Rivista Anarchica Online





Filantropia telescopica

Ci sono cose che non impariamo.
Nel luglio del 1999, Yaguine Koïta e Fodé Tounkara, due ragazzi della Guinea francese, tentano la fuga da un paese nel quale è impossibile vivere. Spiccano il volo per la civilissima Europa infilandosi nel carrello di un aereo in partenza per Bruxelles. Non sanno, non capiscono i rischi, e in ogni caso quella opportunità deve sembrar loro preferibile alla prospettiva quasi certa di morire nel loro paese. Non hanno valigie, e dunque hanno già rinunciato al mondo che stanno lasciando. Non portano nulla con sé, a parte alcuni documenti e una lettera con la quale chiedono ospitalità a un continente intero, che ritengono accogliente. Yaguine e Fodè muoiono in quel carrello. I loro corpi vengono ritrovati, con grottesco ritardo, dopo che il vettore ha fatto più volte la spola tra Conakry e Bruxelles. La lettera che portavano addosso fa il giro del mondo, sollecita riflessioni critiche e spettacolari esperimenti creativi. Simon Gikandi basa su questa vicenda una riflessione molto acuta sulle questioni postcoloniali: coltivare il sogno di un'Europa che non c'è è una pulsione che nasce dal cuore stesso del colonialismo. Risulta dal marketing elaborato di un sogno, prodotto da testi di ogni tipo, pensati per costruire un immaginario dell'occidente.
Si trattava (e si tratta) di una mistificazione creativa, sedimentata nel tempo, che protegge e mantiene la convinzione che noi – gli occidentali – siamo migliori. Semanticamente vuota, questa fantasia di civiltà si rivela singolarmente persistente, a dispetto dei fatti e in ragione della disperazione senza fondo che contraddistingue la vita di molti migranti. Alcuni testi meglio di altri raccontano questa triste vicenda. C'è un corto di Andrea Caccia, L'estate vola (2000), che non riesco a togliermi dalla testa. Ci torno sempre, e ci sono tornata ora in circostanze simili a quelle dell'inizio di questo secolo, per cercare di capire come una storia lontana da quella di Yaguine e Fodé riesca a raccontare così bene la delusione profonda, l'impotenza e alla fine la morte di uno straniero che arriva in un mondo inospitale, aspettandosi invece che quel mondo lo sia.
Oggi la storia del piccolo migrante trovato senza vita nel carrello di un altro aereo, all'aeroporto Charles De Gaulle, riferisce della stessa condizione di Yaguine e Fodé, e della medesima (nostra) incapacità di render conto di una colossale sottovalutazione, della nostra arrogante insipienza nel considerare il fatto conclamato delle migrazioni forzate. Non vogliamo vedere quello che abbiamo sotto gli occhi. Piangiamo questi morti quando sono morti senza esser capaci di pensare anche solo un progetto di risoluzione di questa carneficina. Siamo, nella migliore delle ipotesi, animati da buone intenzioni, che tengono finché occupano la dimensione astratta dell'ideologia o della religione.
Siamo un paese essenzialmente cattolico, per formazione e per storia. Le persone della generazione di mio padre, o almeno molte di esse, fanno donazioni a una gran quantità di associazioni che si occupano dei “bambini poveri dell'Africa”. Li immaginiamo macchiettisticamente (e offensivamente) bisognosi della nostra carità, ma a casa loro, dove devono restare invece di salire a tradimento nel carrello di un aereo. Questo atteggiamento ha un nome che già Dickens conosceva: filantropia telescopica. Siamo pronti a condividere e a empatizzare con la povertà lontana, non guardiamo quella che ci circonda. Abbiamo figli che nella migliore delle ipotesi scelgono di scendere in piazza per sollevare questo genere di problemi, e ci spaventiamo quando il loro scendere in piazza provoca conseguenze, rischi, indagini. Però mandiamo soldi, che peraltro nella maggior parte dei casi non arrivano da nessuna parte. E comunque, “questa gente” non la vogliamo in casa.
Filantropia telescopica, appunto. E smemoratezza storica. Le due cose, messe assieme, non fanno un essere umano. Al meglio, un animaletto, senza una morale, ma solo con un comportamento.

Nicoletta Vallorani