Rivista Anarchica Online





Educazione/
Uomini e donne, né imitazione né contrapposizione

Ho letto su “A” 435 (giugno 2019) dell'incontro tenutosi presso il circolo “la Scighera” di Milano lo scorso mese di marzo, riguardante il progetto Quartiere educante che si sta costruendo a partire dalle idee espresse in quella Gaia Educazione Diffusa ideata dal professor Paolo Mottana, ampliando e immaginando la messa in pratica di pensieri come quelli di Fourier, Tolstoj, Illich e Schérer.
Con piacere quindi inizio a scrivere di un libro che raccoglie i contributi teorici, parte delle progettazioni didattiche, oltre ad alcuni esempi di lavori svolti nelle classi, seguiti a un corso di formazione per insegnanti. Piacere che nasce dal vedere piccoli ma importanti esempi teorici e pratici che cercano di modificare in maniera radicale le relazioni educative e vanno ad alimentare un'idea che sogno e coltivo fin dalla gioventù: quella che non si può pensare di trasformare la società se non si cambia in maniera sostanziale il sistema educativo che la sostiene.
Non sono i bambini e le bambine a dover crescere fatti su misura per la società – in fondo questo, dove più dove meno, è sempre stato scopo della scuola fin dalla sua origine – ma si può pensare il contrario e credere che educare significhi anche renderci in grado di immaginare come si vuol vivere e immaginare in maniera differente.
Insegnare la libertà a scuola. Proposte educative per rendere impensabile la violenza maschile sulle donne è un libro curato da Mariella Pasinati e pubblicato dall'editore Carocci di Roma (pp. 304, € 31,00). Uscito nel 2017, in seguito al corso triennale di formazione docenti promosso dall'Ufficio Scolastico Regionale per la Sicilia, insieme alla Biblioteca delle donne e al centro di consulenza legale UDI Palermo, propone e racconta esempi di un agire educativo fondato sulle pratiche trasformatrici delle donne. Cosa significa questo?
Ho già citato lo stesso libro nella riflessione che feci a seguito della grande manifestazione di Verona contro il famigerato congresso delle famiglie (vedi ancora “A” 435) perché più risonanza viene data a tutti quei lavori che hanno come obiettivo centrale quello educativo e su quello agiscono in maniera sostanziale e radicale, meglio è. Il lavoro delle donne in questo senso è fondamentale e lo sarebbe ancora di più se si potessero creare sinergie, scambi e collaborazioni con altri progetti come quello sopra citato. Ad ogni modo, un passo alla volta.
Nel retro copertina del suddetto volume si legge:
“Noi pensiamo che solo la stima di sé possa salvare le donne dalla violenza, perché le renderà capaci di riconoscere la violenza prima che accada, le aiuterà a non affidarsi ciecamente e a contare sulle proprie forze. Il resto, le leggi, i provvedimenti, l'ascolto possono aiutare, ma la stima di sé è l'essenziale. Per questo tutti i mezzi di formazione e informazione sono determinanti. Le donne, le ragazze, le bambine hanno bisogno di storie di donne, di figure femminili forti che consentano loro un'identificazione positiva. Hanno bisogno di essere raccontate fuori da quel senso aggiuntivo che troppo spesso le significa. Hanno bisogno di raccontarsi anche con allegria fuori dall'immaginario maschile.”
In queste parole è l'essenza del libro, il nucleo portante di tutti gli interventi e testimonianze, raccolti in un volume assai denso di stimoli che ritengo possa essere davvero utile a tutte le donne che insegnano (la quasi totalità del personale insegnante nella scuola primaria è femminile) e, ovviamente, speriamolo, agli insegnanti.
Punto di partenza – nel libro e nella pratica – è il riconoscimento di come la violenza sulle donne sia principalmente una “questione maschile”. Non si tratta di sola violenza fisica e psicologica, ma – vorrei quasi dire soprattutto – di quella violenza simbolica, assai poco vista con chiarezza, che sta alla radice delle altre ed è quella su cui occorre lavorare in ambito educativo, già a partire dalla scuola materna.
Infatti di violenza simbolica è intessuta la nostra cultura occidentale che, come i miti ci mostrano in abbondanza, è basata sulla cancellazione della figura materna e delle genealogie femminili. “La posizione delle donne nell'ordine sociale e simbolico è stata segnata da una condizione di secondarietà nella quale il femminile non ha trovato una sua significazione autonoma, un'espressione indipendente dai modi in cui l'essere donna è stato detto e pensato dall'uomo.
Così ancora oggi (...) alla valorizzazione dell'essere uomo nella lingua e nella cultura corrispondono, per il genere femminile, cancellazione, svalorizzazione e, in campo educativo, una crescita culturale delineata sul modello maschile.”
A questo punto di partenza segue il principio – cardine del percorso formativo – che la pratica educativa sia segnata dalla differenza sessuale e che questo implica la messa in discussione dell'intero impianto pedagogico e delle discipline che vengono insegnate. Nella pratica significa dover costruire un linguaggio nuovo che sia in grado di raccontare l'essere donna e l'essere uomo, in modo che studentesse e studenti possano crescere nella consapevolezza della parzialità, che ciascuna/o in sé è perfettamente umano e non deriva dall'altro, né per imitazione, tantomeno per contrapposizione.
Operazione preliminare a tutto questo è che le/gli insegnanti sappiano stare nella parzialità come principio del loro agire educativo quotidiano, prendendo le distanze dal sapere maschile finto neutro.
L'omologazione al maschile è chiaramente il segno più evidente di quello che è stato giustamente definito “stupro simbolico”; sarà quindi fondamentale togliere il velo di neutralità e mostrare sempre chi è il soggetto che ha dato origine ai saperi e alle discipline che si vogliono trasmettere, ricercandone anche i limiti.
Primo fra tutti denunciare la cancellazione della differenza sessuale e la negazione violenta del femminile in una cultura che, semplicemente, non la prevede. Anche se – come ci ricorda una nota finale – il comma 16 della legge 107 del 13 luglio 2015 stabilisce che il piano triennale dell'offerta formativa debba assicurare “l'attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni”.
Mettere in pratica la teoria evidentemente è sempre altra cosa e per questo sono molto significativi gli esempi di progettazioni didattiche e le testimonianze delle corsiste che spostano il racconto sul piano pratico dell'esperienza.
In conclusione ci rendiamo ben conto di quanto radicale e necessaria sia la rivoluzione da parte delle donne – certamente in atto non solo da ora – e come sia importante farla penetrare in maniera sostanziale e irreversibile nella scuola. Il mio è davvero un caloroso invito, rivolto a tutte quelle donne e uomini che educano – in primo luogo le loro figlie e figli, ma ancor di più se insegnano – ad andare oltre quella parità di diritti che comunemente si ritiene raggiunta e interrogarsi, osservare, indagare, se si ha a cuore la giustizia e il futuro di cui bambine e bambini di oggi saranno le/i protagoniste/i.
Come le/i immaginiamo vivere?

