Lady Pink Festival/
C'è sessismo nella musica?
Sì, c'è sessismo nella musica! Per questo credo sia assolutamente necessario e indispensabile parlare/organizzare/supportare la musica composta, scritta e interpretata da donne.
All'interno del vasto e subdolo mercato discografico (all'interno e all'esterno dei circuiti mainstream) capita spesso che la donna sia, in generale, vittima di sessismo e discriminazioni, e in modo particolare se analizziamo determinati generi musicali. Per vedere la marginalità della presenza di artiste donne, basta guardare i cartelloni dei numerosi Festival (più o meno famosi), dove anche nell'organizzazione la presenza maschile è preponderante.
Ci sono casi in cui la carriera discografica di un'artista viene manovrata in maniera assoluta da terze persone, se non addirittura distrutta. Penso a Tina Turner e al violento ex marito Ike Turner; oltre a diventare vittima di violenze, il dramma di Tina ebbe anche dei riscontri negativi sulla sua carriera discografica. Stesso scenario per Whitney Houston e l'ex coniuge Bobby Brown. La fragile Amy Winehouse, manovrata e soggiogata a pieno titolo dal padre e dal manager, non era nemmeno libera di decidere chi frequentare, dove andare e in che occasione. Poi ci sono episodi più recenti, come il caso della trapper CRLN che, salita sul palco dell'Indiegeno Fest lo scorso anno, è stata accolta dal pubblico con cori sessisti come “faccela vedè faccela toccà”.
Come possiamo notare, quindi, il problema non è meramente circoscritto al “genere musicale” ed è per questo motivo che è di vitale importanza l'organizzazione di festival come il Lady Pink Festival, il WOWomen Festival, il Lilith Festival, il Malafemme Festival, tutti interamente gestiti, partecipati e vissuti da donne con l'unico intento di scardinare il sessismo nella musica.
Nell'arco degli anni (e tuttora) ci sono state moltissime artiste che hanno contribuito usando la musica come strumento di comunicazione per lottare contro queste forme di discriminazioni: Billie Holiday, con il suo celebre e decisamente toccante brano Strange Fruit, racconta le moltissime umiliazioni e repressioni che anche le donne afroamericane subivano; Nina Simone, da sempre riferimento nel mondo musicale anche in qualità di straordinaria attivista politica nella lotta contro il razzismo.
Non dimentichiamo il movimento Riot Grrrl nato negli anni 90 a Olympia (USA) in cui non era necessario essere in possesso di determinati virtuosismi musicali, ma era fondamentale denunciare attraverso i propri lavori sessismo, patriarcato, stupri, violenze di genere, omofobia.
Durante la terza edizione del Lady Pink Festival, che quest'anno si è tenuta alla Cascina Torchiera di Milano, abbiamo avuto modo di confrontarci su moltissimi argomenti. Siamo partite con la presentazione della nuova Graphic Novel di Benedetta Argentieri Io non sono Islam - La vera storia di Islam Mitat, dal sogno dell'Occidente all'inferno della Sharia (Magazzini Salani 2019) a cui era presente anche l'illustratrice Sara Gironi Carnevale.
Nel libro (tratto da una storia vera) Benedetta racconta di una giovane ragazza marocchina che sogna di poter avviare i propri studi sulla moda in Inghilterra e si scontra con l'intransigenza della sua famiglia, molto tradizionalista, che non vede questa ipotesi realizzabile per la propria figlia, visto che, per giunta, non si è ancora sposata. Straziante la narrazione della storia successiva nata da una relazione virtuale in cui Islam si troverà per ben tre anni prigioniera e succube di ISIS.
Dopo questa concitata presentazione, molto partecipata anche per quanto riguarda il dibattito successivo, abbiamo proseguito con il Poetry Pink Slam, il primo totalmente al femminile. Si sono “sfidate” sul palco diverse poetesse, tutte con l'unico scopo ben preciso di denunciare, attraverso la poesia, sessismo e violenze di genere. Alcune poesie si sono rivelate molto taglienti e toccanti, e si è parlato chiaramente del rapporto nocivo che spesso si cela dietro i vari casi di femminicidio, altre poesie sono state più ironiche e meno spigolose, ma comunque un'amara pillola da ingerire.
