La macchina della propaganda
Come tutti i governi, anche gli USA sono sempre riusciti a piegare l'informazione e a trasformarla in propaganda. E durante i conflitti hanno controllato le notizie, fatto leva sull'amor di patria e convinto i giornalisti a servire gli interessi della nazione prima di quelli della verità.
Di tutta la nostra razza egli ha prescelto il popolo americano affinché fosse la nostra nazione a condurre alla rigenerazione del mondo intero. Questa è la missione divina dell'America e contiene per noi tutti i vantaggi, la gloria e la felicità possibile degli esseri umani. (Senatore Albert J. Beverdige, 1900)
In prigione, in prigione, e che vi serva da lezione...
(Cantautore Edoardo Bennato, 1977)
Per un po' ho condiviso l'ufficio con una giovane collega,
sorta di prototipo dell'impiegata newyorchese in carriera: colta
e professionale, simpatica ma senza eccedere in confidenza,
veloce nell'apprendere, mai volgare, pronta alla risata, ma
contenuta.
A dispetto della calca della metro nelle ore di punta, Suzie
arriva sempre al lavoro fresca come fosse appena uscita di casa.
I suoi primi commenti al mattino riguardano in genere i figli,
ma un giorno mi ha sorpreso esclamando: “Oggi sono proprio
felice, finalmente hanno arrestato Assange”. Avevo letto
anch'io la notizia ma, sebbene il personaggio non mi ispiri
simpatia, non mi aveva certo fatto piacere e non immaginavo
che, per una persona qualsiasi, l'arresto di un giornalista
potesse essere addirittura fonte di felicità.
Alla mia reazione stupita Suzie ha incalzato: “Assange
è odioso, ha pubblicato segreti di stato mettendo a rischio
la sicurezza di tutti noi, odia l'America, il suo non è
giornalismo! È un pericolo pubblico, un nemico della
nazione”. La requisitoria, pronunciata d'un fiato e senza
tentennamenti, mi ha lasciato senza parole. Ho deciso di approfondire.
Ho scoperto così che la maggioranza degli americani è
favorevole all'estradizione del giornalista australiano. Alcuni
parlamentari si sono spinti fino a dichiarare che al fondatore
di Wikileaks dovrebbe essere comminato l'ergastolo. Il dibattito
pubblico che ha fatto seguito all'arresto, in effetti, ha assunto
toni talmente surreali da spingere un giornalista moderato come
Tucker Carlson a intervenire su un network decisamente conservatore,
come Fox News, per denunciare l'assurdità delle accuse
e il tono da crociata. Una vera e propria campagna capillare
di disinformazione a seguito della quale molti non sanno più
quali siano i reali capi d'accusa e si sono convinti che Assange
fosse in realtà una specie di spia russa, un hacker che
ha venduto segreti di stato a potenze straniere.
Persino molti giornalisti accreditati presso i palazzi del potere
della capitale hanno espresso soddisfazione per la sua cattura,
spingendo Carlson ad esclamare: “C'è stato un tempo
in cui i reporter non gioivano per l'arresto di un collega;
nel 1971 il Washington Post e il New York Times hanno pubblicato
una valanga di documenti segreti relativi alla guerra in Vietnam
e in seguito interi libri sono stati scritti per celebrarne
il coraggio”.
Il fiume di commenti che scorre nella rete mi ha confermato
quanto sia facile non sapere di cosa si sta parlando in un'epoca
in cui le notizie sono alla portata di tutti. Anche se la stampa
è libera, la macchina della propaganda e della disinformazione
riesce ad essere estremamente efficace. Se si tratta della patria
minacciata o di salvaguardare l'immagine della nazione, infatti,
i media tendono ad allinearsi, avallando i racconti ufficiali.
Susan Brewer, professoressa di storia all'università
di Stevens Point nel Wisconsin, ha illustrato molto bene questa
interessante contraddizione nei suoi studi su patriottismo e
propaganda1, evidenziando come, nei vari conflitti
che hanno interessato il paese, i governi siano quasi sempre
riusciti a tenere sotto controllo l'informazione, facendo leva
sull'amor di patria e riuscendo a convincere gli operatori del
settore a servire gli interessi della nazione prima ancora di
quelli della verità.