Silvia Papi



“Caccia al moro”/
Il cuore di tenebra del colonialismo italiano

"Ho promesso a mia mamma di mandarle una pelle di un moro per farci un paio di scarpe", canta un giulivo Topolino in camicia nera, "armato di fucile e gas asfissiante". Topolino va in Abissinia fu la canzone più venduta del ventennio, così come la guerra d'Etiopia quel tragico genocidio che l'Italia non (ri)conosce ancora come proprio crimine.
Cronache dalla polvere (Bompiani, Milano 2019, pp. 274, € 15,00) è un mosaic novel sul cuore di tenebra del colonialismo italiano, che fa riemergere dall'oblio il passo più atroce di questa storia. Un romanzo urticante e toccante, scritto a più mani e fatto di racconti, firmato Zoya Barontini dove Zoya significa alba e Barontini è Ilio, comunista toscano, organizzatore della resistenza etiope degli arbegnuoc fino alla cacciata degli italiani.
"Accostò le pietre, le spine, gli accampamenti, i tucul bruciati, mucchi di cadaveri abissini stranamente arsi, macchiati nella pelle, incartapecoriti, liquefatti come fossero stati di burro, violentati da una magia nera. Un tenente gli disse sottovoce: siamo noi i creatori di questa magia, la gettiamo dal cielo e bruciamo guerrieri, donne, vecchi e bambini. Ma Goffredomameli rispose: Io me ne frego".
L'intervento italiano in Etiopia fu possente e senza scrupoli, con l'uso massiccio di gas iprite in spregio alla convenzione di Ginevra sottoscritta dalla stessa Italia fascista. Oltre 250.000 le vittime etiopi, e all'apice dell'orrore l'immane rappresaglia per l'attentato al Viceré Graziani nel febbraio 1937, quando civili, militari e fascisti scatenarono una forsennata caccia al moro, il massacro della popolazione etiope, migliaia di morti e di abitazioni distrutte.
"Gli italiani sciamavano ovunque, impazziti e feroci (...) A bordo delle Autocarrette om36 e dei camion fiat 618c i soldati ridevano come nei giorni di festa. Si erano dati da fare sparando a vista a un branco di abissini in fuga, civili qualunque col terrore negli occhi e le gambe veloci." Sono questi i giorni in cui si snodano le allucinate e allucinanti cronache dalla polvere, fino all'eccidio della città conventuale di Debrà Libanòs, dove "i monaci erano stati massacrati in modo sistematico (...) il paese distrutto nel corpo, lì era stato distrutto anche nello spirito".
E poi le spose bambine del madamato, che l'austero Indro Montanelli persino rivendicava: "Quanto vuoi per questa? Cinquecento lire. È troppo, non le vale. Posso darti anche un cavallo e un fucile. L'altro aveva detto va bene e l'aveva comprata. L'uomo era un italiano (...) era stata costretta a essere la moglie di un nemico, che poi se n'era andato, all'improvviso, per tornare in Italia dimenticandosi di lei". E, ancora, l'aberrante mito della razza: "Un prete in camicia nera aveva raccontato come secondo quei selvaggi i morti parlassero (...) soprattutto con i bambini e i puri di cuore (...) Si era fatto una risata aggiungendo che Non ci sono negri puri di cuore".
I tentativi di processare i responsabili di crimini di guerra non trovarono mai una Norimberga italiana e quei crimini rimasero impuniti. La storia di quella sporca guerra coloniale, di quel massacro dimenticato, è stata comunque scritta (Angelo Del Boca su tutti); continua però incredibilmente ad essere oggetto di una costante rimozione più forte della verità, "in quel vuoto di storia e di identità, [ci] si illude che il mondo possa rinascere di nuovo, lavato da una pioggia che non arriva".
Ecco allora che soccorre il racconto, perché "ci si salva comunque se si conservano le storie", capaci – forse ancor più di ennesimi saggi – di squarciare il velo ispessito di quella rimozione, risvegliare l'indignazione più pura e restituire coscienza e dignità. "Aisha era viva per questo motivo: avrebbe raccontato ogni cosa, avrebbe raccontato la verità e restituito ogni colore al suo paese, alla sua gente. Avrebbe impedito che sbiadissero come spettri, che venissero dimenticati". [E qui non si può non rammentare Regina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi (Donzelli, Roma 2007) che mirabilmente percorre medesimi sentieri.]
La lettura è avvolgente e spaesante insieme, spesso universale e poetica. A volte un racconto pare galleggiare ordinato, poi “in pochi secondi” precipita con un vortice di spari e corpi a brandelli in un epilogo di morte, anche di chi rivive attonito “la maledizione che aveva contribuito a innescare”. “All'improvviso provò un'immensa e inspiegabile pena per i figli meticci di quella madre sotto di lui. Di bastardi così ce ne potevano essere anche di suoi in giro per l'Africa. Pensò al suo paese, all'impero, al cortile in cui giocava da piccolo. Pensò che nascere italiano, crescere fascista e morire iena fosse strano e misero”. Ma qui non c'è più né Italia né Africa, solo la guerra che confonde presente e futuro e li uccide, la violenza del presente che si ripete all'infinito e lì gli uomini ad assistere alla distruzione di se stessi.
Ogni pagina è intrisa della polvere di quella terra d'Etiopia, quasi a rarefare vite e pensieri nell'aria che si respira. Così come tutto esalta la cultura ancestrale di quella civiltà antica, patria di Memnone alla difesa di Troia – “un guerriero che seppur sconfitto continuava la sua lotta dall'aldilà. Un eroe fantasma, nero come lui, riccio come lui” – e culla del cristianesimo primigenio copto, a impregnare di sé l'intera cultura d'occidente.
Ogni racconto intreccia sempre “due mondi”, osmosi di corpi e di anime, e (con)fonde due piani entrambi di vita e verità. “Si sentiva a cavallo di una breccia. Tagliato a metà tra il mondo reale e quello dei sogni, con un orecchio teso alla voce dei vivi e l'altro a quella degli spiriti (...) ma solo chi ha il cuore puro può vedere i morti. Solo chi ha coraggio. O solo quelli che come te sanno schierarsi”.
Sono dieci i racconti che fanno il romanzo, corredato da una scheda storica, un Glossario e una bibliografia che affiancano un prezioso finale, "Ritratto di famiglia 1937". Qui gli undici autori – Massimo Gardella, Lorenza Ghinelli, Sirio Lubreto, Gaia Manzini, Michela Monferrini, Davide Morosinotto, Davide Orecchio, Guglielmo Pispisa, Igiaba Scego, Aldo Soliani, Nicoletta Vallorani – con l'illustratore Alberto Merlin e il curatore Jadel Andreetto, danno vita a una sorta di costellazione familiare, ognuno a (rin)tracciare sulla memoria dei nonni il senso del narrato.
“So che nessuno ha mai voluto raccontarmi della guerra perché lascia ferite profonde e profondi segreti. E so che è anche per questi silenzi che la storia si ripete”.

