Fascismo, populismo, democrazia/
Non facciamo confusione
«È noto che l'identità personale risiede
nella memoria, e che l'annullamento di questa facoltà
comporta l'idiozia» con questa citazione del grande scrittore
e filosofo argentino Jorge Louis Borges (da Storia dell'eternità,
1936) si apre il bel libro di Federico Finchelstein, Dai
fascismi ai populismi. Storia, politica e demagogia nel mondo
attuale (Donzelli, Roma 2019, pp. 279, € 28,00).
Il saggio dello storico argentino, da anni trapiantato a New
York dove insegna storia, analizza il percorso carsico che porta
dal fascismo al populismo, con un approccio che fa dialogare
passato e presente, Nord e Sud del mondo, Europa e Stati Uniti.
L'analisi di Finchelstein ha il pregio di guardare al fenomeno
populista intrecciando i piani nazionali, transnazionali e internazionali,
in una prospettiva storica, ma avendo come orizzonte di riferimento
l'attualità. Molti elementi del fascismo, ripudiati dalla
politica dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale per via
della violenza, della guerra e della persecuzione degli ebrei,
sono apparentemente scomparsi dalla società contemporanea
ma qualcosa dell'iniziale radice è riemerso, anche se
in modo non schematico, proprio nel momento in cui le nuove
democrazie facevano i conti con se stesse, con la propria contraddittorietà
e le proprie crisi.
La fragilità della democrazia di fronte all'emergere
dei populismi si manifesta apertamente in due distinti momenti:
il primo quando il sistema democratico perde la propria legittimazione
di fronte alla maggior parte dei cittadini, rischiando così
di degenerare in un sistema autoritario di tipo fascista, in
cui la prassi elettorale perde il suo significato, l'espulsione
dell'avversario dai giochi politici viene accompagnata dalla
violenza nei suoi confronti, magari in base a criteri di esclusione
su base razziale, politica, religiosa o perfino di genere. Il
secondo momento si ha quando la democrazia, agli occhi dei cittadini,
perde non la propria legittimazione – perché la
maggioranza degli elettori continua a credere nella bontà
di fondo della prassi democratica – ma la fiducia
nella capacità della classe politica di rappresentare
le vere esigenze collettive. È proprio in questo caso
che possono prendere forza, e arrivare al governo, movimenti
populisti.
«La storia che porta dal fascismo al populismo è
essenziale per comprendere i processi politici a noi più
vicini», avverte Finchelstein nell'introduzione scritta
per l'edizione italiana. Fascismo e populismo, infatti, pur
avendo una storia comune, hanno seguito due strade diverse.
Il fascismo è stato una forma di dittatura politica,
spesso emersa dall'interno della crisi della democrazia con
l'intento di annientarla. Il populismo invece è «una
concezione autoritaria della democrazia, che dopo il 1945 ha
riformulato l'eredità del fascismo per associarlo a diverse
procedure democratiche». Il populismo contemporaneo –
in Europa, negli Stati Uniti e in America Latina – è,
dunque, una forma autoritaria di democrazia che prospera in
contesti di crisi politica, sociale ed economica, reale o percepita,
ponendo al contempo un problema di scarsa rappresentanza politica,
che induce la gente a ritenere che le proprie preoccupazioni
siano ignorate dai governi, e di crescente disuguaglianza economica
e sociale, che fomenta posizioni politiche radicali, xenofobe
e nazionaliste.
L'idea di democrazia dei populisti, secondo Finchelstein, «combina
l'idea che il potere deriva dal popolo con una prospettiva nella
quale il leader è non solo la voce del popolo, ma anche
un individuo dai tratti messianici e illuminato, predestinato
a incarnare il potere». Questa natura particolare del
populismo fa sì che esso occupi «una posizione
ambivalente fra la democrazia e la dittatura» perché
accanto all'esaltazione del leader, in termini mitici e sacrali,
utilizza «processi di legittimazione elettorale».
Ma l'accettazione del gioco parlamentare e democratico non significa
affatto adesione ai principi ispiratori della democrazia, tutt'altro:
i populisti, dal momento in cui salgono al potere, caratterizzano
la gestione dei loro governi «autoritari» con azioni
che tendono spesso a svilire la democrazia. Inoltre, un tratto
comune di questi movimenti e della loro cultura politica è
la «visione unanimistica» dell'azione politica.
Infatti, è radicata in loro la convinzione che il «popolo
– escluso dal potere da parte delle élites –
sia uno e uno solo, e che quindi abbia una voce sola e un solo
rappresentante, il capo carismatico. Un capo che si identifica
con il popolo e in cui il popolo proietta le proprie attese.
Il populismo trasforma cioè il plurale in singolare,
i tanti Io in un unico Noi». Di conseguenza,
per il populismo «la volontà unica della maggioranza
non può accettare altri punti di vista». Sotto
questo aspetto è, come il fascismo, una reazione e una
«risposta alle concezioni politiche liberale e socialista».
In conclusione, si può condividere la riflessione di
Finchelstein secondo la quale «spesso il fascismo»
diventa populismo e non viceversa quando si trasforma in regime
appoggiandosi «costantemente sui residui del primo per
lanciare una sfida» alla democrazia e approdando a «un
autoritarismo rimodernato» che trasforma la «tradizione
dittatoriale del fascismo classico in una forma di democrazia
antiliberale e intollerante». La novità maggiore
in questo primo ventennio del nuovo secolo è rappresentata
dall'ascesa del potere del populismo negli USA con la presidenza
Trump, nel paese considerato da tutti il baluardo della democrazia
nel mondo.
Tutta la riflessione di Finchelstein è sviluppata, comunque,
all'interno di un quadro democratico, la critica alla concezione
dello Stato autoritario, sia fascista che populista, non approda
quasi mai ad un'interpretazione libertaria. Per lo storico argentino
non vi è altra prospettiva che la democrazia così
come noi la conosciamo, un sistema politico che rimane fortemente
ancorato al sistema capitalista. Un modello questo nel quale
la funzione dell'organizzazione statale è soprattutto
quella di garantire e difendere solo gli interessi comuni della
classe dominante, cioè, nel mondo moderno, della classe
capitalistica. Non vi è lo spazio nella riflessione di
Finchelstein per uno sviluppo della società oltre la
forma della democrazia rappresentativa o se vogliamo essere
più precisi non si concepisce nessuna libertà
al di fuori del sistema democratico. La democrazia, secondo
lo storico argentino, non può conseguentemente svilupparsi
in un progetto più elevato dove la libertà, in
tutte le sue forme, sia maggiormente acquisita come processo
di riscatto sociale e condizione fondamentale per lo sviluppo
dell'umanità.
