Afroamerica
Ho letto Jesmyn Ward come una specie di miracolo narrativo,
innamorandomene all'istante. Le sue storie a Bois Sauvage –
luogo immaginario come tanti, ma anche tragicamente reale –
sono di una qualità splendente e appaiono irrinunciabili
per capire come va il mondo, in luoghi dei quali non abbiamo
idea. Ci sono arrivata per caso, e mi sono comprata tre romanzi
suoi in lingua originale e sono precipitata in una magica, innegabile
dipendenza.
Jesmyn
Ward è afroamericana, e racconta la sua gente. Storie
normali e ignorate, di famiglie che faticano a rendersi libere,
persone che faticano a raccontarsi il loro legame, che pure
c'è e rimane segreto. Vicende di bambini costretti a
crescere in fretta e incapaci di arrendersi. Storie: di quelle
che pensiamo siano inventate e non lo sono. Ho riconosciuto
una parentela con un'altra scrittrice scoperta di recente, pure
lei afroamericana. Nora K. Jemisin è afroamericana, e
anche lei, nel suo modo totalmente diverso (e anche quello totalmente
affascinante), racconta la sua gente. Lo fa scegliendo il percorso
tangenziale della distopia, ma alla fine è di noi che
si parla, qui e ora. Ed è un “noi” che –
come recita Jemisin nella dedica del primo volume della sua
trilogia – designa “quanti devono combattere per
ottenere il rispetto che agli altri è garantito”.
Continuando a saltabeccare da un romanzo all'altro, sono tornata
a Toni Morrison e al suo Amatissima. Nel raccontare una
storia vera, Morrison ci dice di come la ex-schiava Sethe, resa
folle di paura e quasi raggiunta da bianchi che crede siano
venuti a riprenderla, uccide sua figlia neonata pur di evitarle
di cadere nelle mani degli aguzzini. Non senza stupore, mi sono
resa conto del fatto che, in La quinta stagione, la protagonista
di Jemisin, Syanite, uccide suo figlio esattamente per lo stesso
motivo, replicando una tragedia scritta nel sangue e offrendo
un omaggio a quella che è stata fin qui, probabilmente,
la più grande scrittrice afroamericana e uno dei più
prodigiosi talenti letterari tout court.
Ward è meno diretta, eppure anche le sue sono storie
di relazioni impossibili tra madri che si scoprono incapaci
di comunicare con i figli e che nella maggior parte dei casi
sono troppo spaventate dal mondo per riuscire anche solo a pensare
di prendersene cura.
Così sono arrivata al nodo politico di questo ragionamento,
il punto in cui il legame di sangue si trasforma in apparente
crudeltà, abbandono, distacco, privazione di rifugio.
Nella storia degli afroamericani, le donne sono state sottoposte
a una doppia discriminazione, quella razziale e quella patriarcale.
Usate come macchine riproduttive nelle piantagioni, in seguito
spesso chiuse nelle maglie troppo strette di una comunità
nella quale l'autonomia (economica e riproduttiva) era impensabile,
ribelli e punite per questo, hanno dovuto imparare tecniche
espressive sofisticate per restituirsi una voce e una libertà.
C'è da imparare da molte di loro, e personalmente provo
dispiacere per non essermene accorta prima. Qualche anno fa,
mentre facevo il mio primo corso sugli afroamericani, una studentessa
mi ha scritto questa cosa bellissima: “Mi piace questo
corso perché se ne potrebbe costruire la colonna sonora”.
Troppo ignorante in questo ambito per capire il senso di questo
affermazione, ho rilanciato: “Bene. Allora sta a te: costruiscila
e condividiamola”. E lei lo ha fatto. Così ho scoperto
Nina Simone e la sua vita dolente, la musica rabbiosa e la radice
di alcune voci femminili d'America.
Ogni lezione è fatta di pezzi, e questo pezzo –
non mio – è stato particolarmente importante. È
stato, posso dirlo, il primo anello di una catena che mi ha
portata a Bois Sauvage, e che spero mi porti in altri luoghi
belli.
Chissà che ne hanno pensato gli altri duecento studenti
circa della classe, mentre condividevano una playlist costruita
per loro. E che curiosamente, tanto per cambiare e con una aggiunta
mia, comprendeva anche Akua Naru e il suo My mother's Daughter:
ancora una madre, e una figlia.
Nicoletta Vallorani
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