Massimo Lanzavecchia



Migrazioni/
Una realtà al di là dell'immaginabile

Il fotografo e illustratore Mirko Orlando si è inoltrato nel limbo che vivono i migranti sopravvissuti e arrivati in questo “Paradiso” chiamato Italia; li ha incontrati, ha condiviso alcune delle loro giornate, delle loro attese e delle loro storie. E con doveroso rispetto, queste sono le storie che vengono raccontante in queste pagine, reali, brevi e intense, ma soprattutto normalmente invisibili agli occhi.
Dove sono i sopravvissuti alla morte nera del Mediterraneo? In questo libro (Paradiso Italia, Edicola Ediciones, Ortona – Ch 2019, pp. 192, € 20,00) escono dai numeri e l'autore vuole dichiaratamente riportare la loro umanità e il loro punto di vista, raccontandoci la vita di uomini e donne migranti che si sono fermati e che vivono intorno a noi con uno stile della narrazione ricercato e intenso.
Storie degli occupanti dell'ex Moi di Torino, dei rifugiati delle baracche nella periferia di Ventimiglia, di chi tenta la fuga disperata tra le nevi della Val di Susa e di chi si è arenato come nuovo “schiavo” bracciante nel ghetto Borgo Mezzanone.
Un interessante reportage sul tema della migrazione per niente compassionevole, che si posiziona in uno spazio raccontato da pochi, che vuole aprirci gli occhi sulla realtà vissuta dai superstiti arenati nel loro lungo viaggio.
Lo stile è molto particolare, alterna fotografia e fumetto, con disegni e immagini crude e taglienti usando un bianco e nero cupo e dai forti contrasti. Le pagine non sono fatte per scorrere veloci, ma rispecchiano il senso di attesa di chi sta aspettando, giorno dopo giorno, sospesi all'interno di questa penisola.
Immobilità e rassegnazione, persone che stanno perdendo la loro identità vagando nella costrizione e nell'immobilità, vite ferme in uno stato di passaggio, in un limbo senza fine.
Il “Paradiso” viene quindi smascherato, Orlando parte infatti dal suo antico significato di “recinto”, i migranti si ritrovano stazionanti, circondati da mura invisibili ma invalicabili, nonostante questo non stanno in silenzio, continuano a lottare per la loro libertà, ma ogni lotta sembra soffocata e velocemente dimenticata.
Questo libro è come un grido a non restare in silenzio, uno stimolo a scoprire “quella massa di disperati che ci gira intorno”, un punto di riflessione sull'importanza di addentrarsi nella conoscenza in prima persona, per cercare di capire per quanto possibile; anche se, come scrive Orlando: “Questi occhi mi dicono al contrario che la realtà non solo non è immagine, ma non può neppure essere immaginata”.

Valeria De Paoli



1969, prima di piazza Fontana/
Le prove generali di una strage

Tra i vari libri usciti a ridosso del 50° anniversario dei fatti del dicembre 1969, quello di Paolo Morando viene qui presentato con due recensioni. La prima di Guido Salvini, magistrato impegnato per anni nell'onesta ricerca della verità giudiziaria e storica (e, da giovane, nostro attivo compagno anarchico a Milano), la seconda di Matteo Colò, mediattivista e sindacalista.

Il processo per la strage di piazza Fontana ha avuto un'anteprima giudiziaria che ben pochi ricordano. È il processo, raccontato nel libro di Paolo Morando (Prima di piazza Fontana. La prova generale, Laterza, Bari 2019, pp. 384, € 20,00), contro un gruppo di anarchici milanesi, i fratelli Ivo e Angelo Della Savia, Paolo Braschi, Tito Pulsinelli, Paolo Faccioli, accusati di aver collocato le bombe esplose il 25 aprile 1969 alla Fiera Campionaria a all'Ufficio Cambi della Stazione Centrale di Milano.
Gli anarchici erano stati incriminati sulla base di testimoni falsi e grazie a confessioni estorte con la violenza nell'Ufficio Politico della Questura di Milano come si legge nelle interviste che Morando ha raccolto dagli imputati di allora ancora viventi.
Con loro era stato incriminato per falsa testimonianza anche Giangiacomo Feltrinelli, l'obiettivo ultimo e più importante dell'operazione diretta dall'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno.
In realtà i due attentati erano opera della cellula padovana di Freda e Ventura, per quelle bombe i due ordinovisti sono stati condannati nel processo di piazza Fontana, e facevano parte di quella escalation di attentati che sarebbe giunta al culmine con la strage del 12 dicembre.
Gli anarchici arrestati e portati in aula non erano innocui pacifisti, effettivamente avevano commesso alcune azioni dimostrative contro edifici pubblici e basi americane, ma non quelli del 25 aprile 1969.
L'accusa agli anarchici per gli episodi di quel giorno serviva con ogni probabilità a rendere credibile l'attribuzione a quel mondo anche della strage alla Banca Nazionale dell'Agricoltura. Gli obiettivi prescelti, anche il 25 aprile una banca e la Fiera campionaria, erano del resto “anticapitalisti” e “anticonsumisti” e quindi gli attentati potevano essere travestiti da azioni anarchiche.
Paolo Morando, che ha studiato tutte le carte di quel processo dimenticato, riporta nel suo libro, in una scansione serrata, gli atti delle principali udienze nel corso delle quali le accuse si erano via via sgretolate, tanto che lo stesso Pubblico Ministero Antonino Scopelliti al termine del processo aveva chiesto l'assoluzione degli imputati per tutti i reati più gravi, assoluzione confermata dalla sentenza della Corte d'Assise del 28 maggio 1971 proprio mentre stava nascendo la pista nera.
È un libro, preciso e documentato, da leggere per non dimenticare il “primo tempo” dell'operazione di depistaggio che ha percorso tutto quel tragico anno 1969.