Per lo storico argentino l'unico argine al dilagare dei nuovi
populismi è proprio la riaffermazione dei principi democratici,
la difesa intransigente della «diversità dei valori
e delle opinioni» e del pluralismo come unico antidoto
capace di «impedire che la convivenza democratica possa
drammaticamente degenerare», dimenticandosi però
quanto la libertà, sia individuale che collettiva, si
conquista e si difende eliminando alla radice le strutture autoritarie
sia economiche che politiche.
Franco Bertolucci
Macchine e algoritmi/
L'assoggettamento è già avvenuto
Torna a spalancare una finestra sul presente, e in questo caso
anche sul futuro, Renato Curcio che da trent'anni, grazie alle
pubblicazioni e ai cantieri socioanalitici di Sensibili Alle
Foglie, fornisce preziosi contributi per l'analisi del contemporaneo.
Nello specifico, siamo alla quinta tappa editoriale di un percorso
aperto nel 2015 con L'Impero Virtuale. Colonizzazione dell'immaginario
e controllo sociale, un lavoro per molti aspetti profetico
seguito da L'Egemonia Digitale. L'impatto delle nuove tecnologie
nel mondo del lavoro, che ha portato avanti l'esplorazione
delle implicazioni sociali dei nuovi strumenti digitali, svelando
i meccanismi di allontanamento dall'auspicato progresso che
queste tecnologie avrebbero dovuto portare, se non fossero state,
ahimè, strumento nelle mani di grandi corporation intente
ad affermare una nuova forma di totalitarismo.
La
rapida evoluzione degli scenari descritti si palesa sin dai
titoli dei libri. Se nel successivo La Società Artificiale.
Miti e derive dell'impero virtuale (2017) la domanda rivolta
al lettore era “sapremo scegliere o ci accontenteremo
di essere scelti?”, nel 2018 si è passati ai toni
allarmanti del fondamentale L'Algoritmo Sovrano. Metamorfosi
identitarie e rischi totalitari nella società artificiale.
Oggi, infine, si discute de Il Futuro Colonizzato. Dalla
virtualizzazione del futuro al presente addomesticato (Sensibili
Alle Foglie, Roma, pp. 128, € 16,00) pubblicato alla fine
del 2019; ma l'invito, stavolta, è ad agire nell'ottica
di una vera e propria “decolonizzazione”, perché,
come viene evidenziato, l'assoggettamento è già
avvenuto da tempo.
A quanto pare, non è stato sufficiente aver compreso
che “ogni volta che ci attiviamo sul web diamo vita a
uno scambio ineguale tra il servizio che riceviamo e l'insieme
di dati e metadati che con la nostra attività produciamo
su noi stessi e, cedendo i quali, lo remuneriamo”, e che,
così facendo, ci consegniamo “agli automatismi
di quei processi comunicativi manipolatori che ci catapultano
in una condizione di libertà colonizzata, addomesticata
e radicalmente alienata [...] perché la ripetizione di
quelle pratiche abitudinarie finisce per consolidare effetti
di dipendenza sociale sempre più strumentalizzabili da
chi, di quelle macchine, è padrone.” Purtroppo,
infatti, la nostra capacità di svincolarci da questi
ingranaggi sembra non tenere il passo con il fulmineo mutamento
che ci investe.
Ne L'Algoritmo Sovrano si leggeva del progetto Neuralink
che produce interfacce neurali impiantabili, una sorta di smartphone
nel cervello. Ne Il Futuro Colonizzato si parla dei laboratori
Carboncopies dove si producono “protesi neurali
artificiali in grado di ripristinare le funzioni cerebrali infragilite
e di emulare il cervello e la mente al fine di trasferirli entrambi
su supporti non biologici di durata illimitata.”
In Cina, il sistema di punteggio del “credito sociale”
che valuta l'affidabilità dei singoli cittadini, istituito
su base volontaria nel 2014 e obbligatorio dal 2020, ha raggiunto
livelli di invasività degni dei migliori racconti di
fantascienza distopica. Lo Stato di sorveglianza è
stato denunciato negli ultimi mesi da media e politici occidentali
che ipocritamente criminalizzano il “dittatore”,
salvo poi imboccare la medesima direzione in nome dell'agognata
“sicurezza”, anche qui in Italia.
Questo testo illuminante, difatti, parla di “un futuro
virtuale che preme sul presente e si manifesta in forme differenziate,
ma in tutti i continenti del pianeta”, ed è interessante
vedere come il nostro paese stia lavorando per allinearsi ai
giganti, nonostante il cittadino sia il più delle volte
ignaro dei processi di cui diventa parte integrante. Di certo
siamo stati pionieri, grazie ai 5 Stelle e all'ufficio stampa
di Salvini, nello sperimentare l'enorme incidenza dei dispositivi
digitali sulle dinamiche politiche reali. Ma tornando invece
all'identificazione biometrica, che da Cina e India ha già
conquistato quasi tutta l'Europa, apprendiamo che in Italia
è stata ufficializzata nel 2014 e a breve le nostre nuove
carte d'identità elettroniche includeranno pattern facciale
e impronte digitali. E se già nel 2009 era stata istituita
la Banca Dati Nazionale del DNA, nel marzo 2019 è stato
approvato l'articolo “che prevede l'istituzione di sistemi
di verifica biometrica dell'identità per tutti i dipendenti
pubblici”. E scopriamo anche che a Roma abbiamo aperto
la Singularity University di Google, mentre a Napoli, dal gennaio
2019, quaranta robot umanoidi sono diventati “badanti”
di altrettante persone affette da Alzheimer.
Il fatto che il progresso tecnologico, specialmente nel mondo
del lavoro, non abbia portato a una liberazione dalla fatica,
ma piuttosto a richieste sempre più pressanti nei confronti
dei lavoratori, è tra gli assunti da cui muovono le riflessioni
contenute nel libro. Abbiamo accettato l'automatizzazione senza
che ciò aprisse “la strada ad alcuna riduzione
della pena, del tempo di lavoro, né a un proporzionale
aumento della retribuzione”. Ad esempio, nel marzo 2019,
“la Camera dei deputati ha approvato un disegno di legge
che autorizza la realizzazione di percorsi formativi di sei
mesi in ambito militare con modalità e-learning”.
Ancora una volta si gioca al risparmio e una semplice App
garantisce di “sostituire i formatori in carne e ossa
con docenti virtuali, registrare la traiettoria di ciascun allievo,
valutarne per via algoritmica prestazioni e risultati”.
Di certo non siamo a Tokyo, dove gli ascensori nei condomini
si attivano grazie al riconoscimento dell'iride; o dove una
catena della grande distribuzione ha sperimentato un sistema
di sicurezza dotato di Intelligenza Artificiale che porta a
bloccare i potenziali taccheggiatori prima ancora che abbiano
commesso il reato, come nel racconto di Philip K. Dick del 1956,
The Minority Report.