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Londra (UK), 2019 - Un camion con le immagini di Chelsea Manning e Julian Assange imbavagliati, attraversa le strade di Londra |
Gestire le percezioni, non la verità
Senza dover ricorrere alla repressione tipica dei regimi totalitari, i poteri, con la sola eccezione del Vietnam, sono sempre riusciti nell'intento di piegare l'informazione ai propri interessi, trasformandola in propaganda. Donald Rumsfeld2 ha spiegato che questa strategia è nota negli ambienti militari come perception management, cioé “gestione delle percezioni”.
Il sito del Ministero della Difesa ne fornisce persino una definizione: “Azioni tese a trasmettere o negare al pubblico indicatori e informazioni selezionate, al fine di influenzarne emozioni, motivazioni e obiettivi, nonché dirette a sistemi di intelligence e a leader a tutti i livelli, al fine di influenzarne le scelte e orientarne le decisioni in modo favorevole agli obiettivi di chi produce l'azione”.
Una strategia adottata fin dalla fondazione della federazione, perfezionata a partire dal 1990 durante la prima guerra del Golfo: da allora i militari, in tempo di guerra, hanno tenuto fermamente in mano le redini dell'informazione, pur in presenza di folte rappresentanze di giornalisti, dotati di mezzi sofisticati, ma disposti a farsi irreggimentare.
Sarebbe sufficiente ricordare le immagini del cormorano impiastricciato di petrolio che commossero tutti nel gennaio 1991: divenuto simbolo della crudeltà di Saddam Hussein, il filmato venne diffuso dalle TV di tutto il mondo senza nemmeno chiedersi chi mai avesse effettuato le riprese in una zona ancora controllata dal nemico. A guerra finita quelle immagini si rivelarono costruite in studio e si seppe che, mentre il mondo piangeva il presunto disastro ecologico, l'esercito USA seppelliva vivi nelle trincee nel deserto migliaia di soldati iracheni: un crudele massacro di cui non sono mai circolate immagini e del quale il numero dei morti si conosce solo approssimativamente.
Anche in patria e in tempo di pace, il perception management funziona. Come in un romanzo di Ian Fleming, il giornalista australiano si è trasformato in un'infida spia e gli americani si sono convinti che il vero pericolo per la libertà e la sicurezza non siano i segreti del pentagono e della CIA ma il reporter che li ha portati alla luce, rivelando verità scomode. Eppure non si registra una sola vittima a causa delle rivelazioni di Wikileaks e non è affatto chiaro in che modo esse avrebbero messo in pericolo gli americani.
La pubblicazione di quei documenti avrebbe dovuto piuttosto danneggiare la credibilità delle istituzioni, visto che ha portato alla luce violazioni dei diritti umani nella base di Guantanamo, uccisioni indiscriminate di civili in Afghanistan e Iraq, bombardamenti coi droni sullo Yemen, mistificazioni e approssimazioni in occasione degli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001. Ma le strategie di comunicazione adottate hanno sviato l'attenzione del pubblico dai contenuti.
Dalle guerre indiane all'invasione dell'Iraq, qui la storia è costellata di presidenti criminali che hanno lanciato campagne di guerra per coronare sogni espansionistici, aprire canali commerciali e favorire ogni sorta di loschi affaristi. Nessuno di questi signori ha pagato per i crimini commessi. Tutti3, indistintamente, hanno fatto appello agli alti ideali della patria, alla generosità del paese, alla sua missione cristiana di portare al mondo la luce della civiltà e liberare i popoli dalle catene dell'oppressione, dalle tirannie e dai totalitarismi. Messaggi diffusi grazie ai mezzi di comunicazione di volta in volta disponibili, secondo lo sviluppo tecnologico dell'epoca.
La copertura dei mezzi d'informazione
Al tramonto dell'ottocento William McKinley, concluse ormai
le guerre indiane e stabilito il confine occidentale sulla costa
del Pacifico, arringò le folle per settimane, girando
il paese a bordo di un treno attrezzato per i suoi comizi, per
promuovere una nuova avventura bellica, che non esitò
a definire “missione divina”, mirante ad assumere
il controllo dei possedimenti spagnoli nei Caraibi e nel Pacifico.