Le band che infine si sono alternate sul palco venivano tutte da esperienze diverse, accomunate dal loro operato nella lotta contro ogni tipo di discriminazione: le INA/INA/INA, trio formato dalle cantautrici genovesi Sabrina Napoleone, Cristina Nico e Valentina Amandolese, “mamme” del pluridecennale Lilith Festival (per la canzone d'autrice), riferimento per numerose artiste italiane, che in questi anni di operato sono riuscite a scardinare il tabù che legava il cantautorato inteso solo come “barba e chitarra”; il gruppo Leda di Serena Abrami che, attraverso alcuni brani, ha voluto rendere omaggio ai partigiani, perché è assolutamente necessario non dimenticare.
Con Serena inoltre ho avuto l'occasione di confrontarmi direttamente sulla tematica del sessismo; alla mia domanda “c'è sessismo nella musica?”, ha risposto: “Non solo nella musica. Spesso ne ho visto una forma sottile e non dichiarata; in passato mi ha sorpreso senza armi di difesa. Nel corso del tempo ho imparato a scegliere bene i colleghi e a fortificarmi, studiando tanto e lavorando su me stessa con determinazione e ironia. Il gruppo dove ora canto, suono e scrivo si chiama Leda: una maggioranza di musicisti uomini per un sostantivo femminile. Leda Antinori è stata una staffetta partigiana fanese, ci piaceva un nome che evocasse un certo scenario “resistente” e non ci siamo posti quesiti di natura grammaticale. Così dovrebbe essere sempre: parlare e vivere la quotidianità artistica, lavorativa, sociale senza nessuna forma di discriminazione. I Leda sono un'isola dove ognuno esprime la propria individualità (compresa la mia femminilità) rendendo sfaccettato e variopinto un comune intento. Sta nella diversità dei quattro componenti la forza del gruppo. L'esperienza in quanto donna non mi impedisce di vedere il sessismo verso altre identità di genere, in questo e in altri settori. Ad esempio, il quinto collaboratore della band, scrittore fermano co-autore delle liriche, è maestro di scuola materna. Quante figure maschili sono presenti nell'insegnamento, in particolare nell'ambito dell'infanzia? Poche, eppure il confronto con esse e, più in generale, con una grande varietà di generi/età/etnie sarebbe benefico per i bambini che, proprio nella scuola, sperimentano il riflesso del mondo in cui vivranno.”
I concerti hanno visto la presenza anche dei neonati The Bang! Tales capitanati da Giada Monti, già attiva un decennio fa con la formazione prettamente femminile TittiTwister, da sempre in prima linea e affine a certe tematiche femministe.
Emilya ndMe ha chiuso questa bellissima esperienza portando la sua dolcezza e il suo pragmatismo con l'esecuzione di alcuni inediti. Lady Maru, agitatrice sociale e punto di riferimento per la scena queer romana, ha chiuso definitivamente questa splendida giornata con il suo djset Techno.
Dopo questa esperienza, condivisione e confronto siamo giunte alla conclusione che scardinare e combattere il sessismo all'interno della musica è un'azione necessaria e non impossibile. La collaborazione e il supporto di noi tutte può decisamente ribaltare questa drammatica situazione.
E come scegliere un mezzo di comunicazione migliore e più efficace della musica?
Laura Pescatori
Urupia/
7^ edizione del Festival delle Terre
Fin dalla serie di riunioni che all'inizio degli anni 90 precedettero la fondazione della Comune Urupia, nelle campagne di Francavilla Fontana (Br), abbiamo seguito con attenzione, simpatia e solidarietà questa esperienza sociale. A Thea, nostra collaboratrice e comunarda di lungo corso, abbiamo chiesto una sintesi del festival da loro organizzato lo scorso agosto.
La fine di agosto vede protagonista a Urupia l'ormai tradizionale
Festival delle Terre, giunto quest'anno al settimo appuntamento
e organizzato in collaborazione con l'associazione Crocevia
e con Movimento Terre, coordinamento pugliese aderente alla
rete nazionale di Genuino Clandestino. Il focus di questa edizione
si è concentrato sul tema delle migrazioni, esplorato
attraverso diversi strumenti e sguardi: nelle tre giornate dedicate
abbiamo potuto conoscere numerose realtà ed esperienze
attraverso mostre fotografiche, scambi, dibattiti e proiezioni.
Quel che è risultato immediatamente palpabile è
il significato profondo del festival: la possibilità
dell'incontro in presenza con chi ha vissuto, e vive, in prima
persona le esperienze presentate.