“Se non siamo entrati in uno stato di allerta forse è
soltanto perché i nostri sguardi sul futuro sono stati
già colonizzati a dovere e la domanda su un futuro diverso
è ormai uscita dal nostro stesso orizzonte”, avverte
Curcio. Ma in ultima analisi “siamo noi a trasformare
la finzione predittiva in pratiche fattive, siamo noi a decretare
il successo o l'insuccesso di quel futuro che ci viene prospettato
attraverso il trucco della previsione, anche se l'induzione
per farcelo interpretare solitamente lavora al di sotto del
livello della nostra consapevolezza”.
Prepariamoci, dunque, per la nuova Resistenza all'addomesticamento
digitale. In fondo, si legge, ha ancora senso lottare: le proteste
di quattromila ricercatori e tecnici di Google, ad esempio,
hanno costretto l'azienda a rinunciare a un lucroso contratto
col Pentagono per realizzare dispositivi di riconoscimento facciale
montati su droni di guerra. Ma soprattutto, volendo terminare
con una nota di ottimismo, potremmo sforzarci di immaginare
un futuro radicalmente diverso, così che “dalla
critica radicale dell'intenzionalità capitalistica potrebbe
finalmente fiorire [...] una tecno-scienza orientata alla costruzione
di un futuro umano e decolonizzato.”
Tobia D'Onofrio
GAAP/
235 biografie, un ritorno alle fonti
”Nell'aprile del 1994 Pier Carlo Masini fece dono alla
Biblioteca Franco Serantini di Pisa dell'archivio politico dei
GAAP (Gruppi anarchici d'azione proletaria) e delle sue carte
personali. L'impegno era che alla scomparsa di Masini, avvenuta
nel 1998, dopo un periodo di dieci anni, come da volontà
testamentaria, quei materiali fossero riordinati e resi disponibili
alle attività di studio e di ricostruzione storica. Questo
volume, il terzo e ultimo, testimonia il rispetto di quell'impegno”
(p. 4, Nota editoriale).
L'uscita
di questo terzo tomo (a cura di Franco Bertolucci, Gruppi
anarchici d'azione proletaria. Le idee, i militanti, l'organizzazione,
vol. 3. I militanti: le biografie, BFS/Pantarei, Pisa/Milano
2019, pp. 456 + ill., € 40,00) chiude, davvero in bellezza
si deve dire, l'opera imponente dedicata alla traiettoria sociopolitica
e culturale, breve ma significativa, dei mitici GAAP. Se nei
primi due sono stati presi in esame e analizzati, oltre che
ripubblicati, atti e documenti relativi all'organizzazione (ossia
le fonti soggettive, in massima parte provenienti dall'archivio
Masini sopracitato), nel presente volume si tracciano i profili
biografici dei militanti che – nella definizione del curatore
– “formarono il nucleo di questo 'ardito' esperimento
politico”.
Franco Bertolucci, editore e storico di vaglia, nel caso mette
in campo anche le sue competenze di archivista e bibliotecario,
ricostruendo le mappe dell'anarchismo italiano nel secondo dopoguerra
attraverso un focus puntuale e approfondito su quell'esperienza
che – come abbiamo già rilevato nella nostra recensione
al primo tomo (cfr. Umanità Nova, 4 febbraio 2018) –
rappresenta, politologicamente parlando, una risposta classista
e “di sinistra” alla grave crisi strutturale all'epoca
in atto nel movimento, crisi dovuta a molteplici fattori.
Se, per quanto riguarda mappe e geopolitica, la storiografia
aveva già inaugurato, proprio in questi anni, percorsi
virtuosi e fecondi – si pensi ad esempio alla serie di
importanti convegni promossi dall'Archivio Berneri di Reggio
e, nello specifico, si veda il nostro saggio Mappe del movimento
anarchico italiano 1921-1991, pubblicato nell'opera collettanea
L'anarchismo italiano. Storia e storiografia (Biblion
2016) – in questo caso, invece, Bertolucci mette in campo
un'ulteriore rilevante novità sul piano dell'approccio
divulgativo e, per così dire, tecnico: il passaggio dalla
mera narrazione di una mappa alla sua rappresentazione cartografica.
È questo l'espediente di grande efficacia che caratterizza,
fra le altre cose, il volume. Del resto si tratta di un trend
molto innovativo, oggi sempre più utilizzato nelle opere
storico-scientifiche, specie in quelle destinate a fungere da
strumento di lavoro e di ricerca. Ne citiamo due recentissime
a mo' di esempio, conosciute fra gli addetti ai lavori: la Infografica
della seconda guerra mondiale (Ippocampo 2019) curata dallo
storico francese Jean Lopez e il dossier sulla Repubblica Sociale
Italiana, di Marco Borghi, pubblicato nella “E-Review”
degli Istituti storici dell'Emilia Romagna.
Anche per questa capacità di trasformare in piacevoli
certe tematiche che, siamo sinceri, possono risultare a volte
alquanto indigeste, se non “pallose”, bisogna rendere
onore al merito dell'indefesso curatore. Questo terzo tomo,
strutturato principalmente come dizionario biografico, si presta
inoltre ad una stimolante lettura attraverso il prisma delle
generazioni.
“L'origine e la storia di questo nucleo di militanti,
si possono leggere anche dal punto di vista generazionale, in
considerazione del fatto che la parte più consistente
di essi vive nel quadro di un medesimo contesto storico-sociale,
quello della Seconda guerra mondiale, dell'antifascismo e della
Resistenza, una comune esperienza fatta di modi di sentire,
di pensare e di agire che è alla base poi di una forma
di azione collettiva che si consolida nell'immaginario e nel
dna politico di questa generazione e che crea quel nesso che
fa sì che questo gruppo di individui si senta parte di
una precisa comunità ideale” (p. 21).
Il volume, oltre al saggio introduttivo, comprende 235 biografie
e 109 tra lettere, relazioni e documenti redatti da una cinquantina
di militanti dei GAAP.
Nel suo complesso l'opera curata da Bertolucci ci permette di
tornare alle fonti. Perché è da lì che
bisogna sempre partire e poi ripartire, anche per decostruire
tutte quelle narrazioni che si sono via via sedimentate già
dalle interessate testimonianze “a caldo” dei protagonisti.
Al di là degli esiti e dei successivi percorsi i GAAP
riescono comunque ancora a interrogare l'anarchismo “ufficiale”
su questioni dirimenti che riguardano gli inediti scenari che
si sono prospettati nel secondo dopoguerra. Passati dal protagonismo
primonovecentesco alla mera testimonianza, gli anarchici portano
il fardello di una doppia sconfitta subita affrontando a viso
aperto i totalitarismi fascista e comunista staliniano. Fordismo
dispiegato, democrazia liberale, e forma repubblicana (conseguita
peraltro dopo una secolare, epica, lotta antidinastica) costituiscono
inoltre il quid novi per il quale servirebbe aggiornare
un bagaglio teorico libertario il cui nucleo centrale si è
formato nell'era geologica precedente.
