Nel bosco degli alberi. L'ultima fase del lavoro di Gianni Bosio nel Nuovo Canzoniere Italiano
Per la storia della cultura orale lo spettacolo e poi il disco Nel bosco degli alberi (1970/1972) rappresenta la chiusura di un ciclo fondamentale iniziato quasi dieci anni prima con le rassegne Altra Italia e Pietà l'è morta e soprattutto la storica e scandalosa Bella ciao.
L'ipotesi teorizzata e praticata era quella di costruire un
linguaggio che fosse assieme teatrale, letterario, musicale
e politico per ricollocare i canti popolari – frutto di
una forsennata ricerca sul campo – in uno spazio che garantisse
il loro valore contestativo per la borghesia e quello del riconoscimento
e della creazione di una coscienza per le classi popolari.
Certamente il primo scopo fu raggiunto con le polemiche e le denunce durante il Festival dei due mondi di Spoleto del 1964, ma nulla è più evanescente e borghese della provocazione: le classi agiate, almeno le loro frange meno codine e reazionarie, amano essere rimbrottate. Di fatto le canzoni popolari, pur con qualche mal di pancia, divennero note, approdando persino in televisione (nelle loro versioni più edulcorate e con interpreti più “potabili” della ex-mondina Giovanna Daffini o del “ragazzaccio di strada” Ivan Della Mea) e ponendo tutta una serie di nuovi problemi ai loro primi ricercatori e propugnatori. Ma il consuntivo non era affatto negativo: tutta una nuova generazione di ribelli e militanti, studenti e giovani lavoratori, figli degli emigranti e degli operai approdati all'università, al sindacato, ai partiti della sinistra o alle formazioni extra-parlamentari ritrovarono in quelle canzoni una sintesi chiara delle aspirazioni rivoluzionarie. Possiamo dire che le canzoni popolari e le nuove canzoni che nascevano dall'esperienza del Nuovo Canzoniere (quelle di Della Mea, Pietrangeli, Marini, Bertelli) furono l'educazione sentimentale della generazione ribelle.
Gianni Bosio
A tirare le fila di questo progetto vi era un gruppo di intellettuali:
Roberto Leydi (allontanatosi nel 1966), Franco Coggiola, Cesare
Bermani, Giovanni Pirelli, Tullio Savi, Riccardo Schwamenthal,
ecc. A dirigere il percorso, sovente defilato ma attentissimo,
c'era Gianni Bosio: giovane partigiano, scampato per un soffio
alla fucilazione, militante della sinistra socialista, storico
del movimento operaio, era approdato come editore alla cultura
orale e ai canti popolari e da allora era divenuto un organizzatore
di cultura. Nella seconda metà degli anni sessanta era
ormai un socialista senza partito con in mano un'impresa della
quale provare a far quadrare i conti, senza trasformarla in
una casa discografica o un'agenzia di spettacoli. Bella Ciao
(il disco più venduto del Folk), Ci ragiono e canto
(lo spettacolo che aveva impresso una svolta al teatro di Fo),
Contessa e Cara moglie (le nuove canzoni che identificavano
rispettivamente il movimento studentesco e quello operaio) gli
erano esplose tra le mani. Ora però si trattava di trovare
nuove sintesi che facessero il punto su dieci anni di lavoro
in uno scenario mutato, apparentemente più favorevole
alla cultura popolare.
Bosio, dopo l'epocale rottura con Roberto Leydi – etnomusicologo
che mal sopportava una visione tutta politica di quei canti
– proprio nel '68 era stato abbandonato, per motivi esattamente
opposti, anche dal suo pupillo Della Mea. Senza scomporsi e
senza bruciare i ponti continuò a lavorare su più
fronti (la ricerca, la documentazione non solo dei fatti musicali
ma anche delle manifestazioni, delle occupazioni delle fabbriche,
delle assemblee) e cercare di sintetizzare il tutto negli spettacoli
La grande paura (sull'occupazione delle fabbriche del
biennio rosso) e Il bosco degli alberi.
