terremoto
Il futuro non è ancora scritto
di Mario Di Vito / foto di Michele Massetani
A tre anni dal terremoto che colpì una parte del Centro Italia, la forte denuncia e le amare riflessioni di un giornalista/attivista marchigiano.
La memoria è ingannevole
per definizione. È per questo che può accadere
di ricordare con esattezza fatti mai avvenuti o luoghi mai esistiti.
Ad esempio, a tre anni di distanza dalla prima scossa, non molti
sanno dire di cosa parliamo quando parliamo del cosiddetto terremoto
del Centro Italia.
Il problema nasce già dal nome con cui (non) è
conosciuto questo evento: «terremoto del Centro Italia».
Troppo generico per essere reale, troppo ambiguo per lasciare
un segno tangibile tra le curve del pensiero. I giornalisti
ne parlano come del «terremoto di Amatrice», ma
è un fatto di pigrizia: è lì che c'è
stato il maggior numero di morti la notte del 24 agosto del
2016 e, comunque, stiamo parlando di un paese abbastanza vicino
a Roma da non suonare troppo esotico per il sempre più
ristretto lettorato dei quotidiani.
Questo, in fin dei conti, è un terremoto negato a partire
dal fatto che non ha un nome.
Poi c'è tutto il resto: gli sfollati, i ritornati, le
macerie, le casette provvisorie in acciaio e plastica, le strade
chiuse e mai più riaperte, i paesi silenziosi, svuotati,
sfiniti. Le persone si stanno abituando, purtroppo, e hanno
imparato bene le nuove parole della burocrazia: Sae, Cni, Dpc,
Aedes, Fast. Maschere per il massacro di un popolo, cambiare
il vocabolario per cambiare la vita della gente dell'Appennino.
Non c'è notizia
«Strategia dell'abbandono» è un concetto
coniato da un attivista che si chiama Leonardo Animali. S'intende
quell'insieme di politiche e di pratiche volte a lasciare che
l'Appennino muoia di stenti. La crisi delle aree interne è
un fenomeno noto e la zona su cui si è abbattuto il terremoto
– un fazzolettone di terra all'incrocio tra le Marche,
il Lazio, l'Umbria e l'Abruzzo – era in crisi già
da prima del sisma. Crisi demografica, crisi economica, crisi
sociale. Le scosse hanno soltanto accelerato un processo già
in atto. E nessuno vuole porre rimedio: sono passati tre governi
ed è impossibile distinguere l'operato di ciascuno. O
meglio: nessuno ha fatto niente. Strategia dell'abbandono è
lasciare che le cose accadano, arrendersi al presente e non
immaginare un futuro.
È difficile, d'altra parte, pensare che possa esserci
davvero un domani, da queste parti. La rabbia dei primi tempi
si è già trasformata in rassegnazione e i terremotati
sono ormai una categoria della propaganda. Vengono usati come
contrappeso dei migranti che sbarcano in Italia, in quell'eterna
situazione di guerra tra ultimi e penultimi che fa sempre comodo
a chi comanda e mai a chi è comandato.
Ma quindi, che succede nel Centro Italia terremotato? In breve:
niente. La notizia è che non c'è notizia. Sono
tre anni che non accade nulla. I centoquaranta paesi colpiti
stanno scomparendo giorno dopo giorno, centimetro dopo centimetro
e sono ancora cinquantamila le persone senza una casa.
Amatrice, Arquata del Tronto, Accumoli, Camerino, Tolentino,
Fiastra, Visso, Norcia. Borghi, frazioni, centri storici. Le
macerie sono ancora per terra, le «zone rosse» non
vengono riaperte, i terremotati vivono nelle cosiddette casette
provvisorie (le famigerate Sae): blocchi giallini in acciaio
e plastica, caldissimi d'estate e gelidi d'inverno, alcuni dei
quali già cadono a pezzi perché, denunciano i
sindacati, si è lavorato malissimo, o con troppa calma
o con troppa fretta. Mai in maniera normale e, in fondo, la
normalità non è mai stata la cifra di questa storia.
Quel che resta del cratere
Percorrendo la Salaria in macchina da est a ovest, incastonata
tra gli spigoli delle montagne e le linee curve delle colline,
Arquata del Tronto si annuncia con una serie di cantieri. Alzi
lo sguardo e vedi il vecchio incasato, o quel che ne resta:
una distesa grigia di macerie a contornare la rocca medievale.
Doveva essere un simbolo di rinascita, anzi un capolavoro di
resistenza alla furia degli elementi. Invece adesso sembra un
monumento ai caduti, immobile in mezzo al disastro.
Sotto ci sono le casette: un villaggio turistico triste che
brilla sotto il sole ma che, quando cala il buio, diventa uno
spettacolo desolante di luci al neon e nemmeno un'anima in giro.