I partiti politici, nello specifico DC, PCI e PSI, ricopriranno,
differentemente che dal periodo prefascista, un ruolo centrale
per tutta la prima repubblica. Nella sinistra e nei sindacati
sarà a lungo incontrastato il dominio dello stalinismo
e del mito dell'URSS. Tutto questo non è cosa da poco
e qualsiasi terzaforzismo, anche “borghese” se vogliamo
(si veda ad esempio il destino dell'area azionista), si scontra
con muri insormontabili. Certo i GAAP non sono in grado di dare
risposte forti e credibili, politicamente efficaci a siffatte
problematiche, tuttavia si deve riconoscere che almeno ne riescono
a percepire il peso e l'importanza.
Giorgio Sacchetti
Piazza Fontana/
I depistaggi e le colpe della magistratura
Era tempo che Guido Salvini, giudice istruttore di un troncone
importante delle indagini sull'eversione di destra e sulla strage
di Piazza Fontana, mettesse nero su bianco la sua esperienza
professionale e umana legata al 12 dicembre 1969 – giorno
cruciale della nostra storia collettiva, lì capiamo l'Italia
degli anni a venire e, in definitiva, quella di oggi.
Lo
scoccare suggestivo del cinquantesimo anniversario ha portato
nelle librerie La maledizione di Piazza Fontana. L'indagine
interrotta. I testimoni dimenticati. La guerra tra i magistrati
(Milano 2019, pp. 640, € 22,00) scritto con Andrea Sceresini
per l'editore Chiarelettere. Un libro poderoso, corposo e intenso
e non solo perché è il frutto di ben 30 anni di
inchieste sull'argomento da parte dell'autore – come giudice
istruttore dell'ultima istruttoria (1989-1998) e poi nelle vesti
di osservatore e analista – ma anche perché Salvini
ci porta dentro i meandri vivi e putridi della strage e ai retroscena
bassissimi delle indagini, quelli che hanno determinato gravi
e irrimediabili ritardi investigativi. Salvini non scrive un
saggio ma propone al lettore una narrazione e, scrivendo, resta
un giudice, usa il suo armamentario per riversare il suo sapere
sulle indagini insieme alla sua amarezza per il corto circuito
del sistema politico-giudiziario che ha bloccato e fatalmente
ucciso la possibilità di avere una chiara sentenza di
responsabilità.
Non che non sappiamo, anzi. L'anniversario è stato occasione
di molte pubblicazioni e di tantissimi dibattiti che, ci illudiamo,
hanno consolidato una certezza: le responsabilità della
bomba di Piazza Fontana sono acquisite. Il gruppo neofascista
di Ordine Nuovo, soprattutto grazie proprio alle indagini di
Salvini, è stato mente e braccio dell'ondata di violenza
stragista, sappiamo bene che non è mai stato un gruppo
politico di estrema destra ma una cellula paramilitare ben inserita
nel contesto delle strutture clandestine atlantiche. Gli apparati
dello Stato non sono intervenuti per difendere la democrazia:
la polizia politica di Umberto Federico D'Amato, con la sua
struttura degli Affari riservati, ha provveduto a deviare le
indagini sui gruppi anarchici, costruendo la figura del mostro
Valpreda e sbattendo brutalmente in carcere tutti i sospettati,
rimasti lì per tempi lunghissimi di arresti cautelari,
vite spezzate, sofferenza e abbandono per gli innocenti maldestramente
accusati; il nostro servizio segreto, il Sid, ha protetto tutto
il giro dei neofascisti, a cominciare da quelli che potevano
incautamente contribuire a dire la verità – organismi
delle istituzioni lavorarono non a favore ma contro le indagini.
Il primo testimone di giustizia che indicò la strada
della pista nera si fece avanti il 31 dicembre del 1969: Guido
Lorenzon, professore di francese, aveva appreso tantissimo dalle
confidenze ricevute dall'editore neofascista Giovanni Ventura;
e poi nel '71 arrivarono le confessioni di Giancarlo Marchesin
e Franco Comacchio.
Eppure la storia giudiziaria di Piazza Fontana è fatta
di centinaia di faldoni, cinque istruttorie, tre processi, dieci
gradi di giudizio complessivi e solo il pentito Carlo Digilio
è uscito condannato come responsabile della strage. Il
libro di Salvini ci mette di fronte a un aspetto brutale della
faccenda: non solo i depistaggi e le protezioni, non solo la
forza dei gruppi neofascisti e delle loro protezioni, non solo
la rete di protezione degli agenti statunitensi disseminati
nelle basi Usa. Anche l'imperizia e la superficialità
degli inquirenti hanno contribuito a rendere incompiuta la verità
giudiziaria – nel frattempo e per fortuna si è
consolidata quella storica.
Perché non è stato rintracciato e interrogato
Ivano Toniolo, uno degli “operativi” della cellula
padovana di Ordine Nuovo, a casa del quale, il 18 aprile 1969,
era stata decisa la campagna di attentati culminata con la strage
del 12 dicembre? È morto nel 2015 in Angola, dove risiedeva
dagli anni '70. La procura di Milano si è sempre rifiutata
di contattarlo e di ascoltarlo, nonostante le ripetute sollecitazioni
sia del giudice Salvini che dell'avvocato Sinicato, l'avvocato
dei familiari delle vittime. Carlo Digilio e
Martino Siciliano, preziosi collaboratori, sono stati
entrambi abbandonati a sé stessi. E perché non
fu fatto il possibile per cercare il casolare di Paese, prova
decisiva non cercata dalla Procura – ritrovata solo nel
2011 dalle indagini ben fatte dell'ispettore Michele
Cacioppo nell'ambito delle indagini sulla strage di Piazza della
Loggia condotte dalla Procura di Brescia?
La lista delle persone trascurate è lunga. C'è
anche Giampietro Mariga, l'autista della strage. Non fu cercato.
Fuggì in Francia e si arruolò nella Legione straniera;
la Procura di Milano, incalzata da Salvini, temporeggia e arriva
troppo tardi: nel marzo del 1998 viene trovato morto, pare suicida.
Tutto avviene mentre scoppia la guerra tra magistrati, ricostruita
dettagliatamente nella terza parte del libro: Salvini si è
beccato un'indagine per abuso d'ufficio da parte della procura
di Venezia e ben due procedimenti presso il Csm. Un attacco
durissimo – durato dal 1995 al 2001, Salvini completamente
assolto dalle accuse – ma rovinoso per la
sua indagine presa di mira proprio mentre stava dando buoni
frutti.
Tra testimoni abbandonati, processi frammentati e faldoni in
giro per l'Italia, in un su è giù che ha corroso
la vitalità della miriade di prove e indizi raccolti
nel tempo, anche le rivalità e le gelosie hanno segnato
drammaticamente l'esito delle inchieste sull'atto criminale
che ha aperto lo stragismo in Italia. Le aspre pagine di Guido
Salvini sui comportamenti di diversi e noti suoi colleghi aprono,
ahinoi, un nuovo faldone, quello delle responsabilità
di certa magistratura nelle mancate verità sulle pagine
più violente della storia recente del nostro Paese.
