Tolstòj e l'anarchismo/
Un terreno comune
Lev Nikolàevi Tolstòj è stato uno straordinario
scrittore di romanzi e racconti. Ma è stato anche un
formidabile polemista e un saggista infaticabile. Due terzi
dei novanta volumi dell'edizione russa delle sue opere sono
infatti occupati da scritti non letterari. Si tratta in gran
parte di diari e di saggi di carattere filosofico e religioso,
che documentano la sua instancabile e tormentata ricerca intorno
al senso e alla direzione da imprimere alla propria vita.
Vi
sono però anche numerose lettere aperte, articoli e pamphlet
di natura “militante”, nei quali egli affronta quelli
che considera i problemi fondamentali del proprio tempo: il
militarismo, il nazionalismo, il colonialismo, le disuguaglianze
sociali, la perdita di una relazione profonda e simpatetica
con l'ambiente naturale e gli animali non umani, l'educazione
popolare, la pena di morte e la tortura.
Nel mare magnum degli scritti tolstojani, Francesco Codello
ha pescato alcune perle preziose e le ha raccolte in questa
piccola antologia (Lev Tolstòj, Il rifiuto di obbedire,
Elèuthera, Milano 2019, pp. 192, € 16,00), con l'intento
di sprigionare e rimettere in circolazione la loro dirompente
carica libertaria.
Tolstòj ha sempre rifiutato di essere definito “anarchico”.
Preferiva infatti essere considerato, semplicemente, “un
cristiano”. Ciononostante, il terreno comune tra Tolstòj
e l'anarchismo “classico” è davvero molto
vasto. Egli critica lo Stato e la proprietà privata.
Smaschera il ruolo ideologico e repressivo delle istituzioni
scolastiche e religiose. Rifiuta la retorica della patria e
il nazionalismo. Contesta il socialismo di stato e ogni concezione
“sviluppista” e produttivista dell'economia. Si
oppone alla concezione antropocentrica della natura e allo sfruttamento
degli animali non umani. Per questo, molti pensatori e militanti
anarchici – da Kropotkin a Landauer – hanno riconosciuto
in Tolstòj un maestro e un compagno. Altri, come Malatesta,
pur apprezzandone il messaggio antistatalista e antimilitarista,
hanno invece ritenuto che il cristianesimo di Tolstòj
e la sua teoria della “non resistenza al male” fossero
di ostacolo al processo di trasformazione rivoluzionaria della
società.
L'anarchismo cristiano – o come sarebbe più corretto
dire, il cristianesimo anarchico – di Tolstòj
è in effetti integralmente religioso, e dunque radicalmente
“impolitico”, nel senso di estraneo e avverso alla
politica. Tolstòj fa appello alla coscienza del singolo
individuo, a cui chiede di accogliere la legge dell'amore universale
che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo, e di rifiutare la propria
obbedienza alle autorità e alle leggi terrene, che sono
di inciampo nell'adempimento della volontà divina, e
quindi vanno distrutte e spazzate via. Questa ispirazione religiosa
è, al contempo, la forza e il limite del pensiero di
Tolstòj. La sua forza, perché è grazie
ad essa che nella sua critica al potere – a tutti i poteri
– ritroviamo una radicalità, un furore e un'urgenza
che ricordano quelli degli antichi profeti d'Israele. Il suo
limite, perché – come è caratteristico del
pensiero religioso – Tolstòj sembra riporre la
propria speranza di trasformazione della società nella
sommatoria delle “conversioni” individuali. Sottovaluta
invece l'importanza di costruire un progetto collettivo di emancipazione,
e quindi la necessità di ricercare e sperimentare –
con la fatica e la pazienza che questo richiede – un metodo
di azione politica e sociale alternativo sia al parlamentarismo
(che Tolstòj rifiuta in quanto “dittatura mascherata”)
che alla violenza rivoluzionaria (che egli condanna in quanto
contraria al “Vangelo dell'amore”).
È questa la differenza tra la non resistenza al male
di Tolstòj e la nonviolenza attiva di Gandhi,
Capitini e Luther King. Tolstoj ha predicato e dato l'esempio,
vivendo in coerenza con i propri ideali. Gandhi, Capitini e
Luther King hanno cercato senza sosta gli strumenti e le tecniche
per far diventare la nonviolenza una strategia di conduzione
dei conflitti non solo eticamente coerente con il fine della
costruzione di una società di liberi e eguali ma anche
politicamente e socialmente efficace.
Per essere nonviolenti (o almeno tentare di esserlo) non basta
astenersi dalla violenza. Occorre unirsi agli altri per combattere
attivamente la violenza in tutte le sue forme.
Ivan Bettini
Viaggiando con Corto Maltese/
Né Itaca, né Penelope
«È la nostra utopia. Quella delle cose che non
finiscono mai, dei sogni che si ostinano a ritornare, dei fantasmi
che non si disperdono, dei ricordi che non si cancellano, delle
immagini che si rincorrono, dei brividi che non si dimenticano.
È l'utopia degli ideali che non si piegano agli avvenimenti.
Che non si consumano col tempo. Che trovano sempre qualcuno
convinto a farli propri». Parole di Destinazione utopia,
(Elèuthera, 1988) racconto del viaggio verso l'orizzonte
di un impossibile possibile di tre grandi ribelli del fumetto,
Corto Maltese, Mister No e Ken Parker, scritto da tre grandi
fumettari, Luigi Bernardi, Luca Boschi e Graziano Frediani.
L'utopia come legame fra futuro e passato, memoria e scelta
nel presente: il filo giusto per seguire le nuove avventure
del personaggio di Hugo Pratt che Juan Diaz Canales e Rubén
Pellejero continuano a far vivere, oggi con Il Giorno di
Tarowean (Rizzoli Lizard, Roma 2019, pp. 96, € 20,00).
Cultura
celtica letta con spirito mediterraneo e mistica ebraica, cuore
da marinaio e lo sfacciato orgoglio di chi si traccia una linea
della fortuna col rasoio, Corto Maltese vive sulla propria pelle
di eroe di carta il significato di utopia che davano i tre autori.