Guido Salvini




Angelo Pietro Della Savia, Paolo Braschi, Tito Pulsinelli, Paolo Faccioli, Giuseppe Norscia e Clara Mazzanti. Questi sono i nomi degli involontari protagonisti del libro di Paolo Morando Prima di piazza Fontana – La prova generale uscito a giugno e pubblicato da Laterza (Bari 2019, pp. 384, € 20,00). Si tratta di sei militanti anarchici (ingiustamente) accusati dalla Questura di Milano e in particolar modo dall'allora Ufficio Politico di essere responsabili delle bombe del 25 aprile 1969. Quel giorno a Milano due bombe fecero molto rumore. La prima esplose allo stand della FIAT alla Fiera Campionaria provocando 20 feriti. La seconda esplose all'interno dell'Ufficio Cambi della Stazione Centrale di Milano facendo danni, ma senza ferire nessuno. Era un periodo complicato per l'Italia, circondata com'era da regimi autoritari (in Portogallo, Spagna e Grecia) che molti nel nostro Paese guardavano con grande attenzione. Il '68 studentesco aveva scosso la palude del mondo universitario e l'intera, stagnante società italiana.
La Questura di Milano, allora guidata da Giuseppe Parlato sostituito in estate dal famigerato Marcello Guida, uomo per tutte le stagioni ed ex-direttore della colonia di confino politico di Ventotene sotto il regime fascista, agì con grande celerità e apparente efficienza indirizzando subito le indagini verso l'area anarchica e arrestando, nel giro di pochissimo tempo, sei persone accusate degli attentati.
Comodo obiettivo gli anarchici! Del resto, come si diceva in Questura, non erano stati proprio loro a mettere la bomba al Diana nel 1921?
Il libro di Morando ci offre una narrazione serrata e avvincente, ricchissima di particolari e con una ricerca documentale di ampia portata. Ne emerge la pervicacia con cui l'Ufficio Politico guidato da Allegra e Calabresi indagò sulla pista anarchica cercando in tutti i modi di collegarla alla figura di Giangiacomo Feltrinelli, l'editore rivoluzionario, vera e propria ossessione della Questura milanese e non solo.
Ma le sorprese non sono ovviamente finite. Sì, perché nella notte tra l'8 e il 9 agosto ’69 ben dieci bombe vennero piazzate su treni in giro per la Penisola. Otto di queste esplosero e due rimasero inesplose. La esplosioni provocarono 12 feriti. E la pista seguita dalle indagini, ovviamente, fu quella anarchica con nessuna attenzione verso quella di estrema-destra. A queste bombe seguì l'Autunno Caldo con durissimi conflitti sul lavoro e milioni di ore di sciopero.
Il crescendo raggiunge il suo apice il 12 dicembre 1969 con la bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura che provocherà 17 morti e 88 feriti di cui, proprio quest'anno, ricorrerà il 50° anniversario. Non sarà l'unica bomba di quella tremenda giornata. Nel giro di meno di un'ora altre tre bombe esplosero a Roma provocando 16 feriti. Un'altro ordigno venne trovato inesploso nella sede della Banca Commerciale Italiana di piazza della Scala. Di nuovo, gli anarchici nel mirino, con decine di fermi in poche ore.
Giuseppe Pinelli, trattenuto illegalmente in Questura ben oltre l'orario di fermo consentito dalla legge, precipitò da una finestra nella notte tra il 15 e il 16 dicembre. Contemporaneamente venne arrestato l'anarchico Pietro Valpreda, accusato della strage.
Solo nel 1971 la magistratura indirizzerà le indagini verso i neo-fascisti veneti di Ordine Nuovo con l'arresto di Franco Freda e Giovanni Ventura. Nel giugno 2005, dopo un lunghissimo iter giudiziario, la Corte di Cassazione confermerà la responsabilità di Freda e Ventura in ordine alla strage. Entrambi però non hanno potuto essere messi nuovamente sotto processo poiché, secondo l'ordinamento italiano, essendo stati assolti irrevocabilmente dalla Corte d'Assise d'appello di Bari anni prima (che li ha condannati solo per le bombe sui treni dell'agosto '69) non potevano essere ri-processati per lo stesso reato.
L'accuratissima ricostruzione di Morando rispolvera anche il documento pubblicato dal settimanale inglese “The Observer”, a opera del giornalista Leslie Finer, proprio pochi giorni prima del massacro di piazza Fontana. Si tratta di un documento riservato del maggio '69 dei servizi segreti greci dell'allora dittatura dei colonnelli, in cui si faceva chiaro riferimento a progetti in chiave anti-comunista messi in piedi dalle autorità italiane con una citazione diretta delle bombe del 25 aprile.
Mentre ci si addentra nella lettura del libro, ci si rende via via conto del ruolo di primo piano ricoperto dall'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno all'epoca guidato dal potentissimo Federico Umberto D'Amato. È la spinta degli Affari Riservati infatti a indirizzare la Questura di Milano sulla pista anarchica.
A questo punto si aprono tutti i possibili scenari che cercano di spiegare lo scopo finale della Strategia della Tensione: c'è chi, come i fascisti, sperava che la strage sarebbe stata la “spintarella” per portare a un regime militare, c'è chi, come i settori democristiani e lo stesso Presidente della Repubblica Saragat, auspicava che lo stato di tensione nel Paese portasse alla richiesta di un regime presidenziale e non più parlamentare sul modello francese; c'era invece chi voleva mandare un segnale chiaro al Partito Comunista spingendolo a più miti consigli dopo le grandi spinte di lavoratori e studenti del '68-'69. Insomma, nella strage di Milano nulla è come sembra e gli interessi si intrecciano.
Puntualissima anche la ricostruzione del processo per le bombe della primavera '69. A uscire malissimo dal dibattimento è la Questura di Milano responsabile di aver estorto delle false confessioni e di aver basato tutta la sua ricostruzione accusatoria sulla figura inattendibile e mitomane della confidente Rosemma Zublena. Per quelle bombe, come per quelle sui treni, verranno condannati in via definitiva i fascisti veneti Freda e Ventura.
A ridosso del 50° anniversario della “madre” di tutte le stragi che hanno insanguinato il nostro Paese, il libro di Morando è una lettura consigliata, soprattutto per le generazioni più giovani.

Matteo Colò



Il caso Mattei/
Nuove prove sulle responsabilità Usa

Il 27 ottobre del 1962, mentre sorvola Bascapè, un paese in provincia di Pavia, il piccolo aereo su cui viaggia Enrico Mattei, presidente dell'Eni (Ente Nazionale Idrocarburi), e che è diretto all'aeroporto di Milano, precipita a terra, provocando la morte di chi vi era a bordo: di Mattei, di un giornalista americano che lo accompagnava, William McHale e del pilota, Imerio Bertuzzi. Da subito, sul tragico evento, numerose saranno le inchieste dei giornalisti; dagli esiti divergenti, propendendo alcuni (pochi in verità) per la tesi dell'incidente in volo come causa del disastro, altri (i più), convinti invece che a far cadere l'aereo sia stato un qualche ordigno esplosivo, ben piazzato e programmato per far saltare in aria aereo e passeggeri in un preciso momento e in un preciso punto del tragitto del volo.
Fatto è, però, che l'accertamento dei fatti risulta difficile e quello della morte di Mattei diventa uno dei tanti 'casi' oscuri e misteriosi della storia d'Italia del '900, sul quale, ovviamente, s'è prodotto, nel tempo, una vastissima mole di reportage e saggi. Uno degli ultimi è quello di Egidio Ceccato, Il delitto Mattei (Castelvecchi, Roma 2019, pp. 256, € 19,50), che, attingendo alla copiosa produzione documentaria esistente sul 'caso' e facendone un ampio e ragionato résumé, ha soprattutto dato conto delle risultanze emerse nelle diverse investigazioni giudiziarie che, negli esiti finali (quelli dell'ultima sentenza emessa dal magistrato Calia), hanno mostrato la compatibilità della dinamica e dell'esame tecnico dell'incidente con la manomissione della funzionalità del velivolo a causa di un esplosivo posto al suo interno e hanno messo in luce come le rivelazioni dei pentiti di mafia e un attento esame degli eventi che hanno interessato le ultime settimane di vita di Mattei, mostrino chiaramente il contesto all'interno del quale sarebbe maturato il proposito di far morire Mattei.
Ceccato, ricostruendo la figura di Mattei, fondatore e capo dell'Eni, nella complessa storia italiana degli anni '50 e '60, ben delineando le caratteristiche umane e politiche del personaggio e i suoi metodi e il suo scopo, quello di far diventare quanto più autonoma l'Italia in ambito di risorse e scelte energetiche, attribuisce proprio a queste sue mire di tutela dell'Italia dalla dipendenza energetica, soprattutto dei potenti fornitori americani, (il cartello multinazionale delle 'Sette sorelle') il suo tragico destino, rinvenendo, tra le righe di un inedito documento del Dipartimento di Stato americano del maggio 1962, quasi la sua condanna morte. Infatti, rivela Ceccato, nella premessa alle Guidelines for Policy and Operations Italy (Direttive politiche e operative per l'Italia), indirizzate ai diplomatici Usa presenti in Italia, il Dipartimento di Stato americano lamentava il crescente sentimento di autoaffermazione, autonomia e finanche di neutralità in ambito diplomatico internazionale dell'Italia, ma in particolare menzionava, criticandolo, l'operato di Enrico Mattei, e lo imputava di "incauti acquisti di petrolio sovietico e di subdola generosità nei confronti dei Paesi produttori di combustibili fossili del Medio Oriente e del Nord Africa, incubatrice di sentimenti anticoloniali e antioccidentali".
Questo nuovo e inedito documento contribuirebbe notevolmente, secondo Ceccato, a suffragare l'ipotesi che la fine di Mattei sia stata decretata a livello internazionale da chi negli Stati Uniti non voleva venisse alterato lo status quo e non voleva però neanche essere riconosciuto come mandante, pensando bene di attribuire questo ruolo alla mafia siciliana, dato che Mattei era frequentemente nell'Isola, perché l'Eni vi aveva fatto importanti scoperte di giacimenti petroliferi e di gas metano e aveva posto le basi per la realizzazione di un grande polo petrolchimico di raffinazione e distribuzione del petrolio, nell'area di Gela, in provincia di Caltanissetta.
I legami tra Mafia e apparati degli States erano ’storici', così come lo erano con i politici siciliani che governavano l'Isola e che appartenevano sostanzialmente alla Democrazia cristiana. A questi ultimi, nel disegno criminoso internazionale, spettò il compito di chiamare Mattei in Sicilia, per un'altra delle sue tante visite. Il pretesto fu offerto dalle presunte rimostranze della popolazione di un piccolo centro dell'ennese, Gagliano Castelferrato, dove l'Eni aveva scoperto la presenza di gas metano nel sottosuolo, che voleva rassicurazione direttamente da Mattei sulla sua promessa di far costruire in paese una fabbrica in grado di dare lavoro ai tanti disoccupati del paese e del circondario, a mo' di scambio e di risarcimento per l'estrazione e l'utilizzo che l'Eni avrebbe fatto del prezioso gas metano di quel territorio. E, minuziosa e appassionante risulta la parte del libro che ricostruisce l'ultimo viaggio in Sicilia di Mattei che precede la sua morte, con la narrazione degli spostamenti nei luoghi (Gela, Gagliano Castelferrato, Nicosia, Catania), e l'incontro con i personaggi (in primis il presidente della Regione Sicilia, il democristiano Giuseppe D'Angelo, il dirigente siciliano dell'Eni, Graziano Verzotto) che sembrano far parte di una precisa e preordinata trama ordita ai danni di Mattei e tesa a facilitare, all'aeroporto di Catania, il lavoro dei sabotatori dell'areo su cui Mattei dovrà ripartire per Milano.
Il lavoro di Ceccato, infine, denunciando motivatamente i depistaggi, le omissioni e i silenzi dei governi nazionali, la superficialità di certa magistratura, le complicità interne allo stesso Eni, fornisce al contempo una ricostruzione storica coerente e supportata da fonti e testimonianze certe su quello che appare ormai obiettivamente non più come il 'caso', ma sicuramente come 'il delitto Mattei'.