Stefania Limiti
Nuove tecnologie e rapporti di dominio/
Imparare dalle storie degli altri
Il libro Internet, Mon Amour – Cronache prima del
crollo di ieri (Ledizioni 2019, pp. 270, € 19,00) è
un esperimento di autoproduzione e informatica conviviale firmato
da Agnese Trocchi, a cura di C.I.R.C.E.
Recita la quarta di copertina: «Le nuove tecnologie ci
danno la possibilità di non dover scegliere. Non è
fantastico?» Quanta fatica in meno! Davvero, è
magnifico delegare la responsabilità di ogni scelta a
sistemi cosiddetti intelligenti. Quale libro acquistare, quale
film o serie TV vedere; ma anche dove andare a cena, o in vacanza;
quale strada percorrere per arrivare a destinazione: ci pensano
piattaforme online, app su misura, navigatori, assistenti
vocali, tutti assai smart. Funziona anche per scegliere
l'anima gemella, o almeno con chi andare a letto, e così
via. Funziona, davvero.
Però
ogni delega ha un prezzo. In questi casi, insieme alla fatica,
ci si libera piano piano anche dalla capacità di scegliere
autonomamente, e quindi ci si libera anche dalla libertà.
Ecco il perché di questo libro, in cui Agnese raccoglie
una quarantina di storie accadute prima di una (remota? possibile?
probabile?) Grande Peste di Internet. Storie di ordinario ab-uso
tecnologico, raccontate da un gruppo di hacker, artiste, smanettoni,
poi commentate, analizzate e ordinate in cinque giornate: fuoricasa,
relazioni, sex, truffe e una conclusiva
ricreazione.
Sono storie vere, realmente accadute; oppure, più raramente,
solo verosimili. L'obiettivo è raccontare il presente
e il recente passato per ricordarci che il futuro non è
scritto, ma dipende (anche e soprattutto) dalle scelte di ogni
umano, giorno per giorno.
La versione cartacea di questo libro è in distribuzione
anche presso alcuni luoghi affini per feticci cartacei, indicati
sul sito di C.I.R.C.E. La versione integrale del libro si può
leggere liberamente, naturalmente su internet, a questo indirizzo:
ima.circex.org
No, in caso questa fosse la prossima domanda, non prevediamo
di diffonderlo in PDF. Il libro è tutto online, volendo
si può salvare per la lettura offline (copia del sito
con wget, o per windows www.httrack.com) e rimane navigabile
e molto comodo da leggere anche su dispositivi con lo schermo
piccolo. Il PDF, invece, ha tante controindicazioni per la lettura,
essendo un formato per la stampa. Ecco qui più in dettaglio
come la pensiamo in merito: circex.org/it/ima/aiutaci-a-diffondere-internet-mon-amour
Stiamo creando una versione EPUB, che però è un
po' laboriosa, se si vuole ottenere qualcosa di dignitoso.
Internet, Mon Amour è un libro conviviale non
solo per il quadro narrativo ma anche perché utile per
i nostri laboratori e formazioni – del Centro Internazionale
di Ricerca per la Convivialità Elettrica, o C.I.R.C.E.,
il pomposo nome che abbiamo voluto affibbiare alle nostre collaborazioni
– sparsi in giro per l'Europa.
Il presupposto di C.I.R.C.E. è il riconoscimento del
punto di vista privilegiato rappresentato dal digitale di massa.
Almeno dall'inizio del XXI secolo le tecnologie digitali di
massa sono i luoghi in cui risultano più leggibili i
meccanismi di dominio, ovvero le asimmetrie di potere. I media
infatti «mediano» le relazioni di potere, fra individui,
istituzioni e così via. Gli «Altri» radicali,
le macchine, sono la cartina tornasole capace di rivelare i
nostri punti nevralgici, di maggiore sensibilità, a livello
individuale e sociale. Così il dibattito si concentra
sulla sorveglianza, invece che sul capitalismo; sull'insegnamento
dell'informatica, persino ai bambini, invece che sulla logica;
sul cyberbullismo, invece che sulla prepotenza come metodo standard
per farsi strada nella vita; sulle criptomonete, invece che
sull'esproprio continuo della capacità di autodeterminazione
e autogestione delle persone; sulla corretta informazione, invece
che sull'oppressione come modalità di default
per la gestione dei conflitti; sulla regolamentazione dei social
e delle piattaforme, invece che sulla manipolazione strutturale
delle tecnologie di massa.
Ma i conti non tornano. Il dito delle «nuove tecnologie»
tende a oscurare la luna dei rapporti di dominio. Perciò
ci rivolgiamo in primo luogo agli esseri umani curiosi
del loro rapporto con gli esseri tecnici, in particolare
digitali ed elettromeccanici. Insomma quelle che vengono rubricate
solitamente come «macchine».
Perché raccontare storie, allora? Internet, Mon Amour
cerca di concretizzare l'idea che «il metodo è
il contenuto». In parole povere, non si può insegnare
dall'alto di una cattedra a collaborare in maniera orizzontale.
Dal punto di vista metodologico, sarebbe quasi come urlare a
qualcuno di fare silenzio con l'obiettivo di insegnare il «valore
dell'ascolto». O come chiedere di insegnare a usare bene
una pistola affinché non spari mai, ma intanto ci difenda.
Non si può usare bene.
Però si possono fare molte altre cose interessanti. Per
esempio imparare dalle storie degli altri. La versione digitale
di Internet, Mon Amour continua ad arricchirsi di nuovi
racconti di ricreazione, lontani dalle facili distopie. Perciò,
se avete dei suggerimenti, o una storia da raccontare, fateci
sapere: ima@circex.org.
Carlo Milani
C.I.R.C.E.
circex.org
Susan Sontag/
L'autoanalisi di un'intera società
Sorprendono
i diari di Susan Sontag, di cui sono già usciti tradotti
in italiano i primi due volumi per le edizioni Nottetempo (Rinata.
Diari e appunti 1947-1963, Milano 2018, pp. 320, €
22,00 e La coscienza imbrigliata al corpo. Diari e taccuini
1964-1980, Milano 2019, pp. 600, € 25,00). In questi
taccuini, l'intellettuale americana, scomparsa nel 2004, scrive
della propria vita privata, degli affetti più intimi,
del proprio pensiero e degli incontri con figure importanti
del mondo culturale internazionale.
I diari, curati dal figlio David Rieff, mostrano la forza e
i lati deboli dell'autrice, il suo pensare lucidamente, dispiegato
poi nella disciplina dei suoi saggi e una grande fragilità
nel vissuto sentimentale e familiare, di cui è sempre
cosciente e a cui guarda come da un suo malevolo doppio, senza
alcun pietismo, né assoluzione.