Vissuti, offerti nella loro intensa pienezza e nel loro essere
materia pulsante, che portano a un respiro comune in cui consapevolezza
ed emozione crescono intrecciandosi. Ecco quindi l'autore di
foto narrare attraverso le immagini la storia del figlio venuto
dal mare e questa storia, crescendo, si evolve in occasione
per raccontare di altri arrivati dal mare; ecco raccontata Idomeni,
porta verso la salvezza: non può sollevare da una sofferenza
che colpisce chi fugge dalla disperazione, e Calais, sua sorella
più a occidente, con la sua “giungla”.
E poi le donne del Chhattisgarh (India): con la loro resistenza
si oppongono alla devastazione del territorio che permette alla
loro comunità di esistere e noi possiamo incontrare la
loro realtà nel documentario girato e ascoltare il racconto
di chi è loro accanto. Ecco il comandante di una nave,
allestita per soccorrere chi si è affidato alla fortuna
nella ricerca di una vita più degna: parla con noi attraverso
uno schermo per l'impossibilità di raggiungerci, il suo
contributo è necessario altrove.
Ma è tempo di muovere, la volontà è forte
e tangibile in tutto ciò che abbiamo visto e sentito.
Il desiderio è costruire, a distruggere c'è già
chi si impegna.
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Francavilla Fontana (Br), Comune Urupia, 23/25 agosto 2019 Uno degli incontri del Festival delle Terre |
Chi altrove è pubblico qui diventa parimenti protagonista:
tante e tanti hanno saperi e vissuti da condividere. Arrivano
le testimonianze di chi ha trovato nella via del fare una possibilità,
una piccola soluzione che può diventare sempre più
grande e determinante quando cresce, se riesce a farlo. Incontriamo
quindi le esperienze di cooperazione solidale che operano sul
territorio pugliese e salentino e anche oltre: con lo sguardo
attento sul mondo partiamo poi dal nostro quotidiano, dalla
terra che abbiamo sotto i piedi, per attuare quei meccanismi
virtuosi che portano beneficio a tutti e tutte perchè
possiamo essere davvero libere solo se libere siamo tutte.
Molto dello scambio avviene riguardo la produzione di quello
che permette di vivere in salute, il cibo. Cosa e come produrre,
chi lo fa, come farlo conoscere e distribuirlo. Urupia rimane
una comune a forte vocazione agricola, la terra è la
base di tutto e chi ha scelto di occuparsene lo sa bene e sa
anche cosa significa, oggi più che mai, coltivarla senza
abusarne. Il confine tra agricoltura e industria è ormai
labile e non riguarda più solo le infinite estensioni
che hanno fatto da esperimento per questa pratica: è
arrivata anche qui, anche nei piccoli appezzamenti un tempo
baluardo di resistenza contadina più o meno consapevole.
Le enormi distese di vigne a coltivazione, raccolta compresa,
meccanizzata hanno portato all'apparentemente paradossale aumento
di produzione vinicola con enorme calo di occupazione, e preoccupanti
incognite si aprono sull'altra grande e straordinaria coltura
salentina, l'olivo.
Il cambiamento è in atto.
I giorni del festival rappresentano un momento sociale molto
forte e coinvolgente perché anche chi partecipa si dedica
attivamente a che l'organizzazione funzioni al meglio: tanti
e tante si occupano in prima persona di collaborare alle necessità
materiali che rendono possibile un'iniziativa imponente. Il
quotidiano scorre fluido e piacevole per tutti e tutte, il gruppo
organizzatore trova sostegno e leggerezza nella condivisione
dell'impegno richiesto.
Leggerezza presente anche nei laboratori aperti, nelle proiezioni
dedicate a bambini e bambine e nei numerosi momenti ludici e
conviviali che tanto spazio danno al (ri)trovarsi. In attesa
della prossima occasione.
Thea Venturelli
La morte di Mario Trudu/1
Con lui all'ora d'aria nel carcere di Spoleto
Il giuramento di Ippocrate dice: medico, ricordati che il malato non è una cosa, o un mezzo, ma un fine, un valore, e quindi comportati di conseguenza. In carcere il malato detenuto è un malato sfortunato.
Quando una persona in libertà è malata spesso, non sempre, l'ambiente in cui vive rispetta il suo stato, nel senso che la si cura e di norma almeno può essere sicura di ricevere attenzione dalla propria famiglia. Invece guai al paziente in carcere, l'attenzione si trasforma in disprezzo, il male in vergogna. Il prigioniero malato non gode della pur minima protezione, persino gli si fa una colpa della sua malattia. Alla prima occasione, al minimo lamento, la malattia gli viene rinfacciata come una colpa e lui viene additato come simulatore. Viene cacciato dal gruppo dei veri ammalati perché bugiardo, cattivo, meschino, senza valore. E qualunque disturbo possa lamentare, ormai non gli si crede più.
