La voce del carcere
Figlia mia c'è il sole
c'è il sole e non mi scalda
c'è la sonata in re minore adagio di Vivaldi
c'è questa smania sedata
e poi
poi c'è tutto quello che non c'è...
È così, con queste parole scabre, impietose, ma
tutto sommato sobrie, non drammatiche che ci si presenta Emidio
Paolucci, poco più di cinquant'anni, oltre venti dietro
le sbarre.
Parole che provengono da una coscienza non certo pacificata
– sedata forse, appunto come nel testo – si direbbero
parole di stanchezza di vita, non di martirio di passione. È
precisamente con queste parole dolenti e non aspre che entriamo
nella sua cella di detenuto, con ancora lunghi grigi anni da
passare in carcere, e con la compagnia – non di certo
con la consolazione – delle sue poesie.
Queste parole ce le porta fino a noi, qua fuori dai cancelli
di ferro e di ruggine e sangue, la voce barocca e sofferta di
Pierpaolo Capovilla, il cantore-dicitore che ha interpretato
con grande successo Majakovskij, Pasolini, Artaud, senza contare
la lunga militanza, anche di scrittura, con il gruppo musicale
Teatro degli Orrori. Questo per dire che Capovilla non legge
in pubblico la prima cosa che gli capiti sotto gli occhi, e
se si è appassionato a questo canzoniere carcerario,
non è certo solo per la vibrata solidarietà con
le vicende umane più tristi. Ricordiamo che Capovilla
nel suo disco solista dedicò una canzone all'agghiacciante
vicenda di Franco Mastrogiovanni, e che da anni fa comunella
col nostro compagno “riluttante” Piero Cipriano
nelle sue battaglie di psichiatra libertario.
Capovilla non lesina parole solidali per Paolucci: “Un
detenuto, un amico, un fratello, un uomo, un poeta. «Finché
galera non ci separi» è la sua seconda raccolta
poetica, questa volta arricchita da un CD che non è semplicemente
un'audio-lettura, ma un vero e proprio LP, un disco con il quale
si entra simbolicamente in carcere, attraverso una narrazione
che svela le solitudini, i rammarichi, le nostalgie, le ossessioni
della detenzione. Il verso di Paolucci è nitido e puntuale,
franco e chiaro, e non fa sconti a nessuno, neanche a se stesso.”
Ma non basterebbe questo per intraprendere la faticosa costruzione
di “un vero e proprio LP”, se il cantore lo ha fatto
è perché ha trovato una poesia che pur nutrita
dall'esperienza della reclusione, si allarga a valore universale.
Ci siamo separati tutti
tutti persi e rinnegati
i nonni sono morti da tempo ormai
è morta un po' di gente
ma a parte queste cose della vita che conducono alla morte
siamo finiti peggio di come ci hai lasciato
nessun successo né fortuna ci ha toccato
meno che mai sfiorato
a volte penso che ti sei risparmiato questa catastrofe
chissà
vai a saperlo.
Io sono finito peggio di come mi hai lasciato
tu invece resti l'unico parente degno di nota
quello a cui scrivo ancora con nostalgia
resti l'unico fratello mio
e sei pure morto prima
prima di tutti.
Su questi ultimi versi dedicati a una comunissima diaspora familiare,
in cui la morte precoce di un fratello, in modo paradossale
gioca un ruolo di vicinanza, la voce di Capovilla si rompe in
un accenno di commozione che quasi induce alla lacrima... ma
è la poesia allora che bruscamente finisce, prima che
sia troppo tardi, prima che la catarsi venga a lenire un inscalfibile
dolore. Evidentemente il poeta sarà autodidatta (“ha
preso la terza media in carcere nel 2010” mi confida il
curatore del progetto, in una mail personale) ma affatto digiuno
di sapienza letteraria.
Dev'essere questo impasto fra la necessità (“scrivere
è una sorta di esorcismo al mio vivere quotidiano, scrivo
perché mi libera da questo contesto”) e la sapienza
che ha stregato attore, curatore, e che si riversa su di noi,
complice la musica.
Sì, complice la musica, perché l'architetto di
questo disco è Paki Zennaro, musicista-compositore veneziano
di lunga traiettoria (come ci rivelano le sue note biografiche),
attivo dagli anni ottanta soprattutto in progetti di teatro-danza,
collaboratore di René Aubry, e da quasi dieci anni anima
sonora di Capovilla. Controscena elettrica o acustica, sfondo
che s'impenna melodicamente, scura onda che ingoia le parole
(lasciandole sempre intellegibili), arco di violoncello umano,
arpeggio fitto ritmico che talvolta organizza questi brani in
un luogo molto vicino alla canzone. Complessivamente un vero
e proprio poema sinfonico per sbarre e desiderio.
Le finestre qui
quelle che hanno la presunzione di chiamare finestre
non sono altro che delle infami ferite su un cielo setacciato
da due serie di sbarre e una rete.
Ci sono notti che vorrei morire
vorrei
e altre in cui vorrei già essere morto
già morto sì
ma solo per non perdere tempo ad organizzarmi
solo per non dover sopportare di ravvedermi.
Ovviamente per 18 brani presenti nel disco ci sono 86 poesie
nel libro che sta alla base di questa operazione, che si compone
appunto di carta e dell'alluminio del Cd. Molte poesie dunque
si leggono, non si ascoltano, penetrando in quest'universo soffocato
dalle sbarre ma non claustrofobico: l'autore ha un costante
dialogo col “mondo di fuori”, con la figlia, con
una fame di vita (di fumo, di sesso) che lo proietta fra di
noi, corpo e pensiero.
Rapinatore sin dalla tenera età, ha cominciato a conoscere
il carcere assai presto.
