di repressione del dissenso,
ma anche di come la situazione sia peggiorata, in un crescendo
di notizie drammatiche provenienti dai CPR, tra cui la recente
morte in isolamento di un “ospite” di quello di
Torino.
Nel 2000 don Cesare Lodeserto, segretario particolare dell'arcivescovo
di Lecce Monsignor Ruppi, viene messo a capo del Centro di Permanenza
Temporanea della Fondazione Regina Pacis, sul lungomare adriatico.
L'anno dopo parte la campagna di controinformazione in solidarietà
con le persone rinchiuse e nel 2002 iniziano presidi davanti
al CPT, incursioni in consiglio comunale, incendi degli sportelli
bancomat di Banca Intesa che ospita i conti della Fondazione.
Rivolte, evasioni, scioperi della fame, tempestano l'estate
del 2004. Nel 2005 don Cesare è arrestato con l'accusa
di violenza privata e sequestro di persona, ma dopo due settimane
è ai domiciliari.
La condanna di primo grado del 2007, poi confermata in appello
e in Cassazione, è di 5 anni e 4 mesi per calunnie, violenza,
minacce e sequestro di persona nei confronti di ospiti rumene
e moldave, ma il prete viene mandato in missione fidei donum
per gestire altri centri in Moldavia e, grazie ai “meriti
straordinari acquisiti”, riceve la cittadinanza che ne
impedisce l'estradizione. Nel frattempo, cinque attivisti sono
accusati di associazione sovversiva ai fini di eversione dell'ordine
democratico e scontano preventivamente anni di galera.
È il solito copione che si ripete ogni volta che si deve
insabbiare qualcosa di imbarazzante: dividi tra buoni e cattivi,
peschi fra gli anarchici e li sbatti in gabbia per scoraggiare
chi osi dissentire. Il copione è sempre efficace, giusto
il tempo di perdersi nelle falle del sistema giudiziario e finire
in pasto ai media. Poi l'oblio.
Significativa, in tal senso, questa pagina di Famiglia Cristiana
del 20 marzo 2005: “Da anni i no global del Lecce Social
Forum, appoggiati anche da alcuni deputati della sinistra radicale
e dei Verdi, chiamano don Cesare “il boia del Regina Pacis”.
Circola anche un filmato per sostenere le accuse. Dalla lotta
politica si è passati alle denunce per maltrattamenti
e peculato, alle bombe contro il Duomo di Lecce, abitazioni
dei parenti di don Cesare e altri uffici della Curia. Si è
parlato di matrice anarco-insurrezionalista, ma forse c'è
anche dell'altro, visto che sugli attentati indaga anche l'antimafia.”
Nel frattempo va avanti il processo “Nottetempo”
agli anarchici. 12 attivisti vedono confermata in appello la
condanna per associazione a delinquere semplice con pene tra
i 2 e i 5 anni. Gli assolti in primo grado sono condannati a
pene di almeno un anno. Per tutti tranne uno, una condanna per
istigazione a delinquere relativa a due presidi durante i quali
i migranti avevano tentato di fuggire. È bene ricordare
che, solo nel 2005, ci furono rivolte nei CPT di Milano, Torino,
Genova, Bologna, Ragusa, Bari, Caltanissetta.
Di seguito alcuni estratti da volantini anarchici apparsi per
le strade.
“Questi compagni vengono accusati di una serie di attacchi
contro le proprietà dei gestori e finanziatori del CPT,
di alcuni sabotaggi contro la Esso e di qualche azione diretta
contro la Benetton. [...] Mentre questi nostri compagni vengono
arrestati, in un solo giorno a Torino la polizia sgombera un
campo nomadi, uccide a freddo un senegalese a un posto di blocco,
provoca la morte di un altro immigrato che cerca di sottrarsi
ad un rastrellamento. Vi basta? Da settimane gli internati di
via Corelli a Milano sono in sciopero della fame, protestano
sui tetti, urlano la loro voglia di libertà. Intanto
centinaia di profughi vengono internati in “centri di
accoglienza” da cui cercano a ogni costo di evadere. Sono
urla che ci giungono dalle macerie di questo mondo in rovina.”