Purtroppo il detenuto malato è come un cieco a cui si rimprovera che non vede. E così dopo 41 anni di carcere è morto l'ergastolano ostativo Mario Trudu. La morte è stata più umana della “Pena di Morte Viva” e se lo è portato via. Spero che ora Mario Trudu sia in un posto migliore dell'Italia, un paese crudele che tiene e fa morire persone anziane e malate chiuse a chiave in una cella o le libera solo per farle morire in un ospedale. Ecco cosa ho scritto per ricordarlo.
C.M.
E Dio s'intenerì e abolì l'ergastolo ostativo creando la morte
Dopo 41 anni di carcere ostativo Mario è morto senza
mai tornare a casa, eppure nel mio cuore e nella mia testa è
ancora vivo. Siamo stati insieme 4 anni nel carcere di Spoleto,
facevamo insieme l'ora d'aria e mi ricordo ancora le nostre
chiacchierate.
Mario - L'ergastolo ostativo va persino contro la matematica
e l'italiano. La pena perpetua non ti toglie solo la libertà,
ti strappa pure il futuro. Ti potrebbero togliere tutto ma non
la tua intera vita. Lo Stato si può prendere una parte
di futuro, ma non tutto, se vuole essere migliore di un criminale.
Questa maledetta pena è disumana perché l'uomo
per vivere e morire ha bisogno della speranza che la sua vita
un giorno forse sarà diversa. La pena perpetua è
un sacrilegio perché anticipa l'inferno sulla terra e
la pena eterna senza possibilità di essere modificata
è competenza solo di Dio (per chi crede).
L'uomo non dovrebbe mai essere considerato cattivo e colpevole
per sempre. La giustizia potrebbe, anche se non sono d'accordo,
ammazzare un criminale quando è ancora cattivo, ma non
dovrebbe più tenerlo in carcere quando è diventato
buono. O farlo uscire solo quando baratta la sua libertà
con quella di qualcun altro collaborando e usando la giustizia.
Se la pena è solo vendetta, sofferenza e odio, come può
fare bene o guarire?
Carmelo - Il perdono fa più male della vendetta,
il perdono sociale ci costringerebbe a non trovare dentro di
noi nessuna giustificazione per quello che abbiamo fatto. Ecco
perché converrebbe combattere il male con il bene, col
perdono, con una pena equa e rieducativa. La pena dell'ergastolo
ostativo ci lascia la vita, ma ci divora la mente, il cuore
e l'anima.
Mario - La società italiana non vuole conoscere
la verità sulle sue prigioni e ai politici italiani non
interessa sapere che le prigioni scoppiano, che i detenuti muoiono,
che alcuni si tolgono la vita e che altri crepano psicologicamente.
Tutti gli anni in estate i giornali e la televisione ci ricordano
di non abbandonare i cani in autostrada, ma non una parola e
non una riga sui 64.000 detenuti abbandonati a se stessi e che
vivono accatastati uno sopra l'altro. Vivere in questo modo
toglie ogni rimorso per quello che si è fatto fuori.
I “muri” sono abbastanza alti da permettere di poter
far finta di non vedere e udire la disperazione e le grida d'aiuto
che vengono da dentro.
La Corte dei diritti umani ha da poco condannato il nostro paese,
stabilendo che il sovraffollamento in Italia è tortura,
ma l'Italia è un paese fuorilegge e a nessuno importa
delle condanne della Corte europea. A nessuno importa sapere
che nelle carceri italiane non c'è più spazio
per vivere, che vivere uno sopra l'altro è una condanna
aggiuntiva, una condanna moltiplicata dal punto di vista fisico,
psichico, morale e sanitario, che il carcere in Italia non è
solo il luogo dove vanno i delinquenti (anche se quelli veri
stanno fuori), ma è soprattutto il rifugio dei ribelli
sociali, degli emarginati, dei diseredati, degli emigrati, dei
tossicodipendenti, dei figli di un Dio minore.
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Carcere di Spoleto, 2010. Un gruppo di detenuti, in prima fila a sinistra Carmelo Musumeci, a destra Mario Trudu |
Carmelo - La pena dell'ergastolo ostativo - senza benefici
- opprime la vita, senza ammazzarti, ma negandoti persino una
pietosa uccisione. Questa terribile condanna ti toglie tutto,
persino la possibilità di morire una volta sola, perché
si muore un po' tutti i giorni. È una morte civile che
ti tiene in uno stato di sofferenza insopportabile, perché
è crudele fare coincidere la fine della pena con la fine
della vita. Una pena che non finisce mai, è una pena
disumana.