“Il carcere non è un luogo che fa sbocciare e produce
felicità. Il carcere è costruito e programmato
per ben altro. È indiscutibile che occorre del talento
per sopravvivere a tutto questo. Trentaquattro anni di patrie
galere: il mio primo arresto risale al 1985. Mi hanno fatto
vivere tutta l'involuzione di questo posto, e parlo di involuzione
perché se ci fosse stata un'evoluzione saremmo all'abolizione
della pena, mentre invece il carcere sopravvive, e lo fa in
varie forme, anche nella società. Ho quasi cinquantadue
anni, e quasi un quarto di secolo passato fra queste mura; come
dissi ad un giudice: da qui non ne uscirò per ravvedimento,
ma per sfinimento. Sono profondamente critico verso l'istituzione
carceraria, un sistema che produce il 70% di recidiva è
un fallimento. È come se una fabbrica vedesse scartata
il 70% della propria produzione. Il proprietario l'avrebbe chiusa
da tempo. Il carcere, invece, resiste.”
Così scrive lui stesso nell'introduzione. Nell'epoca
di google inutile nascondersi dietro un dito, la più
pesante condanna (27 anni) Paolucci l'ha presa per l'omicidio
di un suo complice, del quale lui si dichiara disperatamente
innocente. Non sta a noi decidere, chi lo ha fatto nei tribunali
italiani ha deciso per il no. Non è questo il punto.
Sentirmi fuori luogo in questo posto dove sono cresciuto
dove sono diventato uomo
e dove
m'appresto
a diventare vecchio.
Le patrie galere.
Qui
dove m'hanno allevato e intossicato
è proprio qui
in questa cloaca umana dove tutto è negato
dove niente è permesso
è qui che ho iniziato a farmi per disfarmi della vita
che disconosco
quella vita che questi signori perbene m'hanno elargito
a pane e catene
per anni
decenni
sotto forma di riabilitazione
di trattamento.
Non sono stato trattato bene
no
ho cinquant'anni e nient'altro.
Nient'altro che cinquant'anni.
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Una delle illustrazioni di Andrea Chiesi |
Una dominante livida, violacea, altri colori smorti, un'acquamarina
senza luce, un blu senza fuga. Ecco ciò che ci colpisce
una volta giunti a metà del volume, dove ci si presenta
un quinterno con una decina di disegni al tratto acquerellati
monocromi. È un ulteriore accrescimento di questo ricco
prodotto editoriale, i disegni di Andrea Chiesi, pittore modenese
con una spiccata propensione per gli ambienti industriali e
i corpi spogli. In questa serie la penna disseccata con tratti
nervosi e aggrovigliati ci porta in una periferia desolata,
davanti alle mura di un carcere, fra zone industriali e fra
paesaggio e paesaggio, corpi abbandonati, galleggianti, forse
morti, migranti della quarta dimensione. Ecco, nel piccolo fumetto
muto (dopo e prima di tante parole) viaggiamo per periferie
di capannoni e siamo messi di fronte a figure abbandonate in
un limbo amniotico. Intanto la voce ci martella i versi dolenti
di un (ultimo?) incontro col padre:
Siamo finiti male
entrambi molto male vecchio
ma tu sei stato più fortunato di me
tanto più da non poterlo capire
li hai fottuti tutti con la tua demenza senile.
Mi dispiace sinceramente vecchio mio
ma voglio tu sappia che il tuo assolutismo
le tue cinghiate
le tue bastonate
le tue imboscate
m'hanno reso più forte
persino più forte e spietato di te
per queste cose m'hai forgiato bene vecchio.
Ora mi preoccupo per te
avrei voluto aiutarti tirandoti fuori da quella clinica
t'avrei lasciato bere
bestemmiare e incazzare
e invece l'ultima volta che t'ho visto m'è dispiaciuto
non capire le tue poche parole
tua moglie s'era dimenticata di metterti il pannolone
così ti sei pisciato addosso nella sala colloqui.
“Far uscire questa voce dal carcere” è il
comune intento che si son dati tutti i comprimari di quest'impresa
poetica. “Tutti gli artisti sono amici che ho portato
all'interno di questa storia, quando anni fa un detenuto reperì
un mio libro nel carcere di Volterra e mi fece contattare per
averne altri. Ne è nato un carteggio finché, un
giorno, mi sono ritrovato nella cassetta della posta 120 poesie
di Emidio. Dopo che ne lessi alcune (spiegando un po' la storia
prima) ad un incontro a Bologna, e vista la reazione esterrefatta
dei presenti, ho deciso di pubblicarle. Ma pubblicare un libro
di poesia oggi ha poco senso e quindi ho chiesto ad altri artisti
di partecipare per arricchire la proposta. Solo che, come puoi
immaginare, poi il problema è nato con gli editori, pochi
si volevano accollare i costi di registrazione e della stampa
delle illustrazioni. E nel frattempo l'angoscia di aver ventilato
ad Emidio qualcosa che stava diventando irrealizzabile. Per
fortuna è arrivato Claudio Chianura di Auditorium. Insomma
sono stati 3 anni in cui con Pierpaolo siamo siamo stati tante
volte a trovare Emidio al penitenziario di Pescara, tanto che
ne è nata una bella amicizia.”
Queste le parole del curatore, principale motore di tutta questa
impresa, Luca Pakarov.
A me la segnalazione è arrivata da un'altra scrittrice,
che sporadicamente ha collaborato anche ad “A Rivista
Anarchica”, Angelica Paolorossi. Insomma, tutta una catena
umana che si oppone all'esilio perpetuo comminato ai reietti
della società.
Qualcosa cui aggrapparsi nel naufragio personale, che poi è
sempre naufragio della società.
Alessio Lega
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