Silvestro Livolsi



Shoa (e dopo)/
Una vita lieve sarà la mia vendetta sui nazisti

In questi giorni tanti di noi si stanno chiedendo con quali strumenti potremmo contrastare il razzismo e il fascismo, nuovamente amici delle grandi piazze. Da dove possiamo cominciare a ricostruire sensibilità universali, voglia di cultura, desideri solidali, umanità?
Di strategie, linguaggi e luoghi ci converrà provarne molti. E non sarà mai utile dubitare che possano servire. Noi siamo tuttavia innanzitutto certi che un buon nutrimento per il cambiamento si trovi nello studio del ’900 e dell'antifascismo, avvicinati con intelligenza, cura e lentezza. Guardare con attenzione quel passato aiuta a capire da che parte stare. Senza bisogno di prediche, né ricette esplicite.
La cultura e la storia antifascista sono promesse solide. Da spezzare e spartire come il pane ogni giorno, con piacere e curiosità insieme a una comunità e soprattutto ai suoi giovani. Ecco perché oggi vogliamo scrivere del libro di Yehudith Kleinman La bambina dietro gli occhi (Panozzo Editore, Rimini 2018, pp. 168, € 12,00), una delle rare biografie che possano essere avvicinate per comprendere la Shoah e detestare il razzismo fin da piccoli.
Si tratta della narrazione di una storia vera, di una storia italiana e di una storia che ha al centro lo sguardo di una bambina. Queste sono le tre qualità principali che rendono utile avvicinare questo libro anche ai bambini. Ciò che appare prima di tutto chiaro da questa lettura è il collegamento tra la Storia e il presente, segnalato da indizi geografici, luoghi vicini ed esistenti, riconoscibili anche attraverso documenti e fotografie inseriti nel testo.
Rimangono lontani, sullo sfondo, i nazisti tedeschi, i campi di sterminio, i nemici cattivi che i libri di storia stigmatizzano e che spesso per i bambini fanno parte di un mondo quasi irreale. Il racconto di Yehudith Kleinman si muove tra le note province di Milano e di Bergamo, raccontando la vita in clandestinità di una famiglia ebrea all'interno della quale nel 1938 nasce la protagonista e autrice del libro. In questo contesto tutto italiano la bambina assisterà all'arresto della madre e della nonna da parte dei carabinieri del paese, che tratterranno le due donne per due mesi presso il carcere di San Vittore. Solo dopo la fine della guerra, verrà a sapere che il 30 gennaio del 1944 la madre e la nonna erano state deportate dal Binario 21 della stazione Centrale di Milano verso Auschwitz. La piccola era stata salvata nel frattempo da una famiglia amica e successivamente nascosta in un convento.
I luoghi nominati e fotografati nel libro sono, oltre che italiani, tuttora esistenti. La casa di via Lambro, il convento che accolse Yehudith a Desio e che ora ospita una scuola dell'infanzia, l'orfanotrofio di Selvino vicino a Bergamo dove la bambina incontrò tantissimi altri coetanei ebrei sopravvissuti alla Shoah e accuditi dalla Brigata ebraica. Al museo del Memoriale di Milano Binario 21 è possibile leggere ancora i nomi della madre e della nonna che da quel luogo furono deportate.
La Shoah di Yehudith è una catastrofe che anche i bambini possono comprendere appieno senza che si citino camere a gas o milioni di vittime. Questo è un secondo argomento che rende il libro particolarmente efficace. La protagonista non racconta episodi esplicitamente violenti, seppure collocati storicamente in anni difficilissimi, ma racconta con semplicità il vagare di una bambina sola in cerca di sua madre. L'empatia con il suo dramma è immediata proprio perché questo dramma non assume proporzioni inimmaginabili per un bambino.
Tra le numerose possibili suggestioni offerte infine dal libro per l'approfondimento di tematiche interessanti sul piano storico, oltre che etico, vi è indubbiamente il tema della solidarietà. Anche in questo caso il principio che lega sensibilmente Storia e realtà presente è fortissimo. Basti pensare che la primavera scorsa, dopo più di settant'anni, l'autrice del libro ha incontrato a Desio alcuni membri della famiglia che all'epoca la salvò portandola in un convento.
Un altro spunto simile, di forte intensità emotiva e solidità sul piano storico, fa capolino nella prefazione del libro: si tratta di una lettera scritta dalla senatrice Liliana Segre a Yehudith Kleinman. Il 30 gennaio 1944, all'età di 13 anni, Liliana Segre venne deportata verso Auschwitz Birkenau dal Binario 21 della stazione centrale di Milano. Sullo stesso treno si trovavano anche la mamma e la nonna di Yehudith.
Il libro è stato presentato già in diverse occasioni a bambini della scuola primaria e della secondaria. La scrittura di Yehudith Kleinman è molto semplice e diretta e, in alcuni passaggi, utilizza argomenti estremamente efficaci. Crediamo che sia importante precisare tuttavia che La bambina dietro gli occhi non è una lettura facile per i ragazzi. Non si tratta cioè di un libro che i bambini potrebbero leggere in completa autonomia. Si tratta invece di uno strumento che può dare, se utilizzato con attenzione, ottimi spunti ai fini della conoscenza storica e dell'educazione ai sentimenti.
Una delle preoccupazioni che Yehudith Kleinman ribadisce spesso è inoltre il timore che la sua storia possa traumatizzare i ragazzi. In realtà, quando abbiamo lavorato con i bambini, noi abbiamo percepito soprattutto la loro forte empatia. “Una vita lieve e senza sensi di colpa sarà la mia vendetta sui nazisti”, scrive Yehudith. Il fatto che lei sia tuttora viva e che la sua vita attuale sia una vita felice, aiuta molto i bambini ad allontanare l'angoscia.
In una delle occasioni in cui abbiamo presentato il libro, abbiamo chiesto ai bambini di provare a immaginarsi di entrare nella storia, di esprimere pensieri od opinioni parlando direttamente a uno o più tra i personaggi incontrati durante il racconto. L'idea che si è cercato di comunicare ai bambini è che loro potessero in qualche modo far parte degli eventi, esprimendo il proprio plauso o il proprio dissenso. Soprattutto scegliendo di non essere indifferenti.
Una delle situazioni più coinvolgenti per i ragazzi si è rivelata essere quella dell'arresto della mamma e della nonna da parte dei carabinieri italiani. Riportiamo qui un'appassionata lettera di una classe 5° indirizzata ai carabinieri stessi che ci piace citare in chiusura di questa riflessione.
«Quando abbiamo sentito la storia fino in fondo ci è venuto da piangere e ci siamo chiesti: “Come avete fatto? Se noi fossimo stati in voi piuttosto ci facevamo mettere in prigione!”. Sappiamo che lo avete fatto perché c'era un ordine al quale dovevate ubbidire, però questo non era una cosa giusta e l'Italia con i tedeschi e con quelle leggi era un paese ingiusto. Non ci dimenticheremo di quello che abbiamo sentito, della storia di Yehudith e tutte le ingiustizie che molte persone hanno subito. Noi non dimenticheremo e ricorderemo e ascolteremo perché tutto questo non possa ritornare. Ma davvero pensavate che gli ebrei fossero inferiori degli altri esseri umani? Come avete potuto arrestare gli ebrei come la mamma e la nonna di Yehudith quando sapevate che sarebbero stati mandati nei campi di concentramento e sterminio? Io spero che queste leggi e queste situazioni non ritornino perché altrimenti saremo costretti ad essere contro di voi.»
La bambina dietro gli occhi si può ordinare in tutte le librerie oppure richiedere direttamente all'istituto storico Istoreco (esteri@istoreco.re.it) che potrà fornire anche alcune immagini in formato digitale da utilizzare come materiale didattico.