Mario - Si vive in uno stato d'angoscia tale che molti
di noi ormai soffrono di patologie mentali croniche. Dopo anni
e anni in costante attesa del nulla e nell'incertezza le nostre
menti sono diventate deboli e infantili. Questa condanna è
una pena troppo crudele e inumana per non distruggere il migliore,
o il peggiore, degli uomini. Molti ergastolani non sono più
quelli che erano una volta. Per questo alcuni di noi non capiscono
perché devono continuare a scontare una pena che non
finisce mai, per reati che non commetterebbero più.
Sì, è vero, siamo anche il nostro passato, ma
non più solo quello, perché molti di noi non sono
più gli stessi. Vivendo per decenni in un tunnel di oscurità
e di disperazione gli ergastolani più deboli diventano
dei relitti umani e quelli più forti delle bestie feroci.
Carmelo - La pena dell'ergastolo a un ragazzo di 19 anni
serve solo a soddisfare la reazione vendicativa della comunità
e delle vittime verso gli autori dei delitti. Questa condanna
senza fine è un crimine più crudele di quello
che si vuole punire, con la differenza che il primo è
un crimine commesso da un adolescente, l'altro è un crimine
della giustizia.
Mario - La pena dell'ergastolo è peggio della
pena di morte perché è anche più crudele:
ammazza una persona tenendola viva chiusa in una cella per sempre.
La pena di morte ti toglie solo la vita, la pena dell'ergastolo
ti toglie anche l'anima. La pena dell'ergastolo tradisce Dio,
le vittime del reato, l'uomo e le sue leggi, in particolar modo
l'articolo 27 della Costituzione: “La pena deve tendere
alla rieducazione”, invece la pena dell'ergastolo ti lacera,
ti spezza e ti tortura lasciandoti vivo.
È la pena più disumana che l'uomo abbia mai creato:
né morti, né vivi, solo ergastolani.
Carmelo Musumeci
La morte di Mario Trudu/2
Quarant'anni dentro, poi la fine dell'ostativo
Mario Trudu, ergastolano “ostativo”, in carcere
da quarant'anni, è morto appena due giorni dopo la pronuncia
della Corte Costituzionale che apre una breccia nell'ergastolo
ostativo. Ha il suono di una beffa del destino, o meglio degli
uomini... perché Mario Trudu, che era gravemente malato,
è morto fra molte sofferenze, e solo da pochi giorni,
dopo appelli e denunce, aveva vinto la sua battaglia per curarsi
fuori dal carcere, dove è arrivato troppo tardi.
Mario Trudu aveva subito una prima condanna per un reato che
ha sempre dichiarato di non aver commesso. Si è poi sempre
pienamente assunto la responsabilità del sequestro di
persona compiuto in seguito, diceva, come reazione (per quanto
abbia poi capito quanto sbagliata) alla prima grande ingiustizia
subita. La vittima del sequestro, l'ingegner Gazzotti, morì
durante uno scontro a fuoco prima del rilascio. Mario mi aveva
un giorno confidato che nessuna pena avrebbe potuto cancellare
il rimpianto per il male commesso, ma che pure era convinto
che il suo debito con lo stato l'aveva pur pagato (e ditemi
se quarant'anni sono pochi), e per una vita intera ha avuto
la forza di affrontare quella che definiva “sa justithia
mala”.
E “sa justithia mala” non ha voluto vedere il percorso
che pure in questi quarant'anni Mario ha compiuto. Ma era un
“ostativo”, prigioniero delle norme varate dopo
le grandi stragi di mafia, perché non è stato
collaboratore di giustizia. Pentito magari nell'animo, sì,
ma non è questo che importa.
Mario Trudu sempre diceva: “ma che c'entro io con Falcone
e Borsellino, se quando sono stati uccisi ero in carcere, dal
1979, e neppure sono siciliano...”. Ma questa è
l'ostatività.
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Un disegno di Mario Trudu |
L'avevo voluto incontrare dopo aver letto l'autobiografia che
aveva scritto mentre si trovava nel carcere di Spoleto. Pagine
vergate col sangue, dalle quali è poi nato un libro,
Tutta la verità, storia di un sequestro (Stampa
Alternativa), che molto racconta dell'uomo che l'ha scritto,
ma anche della Sardegna e della sua gente. Solo un pugno di
anni fa Mario è riuscito almeno ad essere trasferito
nella sua terra, il cui ricordo è stata la cosa che davvero
l'ha tenuto in vita in tanto tempo di prigionia, e al suo paese
aveva dedicato un secondo libro, Cent'anni di memoria (Stampa
Alternativa), corredato di sorprendenti disegni (Mario a Spoleto
si era diplomato all'Istituto d'Arte).