Difficili e complessi i rapporti con la madre, negativa la figura
del marito, a più riprese descritto con note di disgusto,
che devono avere creato non poca sofferenza al figlio nella
selezione dei brani e quindi pagine e pagine sui fallimenti
amorosi, sull'omosessualità (a tratti bisessualità)
mai celata e sulla dipendenza dalle donne amate che la condizionò
a lungo. Sono questi i brani più amari di diari e taccuini;
vero che scriveva queste pagine sopratutto sopraffatta dalla
tristezza, ma è evidente che viveva ogni relazione lesbica
in modo totalizzante, tanto da far indietreggiare le amanti
coinvolte, anche se va detto che quasi sempre erano più
o meno in difficoltà con la propria vita.
L'attrazione di Sontag per personaggi famosi, cosa che un po'
la irritava, ma ammetteva, dà al lettore ulteriore conferma
dello stile di questa donna tesa e implacabile nel non arrendersi
ai luoghi comuni o a un conforto che non cercava. Questo aiuta
a comprendere lo spirito in cui scrisse queste annotazioni,
frammentarie, discontinue, ma vere. Leggiamo così un
lungo diario che attraversa buona parte del '900 e mostra i
dilemmi che hanno lacerato, non solo la scrittrice Sontag, ma
intere generazioni che tentarono di sottrarsi all'anestesia
morale e civile, ma non senza cadere in un'altra forma di conformismo,
più politico e altrettanto mortale.
L'autoanalisi di Sontag è durissima e c'è, nell'essenza
delle sue riflessioni, un lavoro inarrestabile, una ricerca
e interrogazione che si muovono tra la materialità del
corpo e quella del linguaggio. Se ne serve per scandagliare
i propri lati oscuri, senza censure e questo le garantisce un'integrità
morale che ha il suo peso nella vicenda complessiva della sua
vita, ma la porta anche ad anticipare certe riflessioni della
più recente filosofia.
A
un certo punto si definisce femminista militante, ma non militante
femminista, prendendo un po' le distanze da alcune tendenze
del movimento di allora; sì all'impegno, ma nella libertà
di non farne un mestiere. Da pensatrice radicale e libera, non
amava nemmeno una certa sinistra, troppo ferma al solo anti-americanismo
e di un estremismo spesso fine a se stesso. I suoi giudizi sul
comunismo reale e sul Vietnam del nord che visitò durante
il conflitto, tolgono ogni dubbio sulla lontananza che sentiva
verso ogni ideologia autoritaria e verso i totalitarismi. Non
per questo era morbida con l'ambiente intellettuale, sia newyorchese
che degli espatriati. Basterebbero le pagine sul Marocco a confermare
il suo sottrarsi ad ogni estetismo naïf.
L'altro rapporto complesso fu con la malattia. Il cancro la
colpi a più riprese, fino all'atto finale, la morte.
Non si arrese e si curò con ogni mezzo. Le ultime fotografie,
scattate dalla sua compagna Annie Leibovitz, ne rivelano la
sofferenza e l'invecchiamento, oltre alla solitudine di chi
è di fronte alla morte. Non si estraniò mai comunque
fino al punto di tacere. La sua condanna delle tante atrocità
fu puntuale e mai subordinata al politicamente corretto. Vedeva
troppo bene sia le falle della democrazia, sia cosa significasse
e implicasse la presenza di movimenti fondamentalisti, il loro
essere più che antidemocratici, impregnati di un patriarcato
in cui l'odio verso i diritti delle donne e dei diversi ha passato
ogni limite e dove l'uso della religione è finalizzato
ad imporre una visione unica del vivere, creando di fatto un
imperialismo se possibile ancora più feroce di quello
che vorrebbero eliminare.
I taccuini fino ad ora pervenuti si fermano al 1980, si aspetta
quindi il terzo volume, ma tanto altro si può comunque
leggere nei suoi ultimi libri. Resta da dire il suo amore per
la letteratura, il cinema, la cultura in tutte le sue ramificazioni.
Impressionano le liste di film che riusciva a vedere, lo stesso
per le letture. Tra le altre cose fu anche regista di film e
di spettacoli teatrali. I suoi film e il teatro, così
come i suoi romanzi, non raggiunsero mai il livello dei saggi
dove la sua intelligenza trovò lo sbocco ideale. Soffrì
anche per questo. Si voleva artista a tutto tondo, ma il suo
talento era diverso. Non cosa da poco in ogni caso; da lì
vengono la sua capacità di critica severa, il coraggio
in ogni frangente (in alcuni casi assai scomodo) e la curiosità
per un mondo da esplorare e vivere con gli altri. Tutto questo
la sua scrittura privata lo conferma.
Nadia Agustoni
Pino Pinelli/
”Hanno detto che mi sono suicidato”
Non tacete, io sono innocente... Non tacete, che il silenzio sarebbe vergogna.
(Bartolomeo Vanzetti)
«Mi chiamo Giuseppe Pinelli, ma tutti mi chiamano Pino. Sono morto nella
notte del 15 dicembre 1969. Hanno detto che mi sono suicidato,
che mi sono buttato dal quarto piano della questura di Milano».
Comincia così il film Pino - Vita accidentale di un
anarchico di Claudia Cipriani. Un titolo che rimanda esplicitamente
alla pièce di Dario Fo (Morte accidentale di un anarchico)
e che, fin dal titolo, parla soprattutto della “vita”
di Pino, della sua quotidianità al Circolo anarchico
Ponte della Ghisolfa, dei suoi ultimi giorni con la famiglia
e i compagni nella casa di Via Preneste - le porte sempre spalancate
sul mondo - i ricordi delle figlie ancora bambine. La voce fuori
campo di un attore interpreta Pinelli, in apertura, poi saranno
soprattutto due attrici “nei panni” delle figlie
a condurci, a parole, in questa storia di lutto e dolore non
di una sola famiglia, né dei soli circoli libertari,
ma dell'Italia intera.
Al principio, sullo schermo vediamo “in soggettiva”
una strada d'asfalto srotolarsi nella notte buia. Idealmente,
in quel momento, “siamo tutti” Pinelli, a bordo
del suo leggendario motorino rosso scassato, a percorrere la
notte di Milano, ancora una volta. Già morto, ucciso,
innocente, la “sua” voce aggiunge: «Hanno
detto che mi sono buttato, gridando “è la fine
dell'anarchia!”, ma chi mi conosceva bene sa che non mi
sarei mai arreso. Ci sono troppe cose da cambiare in questo
mondo... Per questo non mi sarei mai suicidato. Forse pensavano
che la morte di un anarchico sarebbe stata dimenticata in poco
tempo. Hanno fatto male i loro conti».