«Questa nave non fa scalo a Malta.»
«Lo so.»
«Dove andrai quando sbarcherai? »
«Chi lo sa? Dovunque, tranne che a Itaca», così
si parlavano Corto e la sua isola in Equatoria. Sembra
sia nato il 10 luglio 1887 ma Corto è sempre stato vago
sull'età, forse perché non invecchia mai o ha
il gusto della balla delle bettole di porto: di sicuro c'è
che dai dieci anni in poi, non è più tornato a
La Valletta. Ciò che si considera casa è in fondo
una scelta. Venezia anche se impigrisce, la Bahia di Bocca dorata,
l'appartamento di Hong Kong da cui Rasputin portò via
un Gauguin? A volte è solo un indirizzo sul passaporto,
come l'isola di Antigua. Il fatto è che per Corto non
c'è un'Itaca, forse perché non c'è una
Penelope da cui tornare.
L'orizzonte della sua vita è il mare e i porti non sono
che tappe di una sconfinata caccia al tesoro che attraversa
la Storia, con l'amico-nemico Rasputin o con un avventuriero
come Levi Colombia. La barra gliela dà l'etica dei gentiluomini
di fortuna, goffamente spacciata per cinismo: lui, che ha un
mazzo con cinque assi, se prende a pugni uno schiavista, si
affretta a precisare che si tratta di un baro.
Fare le cose solo perché è proprio piacere farle,
avrebbe chiosato il guerrigliero dancalo Cush. Testimone di
guerre e rivoluzioni, il Maltese sceglie una parte da solo,
mai in nome di una fede: può nascondere un disertore
russo come Rasputin, sostenere la guerra di corsa tedesca col
Monaco e pochi anni dopo aiutare gli alleati smascherando spie
imperiali. È nella pratica che i suoi doveri di eroe
dei fumetti vengono rispettati, rispondendo ad un personale
senso della giustizia o dell'amicizia: caccia assieme agli uomini
leopardo per vendicare un ufficiale tedesco tradito da un camerata
e libera un giovane principino arabo solo perché c'è
in gioco la pelle di amici come Cush ed El Oxford.
Dalle sue azioni prendono però corpo le scelte di altri
personaggi che si confrontano con la Storia: Corto, che dovrebbe
limitarsi a consegnare ai cagançeiros le armi di Bocca
dorata, indica a Tiro fisso e poi al giovane Corisco come raccogliere
l'eredità del Comandante Redentore perché la lotta
contro il Colonello, simbolo dello sfruttamento, è eterna.
Corto apre la strada alle rivoluzioni, magari condividendo con
il piccolo Partito repubblicano del Montenegro l'oro del vecchio
re che transfughi di tutte le patrie hanno portato via dal fronte
della Grande guerra. La sua etica gli permette anche di riconoscere
l'onore delle armi a certi nemici: Enver Bey morto all'assalto
solitario di un battaglione di armeni affamati di vendetta e
il Barone Ungern von Stanberg, salutato senza disprezzo mentre
guida la sua cavalleria asiatica alla guerra santa.
Non a caso, perdiamo le tracce del marinaio quando volge al
tramonto l'epoca dei gentiluomini di fortuna e inizia il Novecento
della guerra totale, del grande capitale e dei totalitarismi.
Ad Escondida ha lasciato che i papua e i kanakas riconsiderassero
la fedeltà data al Monaco, partendo quando si profilava
la nuova dominazione britannica e quindi dei potenti armatori
Groovesnore. Ha vendicato i militanti dello Sinn Feinn, lasciando
l'amata Banshee a scoprire la guerra civile che sarebbe scoppiata
nel 1921 e ha detto addio ad un altro dei suoi amori impossibili,
Shangai Lil, quando la rivoluzione bolscevica era un sogno di
emancipazione proletaria e non terrore.
Partenze che hanno un sapore amaro e anche Corto, personaggio
concreto e umano, soffre. Nel 1923 torna in Argentina, quasi
vent'anni dopo le scorribande in Patagonia con la banda di Butch
Cassidy e Sundance Kid, per ritrovare quella Louise Brooksowic
che lo aveva nascosto a Venezia. Un'avventura in cui ponte fra
passato e presente è il dolore. La delusione per gli
amici che lo ritengono causa della catena di omicidi innestatasi
a Buenos Aires o che invece sono realmente coinvolti, proprio
come Butch, perché hanno scambiato la sicurezza personale
con il tradimento degli ideali di libertà di un tempo.
Perché cercare Louise, allora? Un'altra Penelope è
morta, lasciando una bambina che si sospetta possa essere del
marinaio.
Corto ha poi cercato una fuga viaggiando fra il continente leggendario
di Mu e la Svizzera e forse ha anche trovato il segreto dell'eterna
giovinezza. Sarebbe però una condanna dover continuare
a sentire il fardello della tristezza provata di fronte alla
tomba di Louise in Argentina: magari è proprio per questo
che ha sognato un'ultima avventura nella Spagna rivoluzionaria,
prima di ritrovarsi vecchio e stanco, come il Long John Silver
di Bjorn Larsson, proprio nella casa di quella Pandora Groovesnore
che fu una prima sognata Penelope.
Se questa storia malinconica non dovesse piacergli più,
Corto potrebbe fare come i veneziani stanchi delle autorità
costituite e recarsi, la notte fra il 24 e il 25 aprile, alla
Calle dell'Amor degli amici o al Ponte delle maravegie o in
Calle dei marrani ed entrare in nuove storie.
Le sue però finirebbero o inizierebbero sempre allo stesso
modo. Alla vigilia di Ognissanti, o meglio di Tarowean, del
1913, legato ad una zattera costruita da marinai dell'isola
di Sant'Eugenio che pretendono di vendicarsi di un mancato matrimonio.
E se il pericolo della morte non fosse sufficiente, magari essere
salvato da un siberiano, figlio di una sarta o di una ballerina
del Bolshoi, cresciuto sparando ai cani, che non desidera altro
che un amico ma che non ha problemi a sbatterlo nelle caldaie
della nave.