Quest'ultimo molto più riuscito e complesso, è
tornato da pochi mesi disponibile in Cd, ristampato dall'etichetta
Ala Bianca. L'ascolto e la lettura del colossale libretto di
accompagnamento del vinile originale – un vero e proprio
volume, irriproducibile nel Cd e quindi ora disponibile integralmente
solo in formato elettronico – ci mette di fronte a un'opera
grandiosa: “Storia d'Italia dall'Unità a oggi attraverso
il giudizio delle classi popolari”, recita il sottotitolo;
gli approfondimenti storico-filologici sono densissimi. Nell'ultima
parte, quella delle vicende coeve alla genesi dello spettacolo,
i passaggi si fanno convulsi, le canzoni sono alternate a documenti
sonori registrati in strada, come i disordini di Reggio Emilia
del luglio del '60, le manifestazioni dell'autunno caldo del
'69, i funerali di Feltrinelli.
È la summa del lavoro di Gianni Bosio, “l'intellettuale
rovesciato” che facendo “l'elogio del magnetofono”
strappava la storia del Movimento operaio ai dirigenti e la
ricollocava nella viva voce della Classe. È la summa,
purtroppo, del pensiero di un uomo straordinario che a soli
47 anni, nell'estate del 1971, morì tragicamente vittima
di una fulminante peritonite e della malasanità.
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Gianni Bosio a Barchi di Asola (Mn)
foto di Giuseppe Morandi |
Ricordi del bosco
Ezio Cuppone e Cristina Rapisarda erano nel cast di quello
spettacolo.
Ezio – Il ricordo bellissimo di questo lavoro è
anche un po' malinconico, perché è l'ultimo spettacolo
pensato da Gianni Bosio, il disco è del '72, dunque posteriore
alla sua morte.
Cristina – È inevitabile considerarlo un
po' la summa del suo lavoro. Io ero arrivata a questo repertorio
per militanza, anzi è la parte del mio impegno che ricordo
come più intelligente e divertente, nel senso che era
molto meglio che non stare nelle file del Movimento Studentesco
a urlare cose magari giuste, ma con delle modalità dalle
quali ho preso nettamente le distanze. Per me è stato
formativo entrare in contatto con intellettuali della levatura
di Bosio, Pirelli, Pestalozza, Bermani... avevo cominciato a
cantare e suonare la chitarra nei gabinetti del liceo Berchet
di Milano, con una compagna di scuola con cui abbiamo fatto
spettacoli liceali, il cui titolo era tutto un programma: “Nixon
matto e sesta flotta contro di voi andiamo in lotta”.
Io provenivo da una famiglia democratica e laica, mia madre
era figlia di un tipografo anarchico, nonno Giulio, che è
morto a quasi cent'anni vivendo solo, fumando il sigaro e mangiando
la casseula: un personaggio fantastico di cui ero fierissima,
che aveva visto i moti del '98 repressi da Bava Beccaris.
Ezio – Io invece ero il tipico figlio di emigranti,
di origine proletaria. Coi primi movimenti del '68 avevo preso
contatto con la libreria di Sesto San Giovanni, la cui libraia
Carmen Pelucchi amava molto cantare e aveva tutti i Dischi del
sole, io sapevo suonare la chitarra ma fino ad allora cantavo
canzonette e facevo un po' di liscio nelle balere. Fu Carmen
a chiedermi di accompagnarla alle Feste dell'Unità: quelle
più periferiche, situazioni abbastanza squallide a dire
il vero, perché alla gente non gliene fregava niente.
Non so nemmeno come arrivai in via Sansovino all'Istituto de
Martino, ma ricordo bene dell'impressione enorme che mi fece
Gianni Bosio: vide che conoscevo quei canti e che ero in grado
di suonarli e persino di trascriverli, mi propose di entrare
a far parte dello spettacolo, disse: “Vogliamo abbracciare
tutta la storia d'Italia, abbiamo trovato materiale nuovo, t'interessa
farne parte?”, “Beh, fammi sentire...”, e
allora ha messo su questi nastri inascoltabili, con le voci
dei vecchi registrate sul campo. All'inizio è stato durissimo,
perché non mi ci raccapezzavo proprio, è stato
Franco Coggiola piano piano ad aiutarmi a decifrarli. Ho cominciato
dunque a trascrivere chiedendomi continuamente se avessi capito
dove paravano le melodie, anche se poi la vera forma i canti
l'hanno presa lavorando tutti insieme, per un anno intero abbiamo
fatto 3 giorni di prove alla settimana, è stato molto
duro ma importante. Bosio era una sorta di pedagogo, alla domenica
pomeriggio riuniva tutti quelli interessati e ci faceva –
a partire dalle canzoni – delle lezioni di Storia del
Movimento operaio, e io che ero ignorantissimo scoprivo un sacco
di cose, pendevo dalle sue labbra.