Quando ancora era nel carcere di San Gimignano, mi aveva affidato
una lettera da leggere alla presentazione, in Sardegna, di questo
suo libro. Un brano: “Io sono un figlio della terra che
ti regge, e come ogni figlio vorrei tornare a casa. Sarebbe
l'ideale, ma visto che i miei “angeli custodi” non
permettono questo, il mio desiderio è stato sempre quello
di poter tornare almeno in un carcere vicino casa mia, non conta
dove vado a finire, sono una bestia che resiste a tutto, non
è il posto, quantunque terribile, che può riuscire
a farmi fuori...”.
Pensavo che Mario anche questa volta riuscisse a resistere e
restare in piedi, che prima o poi ce l'avrebbe fatta, almeno
a passare un natale a casa, a rivedere i suoi monti...
È ora la sua morte, dopo quarant'anni di detenzione,
in regime ostativo per l'applicazione (retroattiva) di una norma
oggi dichiarata incostituzionale, a reclamare giustizia.
Francesca De Carolis
Pisa/
Mobilitazione antifascista cittadina
Ce lo aspettavamo da tempo e alla fine è arrivata la
notizia: la Giunta comunale di Pisa di centro-destra guidata
dal sindaco Michele Conti ha deciso di intitolare al fascista
Giuseppe Niccolai una rotatoria a Marina di Pisa (Delibera n.
167 del 17 ottobre 2019). Sì, proprio lui, quello del
noto comizio in largo Ciro Menotti del 5 maggio 1972 al margine
del quale, negli incidenti tra antifascisti e polizia, venne
fermato e picchiato selvaggiamente da un reparto della celere
di Roma Franco Serantini, giovane studente/lavoratore anarchico,
che morì due giorni dopo nel carcere del Don Bosco.
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L'anarchico
Franco Serantini (Cagliari, 1951-Pisa, 1972) |
La nostra biblioteca, a seguito della decisione della Giunta
comunale, ha diramato un comunicato stampa nel quale si condannava
tale decisione sollecitando le forze politiche e sociali a rispondere
a questa provocazione. La risposta c'è stata, molte forze
politiche dall'ANPI alla lista «Una città in comune»
fino alle diverse frange di organizzazioni della sinistra di
ogni colore hanno condannato decisamente la decisione della
Giunta comunale. Purtroppo va segnalato il silenzio di gran
parte del mondo cattolico e dei moderati ormai fortemente attratti
dalla infausta «demagogia salviniana-mussoliniana».
Anche il PD ha espresso una posizione di netta condanna nonostante
in precedenza proprio la sua “disattenzione” abbia
provocato l'approvazione nella primavera del 2013, al termine
del primo mandato del sindaco Marco Filippeschi, in una riunione
quasi deserta del Consiglio comunale, quella scellerata mozione
– voluta da Fratelli d'Italia – nella quale si auspicava
l'intitolazione di un luogo delle memoria a tre rappresentanti
della «buona politica»: il democristiano Ciucci,
il comunista De Felice e il fascista Niccolai (mozione approvata
con 12 voti favorevoli, 13 tra astenuti e contrari e 16 assenti
tra cui lo stesso sindaco).
Quali sono stati i meriti di Niccolai tanto da ottenere un «luogo
della memoria»? È stato iscritto al Partito nazionale
fascista, volontario durante la Seconda guerra mondiale, quel
conflitto che ha visto l'Italia fascista alleata della Germania
nazista, e che per il nostro paese, come per il resto del mondo,
è stata una catastrofe. Al suo rientro in Italia, dopo
la prigionia negli USA, è diventato un esponente di rilievo
del Movimento sociale italiano, quel partito che non ha mai
rinnegato la sua continuità ideale e storica con la Repubblica
sociale italiana.
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Il fascista Giuseppe Niccolai (Pisa, 1920-Pisa, 1989) |
D'altronde lo stesso Niccolai, coerentemente con le sue scelte
e le sue idee, non ha mai rinunciato al suo passato e ciò
è dimostrato ampiamente non solo dalla sua carriera politica
ma anche da quanto ha scritto sul “Machiavelli”,
il giornale che ha diretto per circa un quarto di secolo. Su
quest'organo di stampa Niccolai ha sempre svolto una costante
azione di critica della democrazia, così come si era
andata delineando dal referendum istituzionale del 1946 in poi.