Jacopo Frey
L'importanza dell'obiezione/
Contro tutti i fondamentalismi
Tre storie che si incrociano e si confrontano, tre persone
con formazione, percorsi e appartenenze differenti che entrano
in dialogo e si confrontano su temi, parole, dimensioni con
le quali tutti noi abbiamo a che fare, nel nostro camminare
la vita.
Così
è costruito questo libro, Una vocazione controcorrente.
Dialogo sulla spiritualità e sulla dignità degli
ultimi (Il Saggiatore, Milano 2019, pp. 172, € 18,00)
dove don Virginio Colmegna, prete della Casa della Carità
di Milano, prende spunto dalla ricorrenza dei suoi 50 anni di
sacerdozio non per commemorare se stesso ma per rimettersi in
dialogo e in discussione. Sceglie come compagni di viaggio,
in questo impasto di vita e pensieri, Enrico Finzi, “ebreo,
non credente e di estrema sinistra”, come lui stesso si
definisce, e suor Chiara Francesca Lacchini, da trent'anni monaca
clarissa cappuccina.
A dire la verità, quando ho letto il titolo e la quarta
di copertina ho subito storto un po' il naso. La parola “vocazione”
mi ha sempre un po' disturbato; parola utilizzata e abusata
dal mondo religioso ed ecclesiastico per indicare la “specialità”
di vita dei suoi “funzionari”, dei suoi “prescelti”
che, con questa chiamata divina, si assurgono a funzionari sacri
della Verità.
Superato, non senza difficoltà, questo primo disagio,
anche grazie alle parole più allettanti che accompagnano
il titolo (controcorrente, dialogo, spiritualità, dignità)
ho cominciato ad addentrarmi nel testo, e più andavo
avanti nella lettura, più mi accorgevo che il disagio
si scioglieva, facendo spazio invece alla “semplice”
preziosità di questo scambio e dialogo serrato e intenso
fra queste tre voci.
Con le loro diversità, le loro passioni e i loro diversi
sguardi, trattavano i vari temi affrontati arricchendoli e impreziosendoli,
facendo emergere, non tanto la verità di ognuno ma semmai
l'urgenza di andare “controcorrente” e vivere da
“obiettori”. Emerge la ricerca e la costruzione
di un terreno comune di non rassegnazione e di umanità,
nel quale intrecciare, nella convivialità, le diversità
e la “bellezza” di vita, di parole, di pensieri
e di lotta di ognuno.
Don Virginio Colmegna scrive nell'introduzione: “Ecco
perché questo libro è diventato via via il memoriale
di una scelta, quella di vivere da “obiettori” in
un paese e in un mondo attraversati da una crisi che rischia
di far vincere sentimenti di indifferenza e di rancore, di sdoganare
intolleranze, xenofobia e razzismo (...) con questo nostro dialogo
vorrei che si aprissero brecce per non omologarci alla rassegnazione.”
Credo che il confronto e lo scambio fra queste tre persone diverse,
ma accomunate dalla passione permanente per la vita, abbiano
raggiunto questo scopo e questo obiettivo.
In questi tempi di chiusura, di ottusità, di fascismi
striscianti e patenti, di linguaggio becero e di istigazione
alla paura non penso proprio sia cosa di poco conto.
L'invito forte che ci viene dalla lettura di questo dialogo
è la necessità di costruire, o ricostruire, le
nostre città e le nostre esperienze collettive come “comunità
del dubbio” (come veniva chiamata la cattedra dei non
credenti pensata e voluta dal card. Martini a Milano); dove
il dubbio e quindi, in altre parole, la ricerca, la domanda,
il confronto, lo scambio, la passione possano tornare ad abitare
il nostro vivere civile, politico, sociale, religioso e possano
diventare l'elemento intorno al quale gli uomini e le donne,
i viventi tutti si re-incontrino e tornino a restituirsi dignità
e spinte di liberazione.
Comunità umane di resistenza e ri-esistenza dove davvero
la parola e il pensiero, la storia di ognuno conti e valga,
si impreziosisca nell'incrocio e nell'incontro con quella dell'altro.
Dove nessuno possieda la verità, né il corpo,
né la parola, né la terra. Dove la relazione fondi
le nostre plurime identità, dove il credente e il non
credente che è in noi convivano, si parlino e dialoghino.
Questo intreccio di parole e di pensieri che si snodano nel
libro ci parlano di questo, ci invitano e ci spingono a riconoscere
il dovere fondamentale di ognuno di noi a porci in ascolto della
realtà e della storia, a leggere dentro gli avvenimenti
per scorgervi una sapienza più grande. Questo è
il più grande antidoto e la più profonda obiezione
di coscienza culturale e concreta ai tanti fondamentalismi che
abitano le nostre relazioni e nostre comunità: fondamentalismi
religiosi e identitari, di appartenenza politica e sociale,
fondamentalismi relazionali, dove l'unica cosa che conta è
difendere il proprio lavoro, i propri confini, il proprio bene.
Alex Santoro prete
Potere, stato e diritto/
Alcuni saggi sul pensiero anarchico
Nell'ultimo
scorcio del 2019 sono apparse due interessanti raccolte di saggi
sul pensiero anarchico, che presentano al pubblico interventi
proposti in alcuni convegni organizzati negli scorsi anni presso
istituzioni accademiche italiane.
Il primo volume, intitolato Diritto e potere nel pensiero
anarchico e curato da Paola Chiarella (2019, pp. 238, €
27,00), è apparso nella collana del Dipartimento di Giurisprudenza,
Economia e Sociologia dell'Università di Catanzaro edito
dalla Cedam. Si presenta come una raccolta (parziale) di Atti
di Convegni sul pensiero anarchico e libertario organizzati
nell'arco di un triennio all'interno del Dottorato di ricerca
in Teoria del diritto e ordine giuridico ed economico europeo
attivo nell'ateneo calabro. Il volume contiene saggi di Pietro
Adamo su William Godwin, Daniela Andreatta su Pierre-Joseph
Proudhon, Alberto Scerbo su Carlo Pisacane, Massimo La Torre
su Michail Bakunin, Marco Cossutta su Errico Malatesta, ai quali
si aggiungono, oltre alle riflessioni di Luciano Nicolini sul
pensiero antropologico di Pierre Clastres, quelle di Saul Newman
intorno ad anarchismo e legge e di Ruth Kinna su Paul Goodman
(quest'ultime in lingua inglese).