Il film Vita accidentale di un anarchico è un
lavoro anomalo e sentito, documentato, personale, storico, famigliare,
a tratti poetico (Pino guarda la città scorrere al contrario
sull'acqua dei navigli, Pino legge Topolino alle sue
bambine con tanto di “Bang, Gasp, Gulp!”).
Realizzato in tecnica mista, è documentario, animazione,
collage di ritagli di giornali, fotografie, filmati d'epoca.
Forse eccede nel voler condensare anche cinquant'anni di Storia
successiva (lo scorrere degli anni e delle immagini di repertorio
da Reagan a Berlusconi). Riesce però completamente a
evitare la “docufiction”, genere brutto fin dal
nome, ed è soprattutto traccia “diaristica”
delle figlie. Il film parte proprio dal racconto di Claudia
e Silvia, coautrici insieme alla regista e a Niccolò
Volpati. Narrazione ad altezza e sguardo delle bambine di allora.
Innocenti, come il padre, in un'Italia in cui la strategia della
tensione raggiunge il suo culmine tragico.
Un mosaico che si compone progressivamente, attraverso il racconto
delle figlie di Pino, che a loro volta, oltre ai personali ricordi,
hanno in parte conosciuto il padre attraverso la narrazione
della madre e degli amici. L'antiautoritarismo, il pacifismo,
la non violenza di Pinelli, sempre dalla parte degli ultimi,
tutto emerge attraverso racconti privati e le letture consigliate
da Pino agli amici (L'antologia di Spoon River di Edgar
Lee Masters, Memorie di un rivoluzionario di Kropotkin,
La disobbedienza civile di Thoreau e La fattoria degli
animali di George Orwell).
Anarchico, ferroviere, esperantista, idealista... Il ritratto
di Pino emerge potente e nitido attraverso parole, immagini
e “immaginazioni” (veritiere): l'attore che lo interpreta
e il cartoon.
I giornali di allora titolano: “Gli dissero: abbiamo preso
Valpreda e Pinelli saltò giù dalla finestra”.
“Valpreda continua a negare”. “I vicini affermano:
sembravano brave persone”.
Stabiliscono già la loro “Verità”
lapidaria, innegabile e inoppugnabile.
Il questore Guida, ex direttore del confino di Ventotene durante
il fascismo, dichiarò: «Il suo gesto suicida è
come una confessione».
Ogni falsità, mezza verità, inganno ritorna a
fuoco nell'opera di Cipriani, la cui visione andrebbe accompagnata
al recente libro di Paolo Pasi, Pinelli – Una storia
(ed. eleuthèra).
È assordante nel film il silenzio che accompagna le immagini
dei funerali delle vittime della strage di Piazza Fontana (15
dicembre) e poi quelli di Pino (20 dicembre), del quale vediamo
rare tracce filmate in bianco e nero. Licia, i parenti e gli
amici in lutto camminano nella nebbia in un filare di alberi
del cimitero.
Struggente anche il racconto delle figlie alla vigilia dell'inaugurazione
dell'opera di Enrico Baj I funerali di Pinelli (che non
“inaugurò” mai, dopo l'omicidio Calabresi).
Claudia e Silvia si vedono/riconoscono nelle due bambine dipinte
in lacrime e con le mani sugli occhi dell'opera e ne escono
sconvolte. Riconoscersi nell'arte diventa riconoscersi nella
verità.
La moglie di Pino osserva: «Alla morte non c'è
rimedio, alla diffamazione sì».
Come nel libro Una storia quasi soltanto mia di Licia
Pinelli e Piero Scaramucci (ed. Mondadori) colpisce ancora oggi
proprio la forza senza pari della moglie di Pino, la sua determinazione
a esigere verità e giustizia per l'amato, a nascondere
ogni pianto davanti alle bambine. A occultare ogni giornale,
a spegnere ogni televisore.
Un giorno Pino disse, riferendosi alle tensioni crescenti: «Non
vedo l'ora che passi questo 1969».
Purtroppo quel '69, proprio quando stava terminando cronologicamente,
è rimasto come sospeso per sempre nel suo loop
di menzogne.
Nel 2005 la Cassazione stabilisce che la strage di Piazza Fontana
fu compiuta da Freda e Ventura, non più processabili,
perché assolti in via definitiva nel 1987.
Nessuna giustizia per la strage, così come nessuna giustizia
per Pinelli. L'unico riconoscimento di “giustizia ufficiale”
– visibile nel finale del film – fu quando, nel
2009, il presidente della repubblica Giorgio Napolitano invitò
Licia al Quirinale. Chiese «rispetto per la figura di
un innocente che fu vittima due volte, prima di pesantissimi
infondati sospetti e poi di un'improvvisa, assurda fine».
Luca Barnabé
Charlie Hebdo/
La libertà (pagata cara) di ridere di tutto
Il memoir di Philippe Lançon, uno dei sopravvissuti
alla strage di Charlie Hebdo del 7 gennaio 2015, non
dedica poi molte pagine all'attentato. L'autore vi si sofferma
in un capitolo dove descrive con grande cura la confusione e
il terrore di quei due minuti in cui vide cadere alcuni fra
i suoi più cari amici, uccisi dai proiettili dei fratelli
Kouachi, e rimase gravemente ferito. Ma per quanto possa apparire
strano, non è la parte cruciale del libro. In realtà
La traversata – pubblicato da e/o nella traduzione
di Alberto Bracci Testasecca (Roma 2020, pp. 464, € 19,00)
– è per la maggior parte la cronaca del dopo, ovvero
di una lunghissima degenza, con tutto ciò che questo
comporta: la solitudine e l'immobilità; gli incontri
casuali con gli altri pazienti e le fragili relazioni che ne
sorgono; la nuova scansione del tempo; alcune letture e alcuni
ascolti (Kafka, Thomas Mann e Bach su tutti); gli agenti di
polizia che piantonano la camera d'ospedale, per fronteggiare
eventuali nuovi assalti; la ciclicità delle operazioni,
dei fallimenti e dei tentativi per riavere un corpo funzionante
e una bocca integra; la difficoltà di “posare di
nuovo i piedi sulla sponda dei vivi”; le sedute di fisioterapia
e cinesiterapia dopo gli interventi chirurgici; e infine, una
rigorosa dieta di opinioni.
Vittima “dei censori più zelanti, quelli che liquidano
tutto senza aver letto niente”, Lançon limita il
più possibile le considerazioni di ordine generale e
anzi comincia a provare una certa nausea delle parole: “Ogni
parola pubblica aveva il marchio dell'indifferenza e della vanità.
Tutte, a cominciare dalle mie. Le parole vivevano ormai soltanto
nel campo più intimo e concreto, era l'unico posto in
cui potevano vivere e, pur attenuata, è una sensazione
che provo ancora due anni e mezzo dopo mentre sto scrivendo
queste righe, per quel che valgono. Ho sempre l'impressione
di scrivere a lato di me stesso quando scrivo per quelli che
non hanno conosciuto la camera e il silenzio che la avviluppava.