Le ostilità ebbero poi inizio il 15 febbraio 1898, a
seguito di un incidente navale, forse orchestrato ad arte per
farne poi ricadere la colpa sul nemico4. Il vero
obiettivo di quel conflitto non era la liberazione dei popoli
dal giogo spagnolo ma la supremazia USA sui mercati mondiali.
Il dominio sulle Filippine e sulle Hawaii era infatti strategico
per garantire il controllo delle vie commerciali nel Pacifico.
I filippini però resistettero all'occupazione e gli USA
reagirono con violenza inaudita, colpendo i civili con torture,
esecuzioni sommarie, stupri, saccheggi, deportazioni di massa,
distruzione di villaggi e colture.
Gli storici stimano che almeno 200.000 filippini morirono di
fame e a causa delle epidemie. McKinley, forse il primo nella
storia, descrisse però l'operazione come “umanitaria”,
dicendosi addolorato per gli “stolti” filippini
che rifiutavano di comprendere i benefici della generosità
americana. Poche foto di fosse comuni restano a testimonianza
di tanta generosità.
Woodrow Wilson, presidente dal 1913 al 1921, figlio di un pastore
presbiteriano, si diceva convinto che la sua elezione fosse
stata voluta da Dio stesso. Ordinò interventi militari
in sei paesi centroamericani per “ristabilire l'ordine
e proteggere gli interessi statunitensi nell'area”. Per
risolvere la contraddizione fra promozione della democrazia
e imposizione del potere militare usava dire: “Ciò
che è buono per gli USA è buono anche per il resto
del mondo”.
L'elenco potrebbe essere molto lungo. Stupisce che in ciascuno
di questi episodi la stampa abbia avuto, con rare eccezioni,
un ruolo subalterno, accodandosi quasi sempre alle versioni
ufficiali. Esemplare, in tal senso, l'atteggiamento tenuto dai
mass media durante la guerra fredda: secondo la storica Nancy
Bernhard i mezzi d'informazione si sottomisero allora del tutto
volontariamente alle necessità della propaganda. L'amministrazione
esagerò a tal punto il pericolo comunista da spingere
la stampa a schierarsi compatta nell'acritica difesa dei valori
dell'americanismo.
In uno storico discorso al Congresso, il 12 marzo 1947, Truman,
che aveva già santificato i massacri atomici in Giappone,
senza ottenere neanche un grido di sdegno da parte del quarto
potere, incoronò gli USA come paladini della libertà
mondiale contro i regimi totalitari, annunciando la guerra fredda
con parole che il finanziere Bernard Baruch definì: “Equivalenti
al lancio di una guerra di religione”.
Il giorno dopo il New York Times non esitò a titolare:
“Le iniziative di Truman per salvare le nazioni dal dominio
rosso”. Da lì a poco, sorretta da una campagna
stampa ampiamente favorevole, cominciò la guerra in Corea
dove, secondo il Ministero della Difesa, i soldati americani
combattevano “per proteggere lo stile di vita americano
dal comunismo globale”. Quel conflitto inutile costò
la vita a oltre un milione di persone, in stragrande maggioranza
quei civili coreani che gli USA si erano impegnati a proteggere
dalla minaccia rossa.
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Tucson (Arizona), 2005 - Manifestazione contro George W. Bush e le sue bugie riguardo alla guerra in Iraq |
Fandonie in mondovisione
Nessun politico è mai finito sul banco degli imputati per i crimini, gli omicidi di massa, le folli spese militari, le fandonie in mondovisione. Nemmeno George W. Bush e il suo entourage sono oggi ricordati per aver convinto il mondo alla guerra, nel 2003, con la bugia delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
Quando i presidenti fanno appello al patriottismo i mass media si schierano, la libertà di stampa e di pensiero si auto-sospende, nessuno vuole essere marchiato a fuoco con l'accusa infamante di essere ”un-American”. Accade così che il pluriomicida Bush possa, di tanto in tanto, apparire in TV, per spiegare i buoni esiti della “sua” politica estera, ma non vi sia spazio per ragionare su Assange, nemico della nazione: per lui la gogna mediatica è assicurata.
Intanto, nuovi venti di guerra agitano le acque. La notizia di un altro strano incidente navale ha fatto il giro del mondo e lo zio Sam non ha esitato a puntare il suo famoso dito accusatore contro l'Iran. La CIA ha tirato fuori dal suo magico cilindro certe immagini sfocate che proverebbero il coinvolgimento di Teheran nel sabotaggio di due petroliere inglesi. Come sempre, le TV le hanno mandate in onda senza verificare i fatti, facendole commentare da giornalisti schierati, immemori dell'inganno del cormorano morente.