La raccolta offre al lettore una buona panoramica sul pensiero
anarchico classico (anche in assenza delle riflessioni su Kropotkin
proposte in quelle occasioni da Giampietro Berti), corredata
da un appartato di note che dà conto della più
recente letteratura italiana e straniera in materia, nonché
delle principali questioni politico-giuridiche affrontate dall'anarchismo
nel suo sviluppo storico.
Purtroppo, come già osservato, la curatrice non ha potuto
raccogliere nel volume tutti i contributi presentati durante
i seminari catanzaresi (fra i quali si segnalano gli interventi
di Ferruccio Andolfi, Adriano Ballarini, Enrico Ferri, Salvo
Vaccaro); alcuni di questi sono reperibili sulle colonne della
rivista elettronica “Tigor. Rivista di scienze della comunicazione
e argomentazione giuridica” pubblicata dalle Edizioni
dell'Università di Trieste e consultabile sul sito www.openstarts.units.it
Proprio la rivista in questione pubblica sul suo secondo fascicolo
del 2019 gli Atti del Convengo di Studi su “Stato e Anarchia”
organizzato nel maggio dello scorso anno dall'Associazione Philosophicum
Ghisleri a Pavia. Del Convegno pavese vengono proposte le relazioni
di Marina Lalatta Costerbosa, Sull'anarchismo come teoria
critica, di Giorgio Sacchetti, L'immaginario anarchico
in età contemporanea, di Laura Anita Zavatta, Lo
Stato di diritto e la morte dello Stato in Nietzsche e di
Marco Cossutta, Anarchismo versus liberalismo. Note
su alcune pagine di Michail Bakunin, integrate da una nota
introduttiva di Lisa Bin. Le relazioni di Pietro Adamo su Lo
Stato, lo stato moderno e l'anarchismo e di Gianfranco Ragona
su Anarchici e marxisti nella prima internazionale troveranno
ospitalità sul primo fascicolo del 2020.
Marco Cossutta
Piemonte/
Memorie antifasciste (e anarchiche)
È
uscito Aldo Garino, Perché raccontassimo. Memorie
partigiane di un antieroe (Edizioni Seb27, Torino 2019,
pp. 308, € 18,00), il testo delle memorie partigiane di
Aldo Garino, figlio del più noto Maurizio, esponente
di primo piano dei consigli operai torinesi all'epoca delle
occupazioni delle fabbriche, curato dalla figlia Laura e da
Andrea D'Arrigo, dell'Istituto per la Storia della Resistenza
e della Società Contemporanea in Piemonte.
Aldo, cresciuto in una famiglia di saldi valori antifascisti,
durante la resistenza si proclama comunista libertario, anche
se nel dopoguerra (escludendo alcune lezioni tenute alla risorta
Scuola Moderna) non frequenterà più il movimento.
È un giovane studente in medicina quando, sin dagli esordi,
decide di prendere parte alla lotta partigiana, unendosi a una
banda di Giustizia e Libertà (GL) in Val Pellice (dove
la famiglia era solita andare in villeggiatura e dove si trovava
sfollata dopo l'8 settembre). Ed è proprio il padre Maurizio
che lo accompagna in montagna condividendone in pieno la scelta.
La sua partecipazione alla resistenza nelle valli valdesi terminerà
a causa di un pesante rastrellamento che lo isolerà dai
compagni, obbligandolo a rientrare in città.
Dopo un breve periodo Aldo decide di riprendere nuovamente la
via della montagna, questa volta con i garibaldini delle Valli
di Lanzo. In quest'occasione il tramite sarà lo zio Antonio
(fratello di Maurizio, redattore e stampatore del foglio anarchico
clandestino Era Nuova, oltre che di documenti falsi)
che svolgeva opera di collegamento e reclutamento per i partigiani
della zona.
A causa di un altro pesante rastrellamento, Aldo ritorna nuovamente
a Torino, nascondendosi (era in età di leva e quindi
renitente) all'interno della Samma, la cooperativa di operai
modellisti di cui il padre era presidente e socio fondatore.
In seguito a una perquisizione all'interno dell'azienda, padre
e figlio sono tratti in arresto dai fascisti e rinchiusi alle
carceri Nuove, dove saranno liberati dopo un breve periodo di
reclusione. I dirigenti della cooperativa erano riusciti a dimostrare
che il giovane Aldo era indispensabile alla produzione (mandando
dei tecnici addirittura in carcere per sottoporgli disegni e
progetti di cui non capiva nulla).
Il libro descrive le vicende partigiane del protagonista (che
concluderà la sua partecipazione alla lotta armata, nella
SAP di Settimo Torinese fino alla liberazione) senza prosopopea
e senza retorica. Con linguaggio semplice, ma di piacevole lettura,
racconta le asprezze (il freddo, la fame, i parassiti, ecc.)
della guerra partigiana, senza protagonismo ma da antieroe,
come recita il sottotitolo, riflettendo anche sulla pietas
nei confronti del nemico vinto, su cui non si sarebbe dovuto
infierire.
È una storia che ci parla di resistenza ma anche di anarchismo,
sia per la forte tradizione familiare, sia per alcune vicende
interconnesse come, ad esempio, l'arrivo alle Nuove dove vengono
ricevuti dall'anarchico Michele Guasco, anche lui detenuto,
che immediatamente li inserisce nell'ambiente dei prigionieri
politici antifascisti.
Aldo decide di scrivere queste pagine per dar voce ai tanti
giovani partigiani morti, che non avrebbero più potuto
parlare, “morti così, innocenti, perché
noi udissimo, perché raccontassimo”.
Queste memorie costituiscono un altro piccolo tassello che aiuta
a riscoprire e a ricomporre la storia della resistenza sconosciuta,
quella degli anarchici.