Sul giornale è stata richiamata sempre la continuità
teorica e pratica con il fascismo. Mai, ad esempio, su quel
giornale è stata espressa una presa di distanza o avviata
una riflessione critica sulla politica d'espansione coloniale
del fascismo e delle sue guerre d'aggressione in Africa, come
nei Balcani o in Spagna. Mai sono stati denunciati i crimini
contro l'umanità perpetrati da ufficiali e soldati contro
le popolazioni inermi nei vari conflitti nei quali l'esercito
italiano è stato protagonista in quegli anni; mai è
stata espressa alcuna critica alla politica razziale del regime
di Mussolini e alle persecuzioni degli ebrei; mai sono state
evidenziate le responsabilità del regime nel coinvolgimento
dell'Italia nel Secondo conflitto mondiale. Al contrario il
giornale si è sempre distinto per la sua radicale avversione
alla commemorazione del 25 aprile e alla diffusione di interpretazioni
faziose e giustificazioniste della guerra civile che ha sconvolto
il paese tra il 1943 e il 1945. Niccolai da convinto antidemocratico
si è sempre rifiutato di vedere nel 25 aprile la data
delle fondamenta della Repubblica, il giorno nel quale il Paese
si è riscattato da vent'anni di dittatura.
La nostra biblioteca ha lanciato, nei giorni seguenti la decisione
della Giunta comunale, una petizione online che ha raggiunto,
al momento in cui scriviamo, 2000 adesioni per manifestare tutta
la propria indignazione contro tale decisione e riconfermando
il proprio impegno perché sia rispettata la verità
storica e la difesa dei sentimenti antifascisti di questo territorio.
Da oggi ci impegneremo ancora di più perché gli
ideali dell'antifascismo siano conosciuti dalle nuove generazioni
contro ogni ritorno delle culture e simboli del nazionalismo,
sovranismo, razzismo, autoritarismo e discriminazioni di genere
e contro chi oggi vuole innalzare “muri” ai confini
ed è indifferente verso le sofferenze e la morte di migliaia
di diseredati migranti vittime delle guerre, sopraffazioni e
di un indiscriminato sfruttamento.
Circolo culturale Biblioteca F. Serantini
Associazione amici della Biblioteca F. Serantini
Premio Bianca D'Aponte 2019/
Sono un'Isola
Ogni fine ottobre, da quindici anni ormai, quando l'ultima
resistenza d'estate se ne va insieme con l'ora legale, ad Aversa
si celebra un rito di bellezza, musica, condivisione e amicizia:
si tratta del “Premio Bianca D'Aponte”, dedicato
alle cantautrici e alle loro canzoni.
Dopo una doppia selezione, dieci artiste si confrontano sul
palco del Teatro Cimarosa: difficile però considerare
il Premio come un contest dove l'attenzione è
concentrata sulla sfida. Nessuno è così ingenuo
da non sapere che ogni partecipante vorrebbe vincere; e può
anche darsi che qualche cantautrice, rimasta fuori dai riconoscimenti,
in qualche caso si sia lamentata o abbia avuto a che dire. Però
è improbabile che qualcuno ne abbia raccolto la testimonianza,
perché tutto questo avviene casomai a bassissima voce,
in segreto, con vergogna. Infatti, quelli che arrivano ad Aversa
in quei due giorni intensi di musica e scambio, sanno che a
prevalere su tutto è la magia dell'incontro e che ogni
distinguo risulta assolutamente fuori posto; quello che conta
è l'intenzione sempre positiva, è lo sguardo verso
la speranza e il futuro.
Il futuro che aveva davanti, radioso, Bianca D'Aponte, giovane
cantautrice di grandissimo talento, dalla scrittura raffinata
– leggera eppure matura – completa, rigogliosa.
Nel 2003 stava per uscire il suo primo album, quando all'improvviso
se ne andò, a soli 23 anni, con la sua Anima scalza
(uno dei bellissimi pezzi incisi dall'artista aversana e quest'anno,
nell'edizione appena conclusa, interpretato da una straordinaria
Tosca Donati), con il suo cuore vagabondo, sempre vicino ai
diversi, agli esclusi, ai ribelli, a quelli che non amano gli
inutili compromessi.