Siamo stati a un passo dalla rappresaglia a stelle e strisce, fermata all'ultimo momento da un presidente lunatico e fuori controllo. Ma la tragedia è alle porte, molti qui ne sono convinti e dicono che prima o poi questo conflitto scoppierà, aprendo nuovi scenari da incubo.
Anche la prima rappresaglia statunitense sul Vietnam del Nord, nel 1964, ebbe luogo a seguito di un incidente navale: la famosa storia del cacciatorpediniere Maddox attaccato dalla marina nordvietnamita nel Golfo di Tonkino. McNamara, il Segretario di Stato dell'epoca arringò il parlamento federale e la guerra cominciò. Il fatto venne in seguito smentito o assai ridimensionato dallo stesso comandante della nave, ma ormai la carneficina era cominciata e non si fermò per oltre un decennio. L'incidente navale è uno degli strumenti preferiti dal Pentagono per iniziare una guerra: i fatti avvenuti in mezzo all'oceano sono difficili da verificare ed è facile manipolarli a proprio favore. Quando poi la verità viene a galla è sempre troppo tardi e non importa più a nessuno.
Uccidere va bene, lo dice il governo
Anche Trump, se davvero deciderà di attaccare l'Iran, farà appello ai superiori interessi della patria e della democrazia. Anche se lo odia, il quarto potere lo assolverà, come ha assolto tutti i presidenti prima di lui e se finirà sul banco degli imputati non sarà certo per crimini di guerra. Come ebbe a ironizzare Joan Baez ai tempi del Vietnam: “C'è consenso sul fatto che uccidere vada bene quando è il governo a decidere chi debba essere ammazzato. Se uccidi dentro il paese sei nei guai, ma se uccidi all'estero, scegliendo il momento giusto, la stagione giusta, il nemico designato, allora ti danno una medaglia”. Finì un po' in carcere per questa sua franchezza e non so se nessun uomo politico le abbia mai chiesto scusa.
Nel frattempo Suzie ha salito un gradino della sua carriera e la scrivania di fronte a me è nuovamente vacante. È sempre gentile, al mattino mi sorride, mi saluta, mi racconta dei figli. Di Assange, invece, non abbiamo più parlato, solo che ora, quando la incontro, la vedo in una luce diversa. Penso a come siano state piegate le sue convinzioni agli schemi prefissati dal potere e, di riflesso, mi chiedo quanto siano davvero libere le mie.
Forse siamo tutti vittime inconsapevoli del perception management.
Santo Barezini
- Per i tipi della Oxford University Press, la Brewer ha pubblicato fra l'altro: To Win the Peace: British Propaganda in the United States During World War II (2007) e Why America Fights: Patriotism and War Propaganda from the Philippines to Iraq (2009).
- Donald Rumsfeld è stato due volte Segretario di Stato dal 1975 al 1977 con Gerald Ford e dal 2001 al 2006 con George W. Bush.
- Secondo gli annali, Jimmy Carter (al potere dal 1977 al 1981) è l'unico presidente a non aver mai promosso un'azione militare o dichiarato una guerra durante il suo mandato.
- La distruzione del cacciatorpediniere Maine, ancorato nel porto dell'Avana, il 15 febbraio 1898, costò la vita a 266 membri dell'equipaggio. Un'inchiesta della marina militare USA attribuì poi le cause dell'esplosione a un problema tecnico del sistema di alimentazione.
Niente
giornalismo, solo propaganda
Nel
numero “A” 405 (marzo 2016), all'interno del
dossier “Voltare
le spalle alla guerra”, abbiamo pubblicato le
testimonianze di otto disertori delle forze armate statunitensi
impiegati nella “guerra al terrore” iniziata
nel 2001.
Tra queste era presente anche la testimonianza
di Samantha Schutz, ex giornalista dell'esercito,
che riportava gli sforzi fatti dell'esercito statunitense
per manomettere le informazioni relative ai conflitti
armati.
Il numero “A” 405 potete acquistarlo o leggerlo
qui.
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