Tobia Imperato
Anarchismo, popoli indigeni, decolonizzazione/
Questioni aperte
Quando ho letto per la prima volta Anarchici d'oltremare.
Anarchismo, indigenismo, decolonizzazione (Carlos Taibo,
Zero in Condotta, Milano 2019, pp. 240 € 15,00) sono rimasto
positivamente colpito. La
narrazione è coinvolgente, scorrevole, ma densa di contenuti
e di spunti di riflessione. Quando gli ho ridato un'occhiata
veloce prima di scrivere queste righe, ho iniziato a sentirmi
a disagio. E non a causa della qualità dei contenuti
del libro, ma del soggetto al quale sono diretti questi contenuti.
Sarà una ricaduta di quel narcisismo di massa in cui
siamo quotidianamente immersi, ma mi sono sentito coinvolto
nella critica presente in Anarchici d'oltremare: una
di quelle critiche pacate ma ferme, una di quelle critiche che
fanno fare quella smorfia come a dire «mi tocca ammetterlo,
un po' hai ragione». Scrivo quindi queste righe sotto
l'effetto di questa sensazione, che ora cerco di spiegare.
Anarchici d'oltremare è uno studio che si muove
tra la storia e l'antropologia (Carlos Taibo insegna scienze
politiche presso l'Università Autonoma di Madrid) e si
concentra sui rapporti tra anarchismo e pratiche libertarie
indigene tra il 1870 e il 1930. L'accezione in cui questi termini
vengono usati è fondamentale per capire la prospettiva
del libro. Per anarchismo Taibo intende quella corrente politica
contraddistinta da uno specifico corpus di idee che nasce in
Europa nell'Ottocento e che in seguito si è diffusa nel
resto del mondo, talvolta meticciandosi e dando vita a quelli
che lo studioso chiama «anarchismi ibridi». In questo
senso, Taibo contesta la tesi di Süreyya Evren, il quale
accusa di eurocentrismo chi colloca la nascita dell'idea anarchica
nel Vecchio continente, sostenendo l'esistenza di varie espressioni
anarchiche, nate in autonomia e parallelamente all'anarchismo
europeo. «Pratiche libertarie» è un'espressione
che indica quelle pratiche indigene che, pur nella loro disomogeneità,
sono (o sono state) all'insegna della libertà, dell'autogestione
e dell'autonomia. Il termine «anarchismi d'oltremare»,
infine, indica gli anarchici fuori dall'Europa, includendo anche
coloro che «attraversarono mari e oceani per portare la
buona novella anarchica in luoghi quasi sempre lontani».
Taibo individua due modelli di diffusione delle idee dell'anarchismo.
Il primo vede l'attività di propaganda di lavoratori,
perlopiù uomini provenienti dall'Europa, che diffondono
l'anarchismo negli altri continenti. Il secondo, invece, riguarda
i casi del Giappone, della Corea, della Cina, del Vietnam e
delle Filippine, dove le idee anarchiche vengono portate da
operai e studenti, solitamente maschi, che avevano per diversi
motivi vissuto per qualche tempo in Europa prima di tornare
nei rispettivi paesi d'origine. Le idee seguono dunque le rotte
dei grandi movimenti di persone che solcano il mondo tra l'Ottocento
e il Novecento. In tutto ciò, Taibo sottolinea il ruolo
fondamentale dei libri e delle riviste, degli atenei libertari,
delle biblioteche autogestite e dei teatri sociali, ruolo che
tra l'altro spiega a suo parere l'influenza delle idee stesse
dell'anarchismo su molte letterature, soprattutto dell'America
latina. Invita inoltre a studiare con maggiore attenzione i
porti come snodi di idee e di persone (ancora una volta, non
solo quelli europei come Amburgo o Marsiglia, ma anche Tokyo,
L'Avana, Shanghai, Buenos Aires e via dicendo)
In questa grande circolazione di idee e di persone, gli anarchici
si incontrarono con le popolazioni vittime del colonialismo
europeo. Veniamo così al cuore del libro. Specialmente
con studi antropologici alla mano (Clastres, Sahlins, ecc.),
Taibo mostra come i popoli indigeni abbiano messo in atto, da
ben prima dell'arrivo degli europei, pratiche libertarie. Certo,
all'autore non sfugge che frequentemente da queste «pratiche
libertarie dei popoli indigeni» erano escluse le donne,
relegate e sottomesse. A Taibo non sfugge però nemmeno
l'atteggiamento degli anarchici europei che giungevano in quelle
terre. Pur schierandosi spesso, quasi istintivamente, al fianco
dei popoli indigeni, il pensiero anarchico tra il 1870 e il
1930 non produsse un serio e approfondito discorso anticoloniale.
Pur talvolta apprezzando il carattere libertario di alcune pratiche
indigene, queste venivano ritenute il prodotto di un tempo oramai
passato.
Ciò poteva accadere, sostiene Taibo, a causa della visione
eurocentrica di cui anche gli anarchici erano permeati. In altri
termini, l'anarchismo come corrente ideale è uno dei
prodotti della modernità che, per quanto critico nei
suoi confronti, a lungo non ha potuto non muoversi nel suo perimetro
culturale. Taibo sembra contraddistinguere la modernità
per la sua capacità di imposizione di gerarchie (sociali,
di genere, economiche, politiche), per il suo senso di superiorità
sfociante nella violenza, per la sua attitudine aggressiva e
dominatrice nei confronti della natura, per la sua fiducia nella
scienza, nella tecnologia, nel progresso, per un universalismo
che estende al globo criteri in realtà forgiati nel contesto
europeo. Per come ho capito l'argomentazione di Taibo, la modernità
– cerco di spiegarmi usando una metafora – appare
quindi come un paio di occhiali: indossandoli inconsapevolmente
(e paradossalmente, poiché l'anarchismo nasce anche come
critica a tale modernità, ricordiamolo), l'anarchico
europeo non riusciva a riconoscere le pratiche libertarie dei
popoli indigeni, il loro valore per il presente.