Oltre ci sono le macerie di Pescara del Tronto, la frazione
che non verrà mai e poi mai ricostruita. Il costone di
roccia dove erano state adagiate le case è venuto giù
e adesso la vita proseguirà, quando proseguirà,
altrove, probabilmente ai lati della Salaria.
E poi c'è Amatrice. Il simbolo del terremoto, suo malgrado,
forse addirittura controvoglia. Merito di un sindaco tribuno
che si chiama Sergio Pirozzi e che adesso fa il consigliere
regionale grazie a un movimento politico il cui simbolo è
l'impronta di uno scarpone, a metà tra il «marciare
per non marcire» e il calcio in culo. Ha goduto di un
periodo di grande notorietà, Pirozzi. Nella notte che
venne giù tutto fu sua la prima voce che si levò
dalle zone colpite dal terremoto. «Il mio paese non c'è
più», disse quasi in lacrime alla radio. Aveva
ragione: il suo paese aveva smesso di esistere. Adesso il centro
storico è coperto da una specie di muro; c'è un
vialone che lo taglia a metà e che periodicamente viene
percorso in processione dalle varie autorità in visita
nei luoghi del disastro.
Salendo verso nord si arriva nel Maceratese. La zona è
stata distrutta dalle scosse della fine dell'ottobre 2016. Nessun
morto ma è impossibile trovare un paese che sia rimasto
in piedi. Le persone sono state mandate via in fretta e furia.
Molti hanno trovato alloggio negli alberghi della costa adriatica,
costretti alla vista mare senza possibilità di tornare
indietro. Altri si sono arrangiati come hanno potuto: ospiti
da parenti e amici, in affitto nelle città più
grandi. Tutti sono stati sradicati, riempiti di promesse e poi
abbandonati a se stessi. La situazione non è ancora tornata
alla normalità e in molti ormai si sono convinti che
mai più faranno ritorno nei paesi in cui hanno vissuto
più o meno da sempre.
Le morti per cause naturali sono aumentate rispetto alla media,
così come il consumo di psicofarmaci e il ricorso alle
cure psichiatriche. La gente è impazzita, letteralmente.
Il terremoto ha distrutto i palazzi, certo, ma anche le persone.
E il fatto è che nessuno si sta preoccupando di ricostruire
né gli uni né le altre.
Centri commerciali al popolo
Dietro la prima linea dell'Appennino arriviamo in Umbria. Castelluccio
di Norcia è un borgo di pietra che sovrasta una piana
famosa per le lenticchie e per la fioritura di mille colori.
Gli abitanti prima del sisma erano otto. Si tratta anche dell'ultimo
paese in cui sono state portate le casette provvisorie, nella
primavera del 2019. Prima, però, si era intervenuti comunque,
a Castelluccio, con la costruzione di un avveniristico centro
commerciale a forma di deltaplano per far spazio a ristoranti
e negozi: l'espressione più materiale della prima epoca
storica in cui si è deciso di ricostruire i negozi prima
delle case.
È un discorso ormai divenuto consueto: il turismo come
panacea di ogni male sociale, soluzione alla crisi economica,
idea e ideale. Non si pensa a chi in questi luoghi ci vive,
ma a chi ci passa e magari compra qualcosa, scatta un selfie,
«fa esperienza» e la condivide sui social network.
Quale futuro per il cratere del terremoto? Un parco giochi per
turisti con il portafogli gonfio e qualche buona intenzione
di alleggerirlo. In questo senso gli abitanti terremotati sono
un intralcio. La storia deve essere quella della comunità
forte che rinasce non quella dell'abbandono e della disperazione:
meglio coprire i problemi, far finta che non esistano, additare
chi li solleva come gufo, cassandra, latore di sventure e di
più o meno generiche sfighe.
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Ancona - La manifestazione del 22 febbraio 2017 |
Pace sociale o resa sociale?
È così che nelle Marche si sono inventati un
festival musicale con grandi nomi chiamati a esibirsi qua e
là tra gli Appennini. Si chiama Risorgimarche, richiama
centinaia di migliaia di persone, nessuna delle quali vede però
la realtà del post sisma. Tutte persone che arrivano,
parcheggiano la macchina, vengono portate a passeggio e poi
ascoltano il cantante di turno ululare su un palco con uno sfondo
da cartolina. Bello? Sì, forse. La verità è
che l'impatto ambientale di un'impresa del genere è notevole
e l'operazione in sé è politicamente inquietante.
Tutto nasce dall'equivoco di cui sopra: i connotati esclusivamente
positivi che si danno al fenomeno del turismo. I luoghi non
sono più adatti alla vita sociale, ma vengono ora affittati,
ora comprati, ora scambiati in altro modo per offrire uno spettacolo
limitato nel tempo.
Poi si spengono le luci e tutti vanno via. E non rimane niente.