La camera è il luogo in cui le parole crepano, si spengono.
Non ne sono uscito. Continuo a pensare che quel che scrivo sia
di troppo.”
Una nausea che si manifesta anche nei confronti della pompa
delle manifestazioni, dell'onda di retorica – spesso in
ottima fede, a volte meno – dei giornali e della politica.
Quando legge dello slogan Je suis Charlie, Lançon
si limita sobriamente ad affermare che lui, a letto con una
mascella distrutta e numerose ferite, non è Charlie:
“Manifestazione e slogan riguardavano un evento di cui
ero stato vittima, di cui ero uno dei sopravvissuti, ma per
me era un evento intimo. Me l'ero portato dietro come un tesoro
malefico o un segreto in quella stanza in cui niente e nessuno
poteva seguirmi completamente, a parte colei che mi aveva preceduto
nel cammino che mi accingevo a intraprendere: Chloé,
la mia chirurga. Scrivevo su Charlie, ero stato ferito e avevo
visto i miei amici morti a Charlie, ma non ero Charlie.”
Semmai è i suoi affetti, è i suoi medici –
e non ci si inganni, perché è esattamente per
questa possibilità di chinarsi sul proprio cerchio ristretto
di amori e idiosincrasie che Charlie Hebdo si è
battuta.
Un altro aspetto molto interessante de La traversata
è il rifiuto, da parte di Lançon, di qualsiasi
senso di colpa del sopravvissuto. Chi ha letto Primo Levi conosce
bene questa sindrome: tuttavia Lançon non si colpevolizza
per essere rimasto vivo: prova molto dolore per chi è
morto, prova rabbia, ma non altro. La sua amministrazione del
lutto è fieramente libertina, nel vero spirito di Charlie
Hebdo, viene da dire. Da ciò scaturisce un inno alla
vita pressoché assoluto; e per questo è bene non
aspettarsi dalla Traversata conforti morali o profonde
rivelazioni: la vita, la vita vera, è tutto: gli amori
e le letture e la musica, ma anche gli egoismi, i difetti, le
piccole meschinità, l'indifferenza, la rabbia. Questo
è quanto accetta per intero Lançon, quanto accettavano
i suoi amici assassinati. È meglio della morte. Specularmente,
l'autore rifiuta il potere che acquisirebbe in quanto vittima:
potere di essere ascoltato più del previsto; potere sacrale
di perdono e assoluzione. Rifiuta i doni oscuri di quel giorno
orrendo, fra cui l'eventuale arroganza di “saperne di
più”.
Libertario come il nucleo storico di Charlie, ma direi individualista
fino al midollo, Lançon ci guida in una “traversata”
che è innanzitutto personale: le complicazioni di una
storia d'amore su cui l'attentato grava come un macigno; i rapporti
con il fratello e i genitori; le conversazioni con medici e
infermieri. Tutto questo significa snobbare l'enorme tratto
politico e sociale di quanto accaduto? No, certo. Ma è
nelle fessure del testo che questo tratto viene indagato, con
una sorta di comprensibile stanchezza e disgusto: eppure lanciando
qualche spunto illuminante.
Innanzitutto: la mattina dell'attentato, come le altre, i redattori
di Charlie Hebdo erano lì per “dire cazzate”.
Letteralmente. “Insisto, lettore: in quel mattino come
gli altri l'umorismo, l'apostrofe e l'indignazione teatrale
erano i giudici e gli esploratori, i genietti buoni e quelli
cattivi, secondo una tradizione molto francese che valeva quello
che valeva, ma il cui seguito avrebbe dimostrato che l'essenziale
del mondo le era estraneo.” Anche per questo, come osserva
con amara ironia Lançon, quella mattina in Francia erano
ben pochi a voler essere Charlie. Il giornale aveva alcuni lettori
fedeli ma certo molti più detrattori, che lo accusavano
di razzismo e che lo odiavano al punto di trasformare “la
lotta sociale in bigottismo” – proprio ciò
contro cui Charlie Hebdo si scagliava.
“Eravamo una banda di amici più o meno intimi di
un piccolo giornale ormai in bolletta, quasi defunto”,
spiega il giornalista. “Lo sapevamo, ma eravamo liberi.
Eravamo lì per divertirci, per insultarci, per non prendere
sul serio un mondo disperante.” Si può essere d'accordo
o meno con il loro modo di divertirsi, ma non si può
negare che l'esperimento di Charlie era ed è di tendere
la libertà d'espressione al suo limite estremo; ridere
di tutto, ridendo in primo luogo di se stessi. E in effetti
gran parte del dibattito prima e forse ancor più dopo
l'attentato, pur sempre riconoscendo l'oscenità e l'orrore
di quella violenza, si è concentrato sulla liceità
della satira da parte di Charlie Hebdo, spesso gratuita
o rivolta verso la religione di fasce sociali discriminate e
povere – appunto l'Islam. Come se in redazione fossero
del tutto ciechi di fronte alla diseguaglianza sociale o praticassero
una forma di irresponsabilità totale, che prima o poi
avrebbe provocato quanto è accaduto: ragionamenti del
genere erano moneta corrente.
Ebbene, una delle ultime cose che Lançon ha sentito durante
la riunione del 7 gennaio 2015 è stata una tirata di
Tignous, al secolo Bernard Verlhac, uno dei vignettisti del
settimanale, prima che venisse falciato dai colpi morendo con
la penna in mano. È bene citare il brano per intero:
“Ha parlato della periferia da cui veniva lui, Montreuil,
e dei suoi amici d'infanzia. Molti di loro erano morti, finiti
in prigione o devastati da qualcosa. «Io ne sono uscito»
ha tuonato, «ma loro? Che hanno fatto per loro, perché
avessero un'opportunità? Niente! Non hanno fatto niente.
E continuano a non fare niente per quelli che vengono dopo,
per tutti quelli che non hanno un lavoro né un'occupazione,
che ciondolano per strada e sono condannati a diventare ciò
che ne abbiamo fatto noi, degli islamisti, dei pazzi furiosi,
e non venirmi a dire che lo Stato ha fatto tutto per loro. Non
ha fatto proprio niente, lo Stato. Li lascia crepare. È
un pezzo che se ne frega!». Sto ricostituendo, riassumendolo,
un discorso molto più perentorio, arrabbiato, limpido,
un discorso che sgorgava dal cuore, brandendo la matita, che
l'accento popolare del disegnatore aveva trasformato in un grido
di rabbia in favore dei poveri delle periferie, dei disoccupati,
dei violenti, degli arabi, dei musulmani, dei terroristi. Bernard
non ha replicato e io ho pensato che era arrivato il momento
di andarmene.”
Poi sono arrivati gli assassini.
Giorgio Fontana
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