Aveva cominciato a cantare sin da piccola, perché era
l'unico modo di non sentire il mal d'auto; aveva preso lezioni
di piano, poi la chitarra; da adolescente aveva formato il primo
gruppo: “La Famiglia Kurz”. Voleva iscriversi alla
Scuola Popolare di Musica di Testaccio, ma Giovanna e Gaetano,
i suoi genitori, la convinsero a scegliere diversamente e così
arrivò al CET di Mogol, dove incontrò Oscar Avogadro,
Alfredo Rapetti, Giuseppe Barbera e Mario Lavezzi e le si aprirono
le porte del mondo discografico, ma anche quelle di amicizie
che sono rimaste intatte malgrado la morte.
Dopo la sua scomparsa è nata un'associazione e l'idea
del Premio. A proporre di dedicarlo alle cantautrici è
stato Fausto Mesolella, che Bianca aveva conosciuto qualche
anno prima e con cui aveva inciso due brani. Fausto è
diventato poi Direttore artistico del Premio (sostituito da
Ferruccio Spinetti, dopo la sua morte). L'organizzazione dell'evento
è semplice e qualcosa è stata già spiegata:
dieci giovani cantautrici e una madrina (Brunella Selo, Rossana
Casale, Petra Magoni, Fausta Vetere, Mariella Nava, Elena Ledda,
Cristina Donà, Nada, Paola Turci, Andrea Mirò,
Ginevra di Marco, Irene Grandi, Rachele Bastreghi, Simona Molinari,
Tosca Donati); molte di loro ritornano ogni anno, come altri
ospiti che si innamorano del clima, della situazione, della
grazia dei luoghi e dei gesti. Ci sono poi due giurie; la prima
assegna il Premio ed è composta da addetti ai lavori:
artisti, manager, discografici, musicisti; la seconda è
una giuria di giornalisti e critici musicali: il premio della
Critica è ora intitolato a Fausto Mesolella. I due riconoscimenti
consistono in due borse di studio, ma ci sono molte altre menzioni
collaterali di grande prestigio. Vorremmo poterle spiegare una
a una ma questo toglierebbe spazio ad altro, a quello che secondo
chi scrive conta davvero.
Difficile non cadere nella retorica raccontando l'emozione che
partecipare al D'Aponte comporta. Con l'esperienza professionale,
in un simile ambito, si capisce l'importanza di festival e manifestazioni,
soprattutto per quel che riguarda la musica indipendente: ogni
evento è un'occasione fondamentale di scoperta, scambio
diretto, confronto, idee nuove, possibilità e progetti.
Ogni festival respira intelligenza e creatività. Ma ad
Aversa c'è molto di più e la suggestione è
un'altra: vivendo la magnifica ospitalità di Giovanna
e Gaetano, partecipando della straordinaria forza di un uomo
come Gennaro Gatto che da solo riesce a gestire ogni evenienza
e problema organizzativo, chi si trova ad Aversa vive una magia,
quella che per un attimo fa lasciare da parte attriti, controversie,
posizioni lontane, sfide, ostilità... in nome di Bianca,
ma anche perché forse solo lì si capisce e si
respira quello che nella vita di tutti è davvero importante,
senza fronzoli, senza distinguo, senza definizioni: ad Aversa
si va a parlare e a vivere di musica e di amore; si dà
importanza a tutto quello che conta. Come faceva Bianca, che
era volontaria di Emergency; un valore questo che non è
andato perso, visto che il ricavato della vendita della compilation
che ogni anno viene realizzata – con i brani delle concorrenti
e quello di Bianca interpretato dalla Madrina – va interamente
all'associazione di Gino Strada.
È stato bello quest'anno vedere alcune cantautrici indossare
al braccio proprio i simboli di Emergency, così come
è stata davvero apprezzabile l'attenzione che queste
giovani donne, nell'ultima edizione, hanno saputo rivolgere
a tematiche importanti e impegnate. Come testimonia la stessa
vincitrice, la salentina Cristiana Verardo, il cui brano Non
potevo saperlo racconta di una figlia che scopre di avere
il padre mafioso.
È stato bello anche scoprire come di anno in anno l'attenzione
per il Premio è divenuta sempre più diffusa a
livello nazionale. È fondamentale che il Premio viva
al di là della volontà eccezionale di Gaetano
D'Aponte; Ferruccio Spinetti ci ha assicurato l'apertura di
un tavolo con la nuova giunta comunale, proprio per raggiungere
questo obiettivo. Solo la salvaguardia della cultura e della
bellezza può aiutare tutti noi, in questa marea nera
che minaccia la nostra terra.
Elisabetta Malantrucco
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