Pertanto, Taibo afferma che è giunto il momento per l'anarchismo
di decolonizzarsi, o meglio, di proseguire quella riflessione
su se stesso che alcune sue parti stanno portando avanti da
alcuni anni, per potersi emancipare definitivamente dai detriti
eurocentrici e patriarcali che ancora albergano al suo interno.
Non solo, lo studioso auspica che l'anarchismo stesso tragga
alimento dai movimenti sociali del Sud del mondo (un capitolo
a questo proposito è dedicato al Chiapas e al Rojava),
trovi la capacità di meticciarsi per sfociare in un «anarcoindigenismo».
Decolonizzazione quindi, ma anche femminismo e critica del patriarcato,
essenziali per le pratiche indigene stesse (o almeno per alcune).
La formula finale proposta dal libro è pertanto: anarchismo
+ indigenismo + femminismo = anarc@indigenismo.
Ho trovato il libro davvero stimolante per la sua visione globale,
per la sua capacità di far dialogare storia e antropologia
e per il suo sforzo di allargare metodologicamente i confini
verso il quale il nostro sguardo si spinge. La lettura di Anarchici
d'oltremare stimola, benevolmente ma con decisione, a riconoscere
quell'eurocentrismo che si annida nel nostro sguardo, nei nostri
“occhiali” di anarchici europei che indossiamo quotidianamente,
quando agiamo nel reale e quando facciamo ricerca. Non sono
d'accordo proprio su tutto-tutto di quanto sostenuto da Anarchici
d'oltremare. Alcune tesi di Taibo, a mio parere, non sono
sufficientemente argomentate, ma il nocciolo del messaggio di
questo volume mi sembra importante e meritevole di un dibattito
e di una riflessione ben più ampia, preparata e approfondita
di quanto possono offrire queste righe.
Quella di Taibo alla tradizione del pensiero anarchico rimane
comunque una critica sempre ponderata, cauta, che non disconosce
il valore di quella tradizione, che non aspira mai alla tabula
rasa. Si legge infatti nelle ultime pagine di Anarchici
d'oltremare: «l'esistenza di una comunità di
idee, di sentimenti e di pratiche non ci obbliga a concludere
che tutto ciò che viene dal Nord – mi si conceda
l'utilizzo di questa metafora – è perverso e tutto
ciò che arriva dal Sud è, al contrario, salutare.
Una simile assunzione non può essere accompagnata, tuttavia,
da una dimenticanza: dato che l'aggressione arrivò dal
Nord, è necessario che quello stesso Nord si faccia carico
dei suoi debiti e abbandoni le sue brame di superiorità».
David Bernardini
Beatles/
Sfumature d'ingegneria sociale
«Cosa invece spingeva a quelle scene di follia e pianti
a dirotto e svenimenti, tipiche della Beatlemania, per i tecnici
cerebrali? È il sistema nervoso involontario, quello
del gran simpatico e del parasimpatico, azionati dall'ipotalamo.
Il primo è per l'azione, per il movimento, una sorta
di upper per il corpo umano. E il secondo è un
downer, rilassa. E così le ragazze, rilassate
dal poter vedere i loro beniamini, rilasciavano lacrime, grazie
all'acetilcolina, un neurotrasmettitore che attiva i ricettori
parasimpatici del cervello. Ad altre ragazze, quelle più
sensibili, l'attivazione del sistema parasimpatico comportava
cambiamenti più profondi, con un abbassamento subitaneo
della pressione causato dalla distensione dei vasi sanguigni
e dal rallentamento del battito cardiaco, e da questi arrivavano
gli svenimenti di massa.»
L'ennesimo
libro sui Beatles? Non proprio. Come dichiarato dal sottotitolo,
il volume di Luca Majer (Beatlemania! 1029 giorni di controllata
follia, Turtle Edizioni, Farneta – Ar 2020, pp. 125,
€ 12,00) non si occupa della storia del più famoso
gruppo musicale di tutti i tempi, ma dell'apparente “follia”
che per tre anni – dal 1963 al 1966 – la band suscitò
prima nel Regno Unito e poi in gran parte dell'occidente industrializzato,
con effetti subordinati un po' in tutto il pianeta. E lo fa
da una prospettiva a dir poco insolita, ovvero con lo sguardo
di chi ritiene quel colossale fenomeno sociale come rispondente
a un passaggio storico con pochissimi margini di spontaneità,
in totale controtendenza con l'idea dominante di un forsennato
fanatismo generazionale dovuto a un misto di caso, genialità
e interessi commerciali.
L'autore, va precisato, non è tra quanti considerano
la discografia dei quattro un caposaldo della cultura del ‘900,
e a volte si mostra sin troppo critico nei confronti dei ragazzi
di Liverpool, non riconoscendo l'enorme potere evocativo che
quelle canzoni conservano a oltre mezzo secolo di distanza e
addirittura qualificandoli (p. 62) come “piccolo-borghesi”,
epiteto marxista-leninista che sta veramente stretto alle piuttosto
umili origini dei giovinotti. Ma non si confonda Majer con la
vulgata tardo-stalinista: anche se la breve e criptica nota
biografica riportata in quarta di copertina non consente di
individuare le coordinate culturali sulle quali si muove il
saggista, le variegate citazioni (da Bertrand Russell a Joe
Bageant, con un occhio di riguardo per Jacques Ellul, quello
di Propaganda e di Anarchia e cristianesimo) e
le scarne e contraddittorie notizie presenti in rete indicano
una disposizione da analista delle strutture di potere (tecnico
ed economico, innanzitutto) di uno che qualcosa pare saperne.
Per una scelta di cui non è chiarissimo il motivo, le
tesi fondamentali che andrebbero a spiegare il Fenomeno giovanile
per eccellenza si scoprono solo gradualmente nel corso del libro
e vengono espresse chiaramente quasi in fondo (p. 92) quando
viene finalmente spiegato che quella proposta è «un'analisi
che [...] mi fa concludere che molto probabilmente la Beatlemania
fu un'operazione con imponenti sfumature d'ingegneria sociale».