Per fare questo, bisogna annullare la società che esiste
(anzi, che esisterebbe) sull'Appennino.
Un dato interessante: nei villaggi di casette provvisorie non
si può aprire un centro ricreativo a meno che non si
abbia uno sponsor: l'aggregazione, la socialità, il vivere
insieme sono subordinati alla volontà di un privato che
decide di fare un regalo. Né il governo né le
Regioni hanno mai tirato fuori un soldo per cose del genere.
È un ragionamento vecchio come Ronald Reagan e Margaret
Thatcher: o produci o consumi o crepi. E un centro ricreativo
per terremotati non produce né consuma, quindi, cari
terremotati, potete anche crepare. A meno che non vi troviate
un mecenate dal cuore grande (e non vi facciate troppe domande
sui suoi eventuali interessi paralleli).
Ecco, la gente che sale in montagna per Risorgimarche consuma
e fa felici i commercianti (alcuni, non tutti) ma non vive davvero
i posti che visita. La strategia dell'abbandono è anche
questo: mollare tutto continuando a far credere di essere molto
preoccupati e partecipi.
Risorgimarche è un'iniziativa calata eminentemente dall'alto,
organizzata «per voi», ma non «con voi»,
perché voi non sapete quello di cui avete bisogno. O
almeno non lo sapete tanto quanto gli esperti di marketing ingaggiati
per organizzare la kermesse. Risorgimarche ha un direttore artistico
di peso (Neri Marcorè) e una struttura organizzativa
messa insieme dalla Regione Marche, che non ha fatto tante storie
quando si è trattato di aprire lautamente il portafoglio.
Risorgimarche, in questo senso, è una maschera che l'amministrazione
di Luca Ceriscioli e del Pd mette per coprire il fatto che negli
ultimi due anni non è successo nulla. La ricostruzione
non c'è – e questo bisogna ripeterlo fino alla
nausea –, le persone sono abbandonate, se non addirittura
ostacolate quando provano a farcela da sole: sono cose che si
dicono e si scrivono da quasi tre anni senza tema di smentita.
In compenso c'è Jovanotti che ti dedica «L'ombelico
del mondo».
Il terremoto è una tragedia, la sua gestione, in questo
caso, un dramma: c'è poco da scherzare e ancora meno
da ridere. L'immagine di Ceriscioli in mezzo a decine di migliaia
di persone festanti su un prato è uno spot, perché
la politica di questi anni vede tutto come marketing. Il cratere
non è (più) un posto in cui può vivere
qualcuno, ma una distesa di terra buona per diventare un centro
commerciale a cielo aperto, con concerti, eventi, iniziative,
attrazioni per turisti. Chi ci vive, ci viveva, vorrebbe tornare
a viverci, viene sempre dopo.
Usciamo dall'equivoco, allora: Risorgimarche non è il
ramoscello d'ulivo che il Palazzo offre al popolo per camminare
insieme verso un futuro luminoso. Non è pace sociale.
È resa sociale.
Malgrado il terremoto
Cosa rimane? Nulla. Al massimo una sensazione che sfugge nella memoria e sfuma nel presente. Da queste parti, forse una volta lontana lontana nel tempo, è esistito qualcosa. Le pietre ancora per terra sono lì a testimoniarlo, le persone che ancora non si arrendono provano a gridarlo, sfidando l'indifferenza generale e cercando di sfuggire alla letale macchina di propaganda che si è mossa per le elezioni politiche del 2018 – memorabile il Salvini che si aggirava con lo sguardo da gran furbacchione e il felpone d'ordinanza con scritto Visso a lettere cubitali – e poi ha preferito non farsi vedere – forse per un po' di sana vergogna, forse per timore di venire accolto a colpi di fischi e pernacchie, o anche peggio – quando si è trattato di organizzarsi per le europee della primavera passata.
Il collettivo Terre in Moto, nato all'indomani del sisma, è un esempio: gente che continua la sua battaglia nel silenzio, organizza manifestazioni a Roma e nel cratere, prova a spiegare che qui non c'è rimasto niente e che, se nessuno si decide a fare qualcosa, il nulla è l'unica prospettiva credibile per questi luoghi.
È una gara di resistenza, il post sisma. Sfidare l'abbandono per venir fuori dalla nebbia della memoria, rendere reale l'impossibile e continuare a raccontare cosa succede, cosa non succede, cosa potrebbe succedere. C'è chi resiste e continua a farlo, per l'appunto: una federazione di solitudini che ha scelto di non arrendersi. Malgrado il terremoto, malgrado quello che è venuto dopo, le facce, le promesse, le prese in giro, malgrado tutto e malgrado tutti. Forze inarrestabili che si abbattono su cose irremovibili.
Il futuro non è ancora scritto.
Mario Di Vito
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