Annalisa Govi



Anarchici/
Carlo Melchionna, suscettibile di ravvedimento

Le biografie, genere storiografico ormai consolidato, non vengono mai a noia. Perché, quasi sempre, mettono i lettori in diretta correlazione con il protagonista, perché scoprono lati reconditi e inimmaginabili non solo delle singole storie di vita (ivi comprese le piccole e grandi incoerenze), ma anche di quella collettiva. Perché – soprattutto – connettono le dimensioni individuale, sociale e spazio-temporale.
Tutto questo, da un punto di vista metodologico, comporta notevoli vantaggi; quello più evidente è che ciascuna biografia, nel dipanare il proprio percorso narrativo, costituisce un prisma di lettura unico e originale sugli eventi politici, culturali ecc., su situazioni e circostanze a carattere pubblico che altrimenti potrebbero essere fagocitate, e succede, dalle interpretazioni mainstream. Ed è proprio questa, sul piano euristico, la strada giusta per focalizzare al meglio una storia così complessa, decentrata e plurale come quella che riguarda l'anarchismo e gli anarchici, nella fase cruciale che va dalla belle époque fino al cuore del terribile ventennio fascista e della guerra civile europea.
Fabrizio Giulietti, storico navigato con una discreta produzione saggistica alle spalle, ci regala – con questo bel volume Carlo Melchionna. Anarchismo e lotte sociali 1886-1932, Casalvelino Scalo, Galzerano editore 2019, pp. 290, € 18,00 – pagine ricche di informazioni che scaturiscono in un quadro ampio come contesto e, oltretutto, ben raccontate. Notevole l'apparato di fonti consultato e tuttavia, come gli studiosi dei movimenti sovversivi otto-novecenteschi ben sanno, quelle di polizia rivestono sempre una particolare importanza. Editing elegante, il libro si articola in tre parti principali: nelle prime 120 pagine troviamo la narrazione biografica vera e propria; a seguire un inserto fotografico di eccezionale impatto, con riproduzione di testate giornalistiche, di immagini e documenti di notevole interesse; la seconda metà del volume è invece dedicata a un'antologia di scritti preziosi altrimenti irreperibili e ad un'appendice documentaria davvero significativa.
Ma quali sono i tratti del personaggio biografato? Carlo Melchionna (1886-1932), salernitano di nascita e napoletano d'adozione, figlio di un severo impiegato delle poste, già da adolescente – dopo aver frequentato infruttuosamente qualche anno delle scuole tecniche – inizia a seguire le vivaci attività degli ambienti anarchici cittadini. Nel settembre 1904, in occasione del grande sciopero generale indetto dai sindacalisti rivoluzionari e delle agitazioni conseguenti, subisce il primo arresto. Così, nel giro di pochi anni, si trova costretto a riparare all'estero (Nizza, Parigi, Londra) a causa delle persecuzioni. Fra il periodo giolittiano e i primi anni Venti partecipa da protagonista a tutte le campagne del movimento: la protesta antimilitarista della “settimana rossa” e contro la guerra, quella pro-Ferrer e anticlericale, l'occupazione delle fabbriche e le agitazioni postbelliche, fino alla mobilitazione internazionale per Sacco e Vanzetti. È anche un quadro dirigente della Camera confederale del lavoro a Napoli e dell'Unione Sindacale Italiana a Milano. Svolge un'intensa attività pubblicistica collaborando a innumerevoli testate sindacaliste e anarchiche, fra cui: “La Protesta Umana”, “Rompete le file!”, “L'Avvenire Anarchico”, “Guerra di Classe”, “Umanità Nova”. Nel 1926 è condannato a scontare quattro anni di confino di polizia all'isola di Lampedusa.
Nella parte finale della sua vita, cercando maldestramente di sottrarsi alla pena inflittagli, inoltra tra il 1927 e il 1928 ripetute e piagnucolose suppliche al “Duce Magnifico”, lamentando di essere stato ingiustamente arrestato “alla ricorrenza dell'anniversario della tanto salutare e benefica Marcia su Roma”, invocando clemenza a causa delle sue precarie condizioni fisiche (è affetto da miocardite cronica e emorroidi) e per le disagiate condizioni di famiglia (ha la madre anziana e le sorelle orfane); rinnegando infine il suo passato di militante sovversivo si dichiara “solo desideroso di lavorare in silenzio per la causa del Fascismo, rendersi utile alla Patria, al Regime a sé ed ai suoi cari...” (p. 273, lettera di petizione a S.E. il Capo del Governo, 10 dicembre 1928). Viene quindi liberato grazie soprattutto all'aiuto di uno zio che fa il podestà nell'avellinese. Trovando poi un'occupazione lavorativa, si iscrive al sindacato fascista. Infine, come in un'amara commedia all'italiana dai risvolti un po' grotteschi, il nostro muore alla giovane età di 46 anni, nel 1932, colto da malore “durante il viaggio di nozze”.
Si deve dire, a onor del vero, che il caso Melchionna non è l'unico purtroppo. Di “conversioni” così se ne trovano diverse nel casellario politico centrale. Ma si deve anche rilevare, compulsando i risultati copiosi di ricerche approfondite e a vasto raggio, che fra gli antifascisti – e in particolare tra gli anarchici – molti furono invece quelli che mantennero dritta la barra ossia, utilizzando un efficace termine poliziesco, quelli che si rivelarono, per il loro coerente comportamento e per il senso etico, “insuscettibili di ravvedimento”.
Nello specifico di questo interessante volume però, fatta salva la narrazione fedele ed efficace dell'autore, colpisce il repentino cambio di registro di quella vita già dedicata all'Ideale (con la I maiuscola). Insomma l'epilogo appare, anche senza voler per forza esprimere severi giudizi di valore, alquanto stonato con il resto.