(13 maggio 2005)
“L'accusa per tutti è di voler sovvertire l'ordinamento
democratico tramite atti come danneggiamenti di bancomat o scritte
murali. Ebbene, cosa dicevano mai quelle terrorizzanti scritte?
Che il CPT Regina Pacis torturava, per mano di don Cesare e
dei suoi collaboratori, rinchiudendo, picchiando e minacciando
decine di donne e uomini. Dicevano che ai migranti rinchiusi
va tutta la solidarietà in quanto perseguitati e sfruttati
come fossero merce. Che non solo quello gestito dalla Curia
leccese, ma tutti i CPT vanno chiusi, perché sono dei
lager. [...] Nel marzo 2005 il Regina Pacis ha chiuso. Le violenze
del direttore, dei medici e dei carabinieri che ci lavoravano
dentro sono venute a galla, un certo clamore ha fatto parlare
di scandalo. Poco dopo, gli arresti degli anarchici, il silenzio,
la riabilitazione pubblica del prete hanno ristabilito la quiete
terrificante in cui si consumano i peggiori soprusi della vita
quotidiana. Non è che, per caso, sia necessario seppellirla,
la verità?” (maggio 2006)
“Intanto i CPT vengono trasformati in Centri di Identificazione
ed Espulsione, le carrette del mare vengono subito rimandate
indietro verso altri lager, la caccia allo straniero e al diverso
diventa sempre più cavallo di battaglia delle politiche
securitarie e xenofobe dei governi che si succedono. I CIE divengono
un meccanismo fondamentale per il potere, per gestire con la
reclusione e la repressione sia una manodopera ricattabile e
in eccesso, sia per contenere un'umanità indesiderata.”
(15 ottobre 2010)
“Dopo che alcuni servizi giornalistici hanno documentato
le condizioni disumane in cui sopravvivono le donne e gli uomini
internati in queste strutture, le varie forze politiche si sono
azzuffate sulle responsabilità di una simile “gestione”.
Ma il punto non è come vengono gestiti, bensì
la natura stessa dei CPT. Introdotti in Italia nel '98 dal governo
di centrosinistra con la legge Turco-Napolitano, i CPT sono
a tutti gli effetti dei lager. [...] Quello che per un italiano
è un semplice illecito amministrativo (non avere i documenti),
per uno straniero è divenuto un reato passibile di internamento.
[...] Ad aprile gli internati del lager di via Corelli a Milano
salgono sui tetti, si tagliano e urlano la più universale
delle rivendicazioni: libertà. Seguiti dagli immigrati
rinchiusi nel CPT di corso Brunelleschi a Torino, la protesta
si allarga a Bologna, a Roma, a Crotone. A decine riescono ad
evadere, mentre fuori comincia ad organizzarsi il sostegno pratico
alla lotta. [...] Che tutto ciò dia fastidio lo dimostrano
le dichiarazioni del ministro degli Interni Pisanu sugli anarchici
e antagonisti che “sobillano” gli immigrati e sulla
necessità dei CPT per contrastare il “terrorismo”.
[...] La criminalizzazione dello straniero – capro espiatorio
del malessere collettivo – è da sempre un tratto
distintivo delle società moribonde e allo stesso tempo
un progetto di sfruttamento ben preciso.” (dicembre 2005)
Tobia D'Onofrio
12 ottobre, Milano/
In piazza
No CPR. Sabato 12 ottobre 2019 la rete “Mai più Lager - No ai CPR” ha organizzato una manifestazione a Milano per opporsi all'apertura dei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) a partire da quello di via Corelli a Milano. La manifestazione si oppone anche alle politiche razziste e repressive del decreto sicurezza.
Il corteo, diretto in via Corelli, partirà da piazzale Piola alle ore 14.30.
Per info: noaicpr@gmail.com.
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