La strutturazione di tale analisi si dipana nel corso dello
scritto – attraverso un'eclettica scrittura della quale
si è riportato esempio in apertura – tra eventi
storici apparentemente poco collegati tra loro e che invece,
a uno sguardo ravvicinato, dimostrano inquietanti punti di connessione.
Lo sviluppo della Tecnica durante e dopo la Seconda guerra mondiale,
il subentrare della superpotenza Usa nel controllo della società
occidentale, i programmi di sviluppo di un «progressivo,
raffinato lavoro della psicologia applicata al business –
la più devastante invenzione di tutto il XX secolo»,
l'opera di smantellamento delle strutture sociali tradizionali
e della figura dell'adulto come guida della famiglia, il lancio
dell'iconografia della star giovanile di cui Elvis Presley fu
ineludibile atto fondativo ma della quale i Beatles costituirono
(attraverso l'abbandono dell'estetica machista sostituita da
una accattivante femminilizzazione) la compiuta espressione,
sono solo una parte del rutilante racconto di Majer.
Ci si ritrova a vorticare tra scandali farciti di ministri clienti
di prostitute minorenni, servizi segreti internazionali, omicidi
e suicidi più o meno sospetti, il tutto pilotato per
favorire l'ascesa di un governo laburista più adatto
all'incalzante ristrutturazione dell'assetto del Dominio internazionale.
A parte qualche eccessiva ma veniale insistenza sulle questioni
economiche, l'autore centra una serie di punti cruciali –
la fondazione dell'appendice della Cia denominata Propaganda
Assets Inventory nel 1947 e la sua influenza nello sviluppo
di nuove forme artistiche, l'elaborazione delle tecniche di
controllo della psicologia di massa delle quali l'apparato comunicativo
costituiva un settore essenziale, la formulazione delle strategie
di Mindwars e delle PsyOps e così via –
in un caleidoscopio di presenze degli apparati informativi in
eventi opachi e segreti di stato ancora in vigore a più
di cinquanta anni dallo “Scandalo Profumo”, a dimostrare
quanto sia ingenua l'immagine di un Sistema anglo-americano
sostanzialmente diverso da quello del Belpaese.
Un agile testo da affrontare senza fretta di arrivare alla fine,
in quanto pieno di roba della quale, vi garantisco, non avevate
idea alcuna.
Giuseppe Aiello
Rotta alpina/
A piedi (quasi) nudi nella neve
Lasciate ogni speranza, o voi che vi accingete a leggere l'ultimo
romanzo-inchiesta di Maurizio Pagliassotti, uscito da pochi
mesi per i tipi di Bollati Boringhieri e già arrivato
alla terza ristampa (Ancora dodici chilometri, Bollati
Boringhieri editore, Torino 2019, pp. 218, € 16,00).
Fatica
letteraria ma anche fisica, dato che l'autore lo ha scritto
passando giorni e notti sul campo; e quando il campo è
la “rotta alpina”, si capisce facilmente che la
fatica non dev'essere stata poca. Perché in quei dodici
chilometri si concentrano il meglio e il peggio del nostro quotidiano:
i decreti sicurezza e i NoTav, la solidarietà e la miseria
del pensiero, i novelli sottotenenti Drogo e i camionisti dell'Est,
la pasta al sugo e le dita congelate, l'ipotermia e il calore
umano, buoni e buonisti e cattivi e cattivisti.
Tutti insieme dentro una tragedia contemporanea e globale, che
nel Belpaese ha assunto proporzioni da catastrofe epocale (sui
media e nelle chiacchiere da bar, più che nei numeri.
Ma tant'è).
Andiamo con ordine. I migranti sono ormai da molti anni il tema
dominante della politica nostrana, con tutto ciò che
– nel bene e soprattutto nel male – ne consegue.
Tra un incendio in Australia, l'epidemia globale di turno, una
minaccia di terza guerra mondiale, queste donne uomini e bambini
che si muovono in masse scomposte verso il pasciuto Occidente
(più gonfio, a dire il vero, che grasso) rappresentano
lo spauracchio quotidiano dei maleinformati, dei faziosi e dei
leghisti. Ma anche la preoccupazione, seria e fondata, di tanti
altri. Perché la difficoltà dell'accoglienza,
l'educazione alla diversità, la necessità di predisporre
terreni fertili da un punto di vista umano, culturale e anche
economico, non sono temi da bar e non vanno confusi con i pregiudizi.
Parlarne (seriamente) non è facile, non solo perché,
qualunque sia la nostra posizione al riguardo, lo facciamo la
maggior parte delle volte seduti in poltrona. Ma anche quelli
di noi, tanti, che qualche azione concreta, piccola o grande
che sia, la fanno, anche quelli possiedono un paio di scarpe
buone e a casa hanno un termosifone. E qui tuttavia aprirei
una parentesi su una riflessione che, personalmente, ho trovato
illuminante, che riguarda appunto il buonismo. Così screditato,
preso in giro, denigrato a destra e ahimè soprattutto
a manca.
Per Pagliassotti i buonisti sono importanti; anzi, fondamentali.
Forse perché sono molti di più dei veri “buoni”.
Di eroi ne nasce uno ogni, mentre un piccolo o grande buonista
si nasconde dentro moltissimi di noi. In francese il termine
equivalente è “les justes”, i giusti, che
rende molto meglio il concetto. Che ci si ispiri a un alto ideale
di uguaglianza e umanità, o che si debba semplicemente
dar da bere qualcosa di sano alla propria coscienza, smettiamola
di svendere la bontà ai nemici. I giusti rispondono a
un'etica personale che sarà pure ridotta, smarcata dal
bene supremo, a volte umorale e volatile, ma spesso le loro
(nostre) piccole azioni fanno la differenza. A volte salvano
addirittura vite umane, pensate un po'.
Cito al proposito un altro autore, Paolo Nori, che intervistato
da un giornalista su argomenti quali potere ed eroismo, cita
a sua volta il Viaggio sentimentale di Vitor Slovskij:
“Se invece di cercare di fare la storia, cercassimo semplicemente
di essere responsabili per i singoli eventi che la compongono,
forse non ci renderemmo ridicoli. Non la storia si deve fare,
ma una biografia”. Al giornalista che, provocatoriamente,
gli domanda se non trovi questa affermazione un po' “buonista”,
Nori risponde che il potere significa, molto semplicemente,
“quello che uno è capace di fare. E si può
essere molto potenti anche senza avere nessun ruolo preciso
dentro un organigramma”.