Giorgio Sacchetti



L'esperienza di ApARTe°/
Una rivista che non lo è affatto

Sono passati diciannove anni dal primo numero della rivista ApARTe° che, proprio quest'anno, ha visto l'avvicendamento di alcune redattrici e redattori. Ne abbiamo parlato con il nuovo “non direttore”, Franco Bunčuga.

Redazione - "A" si è spesso occupata delle vicende della rivista ApARTe°, della sua evoluzione e delle innumerevoli attività che ha generato nel campo artistico in senso più ampio, sin dal primo numero nel lontano febbraio del 2000, in coerenza con il sottotitolo "Materiali irregolari di cultura libertaria". Dal numero 12.34 del novembre scorso alcune cose sono cambiate nella redazione e nella composizione della rivista di cui tu sei uno dei collaboratori sin dal primo numero, ce ne vuoi parlare?
Franco Bunčuga - Anche se la rivista negli anni ha mantenuto una forte identità, i cambiamenti sono stati molti. ApARTe° ha nel suo dna il gene della mutevolezza e della curiosità creativa. Il progetto originario, come si è espresso nell'ormai introvabile numero 0 era quello di un contenitore di diversi contributi, una collezione di volantini, opere, disegni, scritti, inserti che testimoniavano dello stato dell'arte nel mondo delle culture libertarie in modo più ampio. Questo spirito è rimasto nelle prime riviste, uno spirito ironico, a volte beffardo e spiazzante; pensa che molti ancora oggi chiedono di spedirgli il numero 4 che manca dai loro scaffali e si meravigliano quando si rendono conto che il numero non esiste perché immateriale e diffuso, coincide cioè con gli eventi che abbiamo realizzato per "La prima Biennale di Arte & Anarchia" del 2001. Impensabile per una rivista tradizionale.
O pensiamo al numero 2 che in realtà è composto da due fascicoli, una parte la rivista vera e propria, una seconda una cartelletta con opere e allegati vari. E potremmo fare molti altri innumerevoli esempi. Ogni numero della rivista è un mondo in sé.

C'è un filo che unisce tutti questi numeri? Oggi la rivista è molto diversa dalle origini?
I primi numeri erano un'esplosione di creatività, inserti, interventi manuali differenziati su ogni numero coll'uso di colore, collage o altro, pagine piegate in modi complessi, legature particolari. Pensandoci adesso un lavoro enorme! Impossibile oggi che abbiamo vent'anni di più, meno energie e siamo un gruppo più ridotto. D'altronde sin dall'inizio ApARTe° ha scelto di non essere una rivista vera e propria, anzi ha sempre preteso di non essere una rivista affatto, come ribadiscono Fabio e Rino nella bella intervista fatta su “A” nel 2001 a cui rimando chi volesse capire quali sono stati gli scopi e gli obiettivi di questa avventura.
Anche le biennali e le attività collaterali sono diventate sempre più difficili da realizzare man mano che i gruppi anarchici di riferimento in giro per l'Italia continuavano a rarefarsi o a sparire. I tempi cambiano e ApARTe° penso si sia saputa adeguare senza tradire troppo il suo spirito originario. La rivista che sino al numero 22 navigava ai margini della legalità editoriale per poter continuare senza problemi ha dovuto dotarsi di un direttore responsabile, Claudio Jaccarino, e mettersi in regola con i nuovi regolamenti per le spedizioni postali, registrazioni ecc. Questo spiega la strana forma di numerazione: il numero 1.23 è il primo numero “legale” e contemporaneamente il ventitreesimo dalla fondazione. 123 è di buon auspicio per un nuovo inizio, così come di buon auspicio ho letto il numero 1234 (12.34) che è stato il primo numero curato dalla redazione bresciana che io coordino.

Come è cambiata la redazione?
In realtà la “redazione veneziana”, che ha sempre realizzato la rivista sino all'anno scorso, era la parte esecutiva di un gruppo di redattori e collaboratori di varia provenienza che si sono incontrati di volta in volta in vari luoghi e città sin dagli anni '90 e negli ultimi anni con regolarità soprattutto all'Archivio Berneri di Reggio Emilia grazie alla generosa ospitalità di Fiamma Chessa. Certo, con molte defezioni, ma anche con nuovi apporti che ci hanno permesso di arrivare ad oggi. L'idea della rivista viene da lontano, addirittura dal grande incontro veneziano del 1984, in occasione del quale molti dei futuri redattori di ApARTe° hanno collaborato alla mostra Arte e Anarchia, alla quale avevano partecipato Arturo Schwarz, che ci aveva coadiuvato nella scelta iconografica, e Enrico Baj, che aveva realizzato il bel manifesto che era stato diffuso in tutta Italia grazie alla militanza di tanti gruppi anarchici che ci erano vicini. Chi c'era ricorda la dimensione internazionale dell'evento e la qualità delle iniziative correlate.

Ora la rivista è realizzata dalla “redazione bresciana” sotto la tua guida. Come ti senti da direttore di ApARTe°?
In realtà ApARTe° non ha mai avuto un direttore, tranne il buon Claudio Jaccarino che si è prestato con spregio del pericolo quale “Direttore responsabile” di una redazione composta da membri spesso abbastanza “irresponsabili”. Diciamo che sino all'anno scorso la rivista veniva materialmente realizzata essenzialmente dal gruppo che l'aveva concepita, diciamo “i veneziani”, con il coordinamento e la “non direzione” di Fabio Santin. Ora la “non direzione” è passata a me, anche se alcune funzioni chiave sono ancora svolte dai veneziani (spedizione, legatura, gestione cassa e abbonati), a Mestre rimane ancora l'archivio storico e Rino segue ancora la parte musicale e la realizzazione dei cd. In più la stampa rimane a cura della CLUP di Padova.
Se si guarda al colophon nella prima pagina ancora oggi si legge: «progetto grafico Rino De Michele, Fabio Santin, Fabrizia Scaramuzza», ciò che cambia è l'impostazione grafica, che fino all'anno scorso era a cura di Fabio Santin e Stefania Minozzi e ora curo io. Nel primo numero che ho realizzato, il 12.34, mi sono avvalso della collaborazione grafica di Emanuele Del Medico del gruppo della “Sobilla” di Verona, e dal numero 13.34 dell'aiuto di Daniele Biffi della redazione bresciana. Due esperimenti grafici diversi, con diversa impostazione, che, al di là di alcuni errori da neofiti da evitare nel futuro, hanno prodotto, credo, due bei numeri nella tradizione di ApARTe° e con quel tanto di innovativo che alla rivista serviva proprio.
Siamo in una fase di transizione. Probabilmente altre funzioni verranno dislocate a Brescia, o forse no. Alcuni redattori sostengono «perché cambiare ciò che ha sempre funzionato bene?»