Cristina – Era un personaggio molto carismatico
che a me sembrava vecchissimo, in realtà aveva poco più
di 45 anni. Bosio non faceva quelle lezioni per esibizionismo,
non era proprio il tipo, ma perché noi dovevamo sapere
cosa c'era dietro quelle canzoni, altrimenti non le avremmo
cantate nel giusto modo, dovevamo diventare consapevoli delle
ragioni storiche per cui ci chiedevano certi parametri nell'interpretare.
È stata una lezione di grandissimo rigore, ma anche un
po' limitante, perché mi ritrovavo impiccata a tonalità
impervie per scimmiottare le mondine, e poi facevamo solo canti
tristissimi, a me mancava un po' di immedesimazione: tanto rigore,
ma mi è mancato un po' il gusto, il piacere di cantare.
Ezio – Ricordo un aneddoto: Bosio in quel periodo
era in rotta con Ivan Della Mea, che per me era già una
specie di mito, e una volta che Ivan capitò all'Istituto,
Bosio – secondo me un po' provocatoriamente – gli
propose di unirsi a noi, entrare nel cast del Bosco degli
alberi, ma noi eravamo dei perfetti sconosciuti mentre lui
era il poeta del Movimento: mi fece un po' l'impressione di
un cane bastonato. Dopo la morte di Bosio ci seguiva in tutto
Coggiola, col quale c'era un po' più di confidenza.
Cristina – Ho sentito l'esperienza fantastica dello
stare insieme, dell'imparare insieme, il mio ricordo più
affettuoso è legato a quella persona deliziosa che era
Coggiola, dolce di natura ma anche lui controllatissimo, la
mia impressione è che fossimo in presenza di esseri anche
molto umani, ma nel quadro di una cultura rigidissima che era
la cultura comunista dell'epoca.
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La copertina del disco originale Nel bosco degli alberi |
Le due epoche del folk
Cristina – Il disco rispecchia totalmente quello che era lo spettacolo, la successione della canzoni era strettamente cronologica, la scelta era stata fatta da Bosio, per la regia intervenne Nuccio Ambrosino, che per la verità non aveva molto da fare: creare una scenografia semplice, un grande telone bianco sul quale venivano proiettate le diapositive, noi entravamo e uscivamo di scena senza nessuna preparazione o movimento. La prima fu al Regio di Parma, ci arrivammo senza fare una prova generale completa, comunque il teatro era così bello e aveva un suono così eccellente che il ricordo è incantato.
Ezio – Debuttammo lì, poi andammo un po' ovunque, a Napoli per esempio eravamo in un teatrino off che si chiamava Spazio Zero, fra il primo e il secondo tempo salirono quelli della Nuova Compagnia di Canto Popolare, al loro debutto, e avrebbero suonato lì all'indomani, dunque facevano pubblicità al loro stesso spettacolo. Beh, erano così bravi che io non avevo più il coraggio di salire per fare il secondo tempo!
Cristina – Lo spettacolo era lunghissimo, ogni tanto mi annoiavo persino io che lo facevo. Certo l'idea di fare la Storia con le canzoni era una novità assoluta e ci premiava l'importanza politica: eravamo un po' più divertenti di una lezione o di un comizio. In seguito facemmo degli spettacoli con un repertorio un po' più libero, e lì ci mettevamo un po' più di ritmo.
Ezio – Dopo la morte di Bosio assistemmo pian piano alla fine dell'Istituto inteso come ricerca sul campo, Ivan ebbe il ruolo di traghettare il tutto verso la nuova canzone. Quindi noi eravamo un po' la zavorra lasciata dall'ultima fase con Bosio.
Cristina – Percepivamo che succedeva qualcosa di nuovo, a me aveva molto colpito il Canzoniere del Lazio per le capacità musicali superiori alle nostre, che al confronto eravamo dei dilettanti, e poi Gianni Nebbiosi, musicista eccezionale e bellissimo ragazzo, ricordo Piero Brega, le critiche che gli fecero per l'uso disinibito di strumenti popolari mischiati a quelli elettrici: a me quelle critiche sembravano cose da pazzi, erano eccezionali. Ho l'impressione che noi – senza nemmeno troppo saperlo – ci siamo trovati ad assistere a un passaggio fra due epoche del folk.
Alessio Lega
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