Cosa cambia e cosa rimane intatto dell'originale progetto della rivista?
Non cambia molto nella sostanza, comunque siamo ancora in una fase di transizione, credo ci vorranno ancora un paio di numeri per verificare la tenuta del nuovo assetto e metterlo a punto definitivamente (fino al prossimo giro di giostra). La redazione bresciana che nel numero 12.34 era ancora in formazione ha dato buona prova di sé nel numero 13.35 ed è stata essenziale per la programmazione del prossimo numero che uscirà questo mese. Ancora siamo lontani dalla qualità grafica della serie curata da Fabio, ma stiamo imparando.
Con la nuova gestione, e grazie anche alla collaborazione con il collettivo Escuela Moderna/Ateneo Libertario abbiamo anche organizzato un evento, di cui sono particolarmente soddisfatto, al Macro Asilo di Roma: la mostra Arte e Anarchia – un ritorno alle origini? – un'ottima vetrina per la rivista e per gli interventi e le opere dei nostri redattori e collaboratori. Il primo evento di una serie che vuole rinnovare – in modi diversi – la bella tradizione delle Biennali di ApARTe°.

ApARTe° si può avere in abbonamento a 30 euro per due numeri e 40 euro per l'estero, 18 euro la singola copia.
Per abbonamenti, informazioni, richieste di copie e arretrati: aparte@virgilio.it

la redazione di “A”



Migranti/
I confini si muovono, si aprono, si chiudono, si spostano

Io sono confine (Elèuthera, Milano 2019, pp. 240, € 18,00) racconta una parte della vita dell'autore, Shahram Khosravi, attraverso il linguaggio dell'auto-etnografia. Khosravi oggi è un antropologo, e nel suo libro analizza scientificamente (l'antropologia ha la pretesa di definirsi scienza) il suo percorso migratorio.
Il racconto e l'analisi in prima persona sono la forza e l'unicità del libro. Khosravi coniuga egregiamente il ruolo di narratore in prima persona e quello di ricercatore. Ricerca partendo da ciò che nella sua traiettoria biografica gli è accaduto. Lui, iraniano appartenente alla minoranza Bakhtiari, vive fin da piccolo il senso di ingiustizia che affligge il suo popolo, la sua famiglia, se stesso nell'Iran degli anni ’80. Decide di andarsene dal suo Paese per sottrarsi al servizio militare al soldo di uno Stato che non riconosce come suo e non lo riconosce come individuo. Da quel momento si pone al di fuori della legge, attraversando il primo dei tanti confini che dovrà passare: quello simbolico della legalità.
Inizia così un viaggio nel tempo e nello spazio che lo porterà ad attraversare il Pakistan, l'Afghanistan, l'India e la Turchia prima di approdare in Europa. Attraverserà paesi e città ricorrendo a tutto il bagaglio che chi si mette in viaggio per una scelta forzata porta e accumula: umiliazioni, violenze, sensi di colpa, sotterfugi, colpi di (s)fortuna, mazzette da pagare per proseguire. Il viaggio non è solo tragico: incontri, relazioni che si instaurano, piccoli gesti dal valore immenso che ricordano la condivisione di una comune umanità anche nelle situazioni più drammatiche, intuizioni giuste che portano al raggiungimento di un piccolo grande risultato.
Infine l'arrivo in Europa, terra tanto sognata e per la quale tanto si è sofferto. L'approdo non è per niente sicuro come ci si sarebbe aspettato, come tanti spesso sognano o sono portati a sognare. In Europa inizia un'altra vicenda fatta di sofferenza fisica (Khosravi viene aggredito da un nazista svedese, che gli spara in volto) e psicologica.
Di storie così ne è pieno il mondo. Spesso manca il racconto e Khosravi ci ha fatto un grande regalo decidendo di mettere nero su bianco la sua storia, che non sfocia mai nel patetico anche se ci sta raccontando un dramma. Il dramma di chi deve andarsene, di chi deve lasciare i propri affetti, di chi deve adattarsi per sopravvivere. Lui ce l'ha fatta e ci racconta a quale prezzo.
Il testo di Khosravi nella sua analisi rigorosa e chiara, nel suo potentissimo ed evocativo racconto auto-etnografico si scaglia contro quel prezzo che tanti devono pagare per raggiungere il posto che sognano e desiderano. Spesso pagare questo prezzo non serve a evitare morte e sofferenze lungo la strada.
Khosravi attraverso un'attenta e mai noiosa etnografia ci mostra come dietro alle definizioni e ai racconti ci siano micro mondi. Fa quello che all'antropologia riesce meglio: decostruisce il discorso comune attraverso la micronarrazione aggiungendo il suo asso nella manica: la narrazione biografica (in questo caso autobiografica), quell'“io c'ero” che dà un valore aggiunto. Ci spiega che un migrante clandestino non è necessariamente un criminale perché sta compiendo quel che per la legge è un reato. Il confine tra lecito e illecito è labile e si sposta nel tempo e nello spazio: un migrante è costretto ad attraversare più volte i confini della legalità.
I “trafficanti di persone” sono anch'essi uomini e donne in carne e ossa e non mostri senza scrupoli. La polizia, i funzionari e i vari burocrati che hanno il compito di sorvegliare i confini... li muovono, li aprono, li chiudono, li spostano come vogliono e quando vogliono.
Interessantissima è la descrizione del processo di “profughizzazione”: Khosravi in Svezia si trasforma e viene trasformato in un profugo. Capisce che essere un rifugiato in Europa non è una condizione amministrativa bensì esistenziale, che mette in secondo piano ogni altro elemento della propria identità. “Il profugo non ha un problema: è un problema” ci dice in un passaggio.
Khosravi ha passato tantissimi confini fisici e simbolici e ce li racconta. Anzi, fa di più: analizza i meccanismi politici che sottendono quella che è stata la sua esperienza. Perché la migrazione non è solo un atto individuale ma sociale e politico. Se le migrazioni illegali, negli ultimi trent'anni, si sviluppano seguendo un certo copione (quello vissuto da Khosravi è vissuto da milioni di persone) è perché esistono precise condizioni e decisioni politico-amministrative che non consentono altre vie sicure e legali. L'illegalizzazione dei migranti è una scelta politica.
L'autore analizza il suo viaggio verso l'Europa utilizzando anche i concetti classici dell'antropologia, su tutto quello del rituale: attraversare i confini è compiere un rituale. Un rituale è composto da una serie di azioni che cambiano per sempre l'identità di chi lo compie. La persona che siamo dopo un rituale è diversa da quella che eravamo l'attimo prima di compierlo. Questa la forza e il significato dei riti di passaggio. Khosravi accumula esperienze reali e simboliche che lo portano a diventare prima un migrante illegale, poi un richiedente asilo, infine un rifugiato.
Le categorie non sono nette e fisse: l'identità di ognuno di noi muta in continuazione. La persona che è oggi Khosravi è la somma di quel che ha vissuto, pensato, attraversato. Il corpo e la mente su cui agiscono questi passaggi sono sempre i suoi, di quel ragazzo bakhtiari che decise di andarsene dalla sua terra. E ce lo racconta in prima persona.

Davide Biffi