Tornando al nostro libro, vi troverete di fronte, se deciderete
di leggerlo, ad una moltitudine di personaggi e situazioni che
daranno filo da torcere ai vostri luoghi comuni. Ad esempio:
le guardie di frontiera. Lo sappiamo, certamente, noi che viviamo
vicino a ValTav, lo sappiamo bene che non sono proprio il massimo
della cordialità. E però voglio vedere voi, a
fare quel mestiere. Provateci, poi vediamo se siete ancora simpatici.
A guardia del nulla, ore e giorni e notti di noia infinita,
incatenati alla logica perversa che li governa dall'alto, bombardandoli
di pregiudizio e burocrazia, contribuendo non poco a disumanizzarli.
E in più con quei disgraziati che magari te la fanno
sotto il naso, che quello che sta alla guida è bianco,
è del tuo colore, è vestito normale e c'ha la
moglie imbronciata seduta vicina, vuoi non farlo passare di
là? E invece, ecco, è capace che arrivato in terra
francese, quello apre il baule e ne fa saltare fuori uno nero
come la pece, accartocciato e intirizzito, ma pronto a rimettersi
seduta stante in viaggio verso la vita.
E poi: la gratitudine. Per la gratitudine, nelle vicende che
Maurizio narra, lo spazio è molto ridotto. Questo è
davvero difficile da mandare giù. Certo sulla gratuità
del dono esistono fior fior di saggi scritti e studi, lo sappiamo
tutti che il dono vero non prevede un ritorno, lo hanno detto
in tanti, da Zarathustra al papa, sìssì, ma prova
un po' tu a salvare una vita, rischiando sulla tua pelle, nascondendo
in casa un clandestino, cedendogli il letto, nutrendolo per
settimane, mantenendolo col tuo stipendio da precario.
Poi quello parte e non ti dice nemmeno grazie.
E ancora: gli autisti dell'est. Migranti su gomma, nomadi del
trasporto, figli anche loro di terre che hanno faticato ad accoglierli.
Il ritratto che Pagliassotti fa di questi uomini (che questo
non è “mestiere da donne”, salvo eccezioni)
è scevro di giudizi. Danno passaggi, nascondono nei telai,
raccattano vite. Spesso le salvano. Lo fanno per soldi? Probabile.
Biasimateli, se sentite di averne il diritto.
Ma loro, i protagonisti, i migranti? Dove stanno, loro, in questa
storia? Loro stanno dentro le loro storie, che stavolta non
sono fatte di barconi che affondano e capitane che salvano,
ma di naufragi nel ghiaccio e approdi di fortuna. Di fughe estenuanti
e a volte rocambolesche da una terra che li respinge ad un'altra
che chissà. Stanno dentro gli scarponi che qualcuno gli
procura, nelle dita congelate che qualcun altro riscalda e cura,
nelle arance di Rosarno che altri ancora gli regalano.
Le loro storie sono crudeli e soffici come la neve delle nostre
montagne. Sono, soprattutto, la fotografia di un'umanità
pronta a tutto, determinata e ostinata. E sono invincibili;
gente che niente e nessuno riuscirà mai a fermare. Né
una frontiera, né un politicante, né un aspirante
dittatore. Lasciate ogni speranza, appunto, se questo è
ciò che speravate.
Un'ultima cosa: anche Maurizio Pagliassotti – diamogliene
atto, se lo merita – è invincibile, poiché
è ancora vivo e vegeto nonostante i suoi primi due libri
Chi comanda a Torino (2012, Castelvecchi editore) e Sistema
Torino, sistema Italia (2014, Castelvecchi editore).
Forse nemmeno il Potere è più quello di una volta.
O forse Salvini non ha ancora scovato il suo citofono.
Claudia Ceretto
Pena di morte/
Opporsi è un dovere etico
Il diritto di opporsi (di Destin Daniel Cretton, 2019)
è la storia di un giovane avvocato afroamericano, laureato
ad Harvard, che sceglie di dedicare la propria carriera alla
difesa di uomini poveri, di colore, ingiustamente accusati e
condannati a morte: sceglie la strada di quello che, alla fine
degli anni Ottanta in Alabama, poteva essere definito a tutti
gli effetti un suicidio, anche sociale.
Bryan
Stevenson, questo è il suo nome, si oppone allo status
quo, alla facile e brillante carriera che lo attendeva nel
Nord America e anche a sua madre che, profondamente preoccupata,
gli fa pesare questa sua scelta, e si trasferisce in Alabama,
dove fonda un'organizzazione, la Equal Justice Initiative.
Bryan seleziona i suoi primi clienti e si accorge che molti
di loro non hanno avuto diritto ad un'adeguata difesa: molti,
non avendo soldi per pagare le parcelle, erano rappresentati
da avvocati d'ufficio che non investivano alcuna risorsa nella
loro difesa e non rappresentavano in alcun modo i loro diritti.
In questo punto il film si mostra già profondamente attuale
perché ancora oggi, nel 2020, molte persone povere entrano
in carcere con pene molto brevi, irrisorie – parlo addirittura
di pochi mesi – che quindi dovrebbero essere scontate
in misura alternativa, come previsto dalla legge. Sembra delinearsi
una terribile equivalenza: miseria = minori diritti e ridotte
possibilità di vederli rispettati. In questo punto il
film si mostra già profondamente attuale perché
ancora oggi, nel 2020, molte persone povere entrano in carcere
con pene molto brevi, irrisorie – parlo addirittura di
pochi mesi – che quindi dovrebbero essere scontate in
misura alternativa, come previsto dalla legge.
Forse, aveva ragione George Orwell ne La fattoria degli animali
quando scriveva: “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni
lo sono più di altri.”
Ma torniamo a Bryan, tra i diversi casi che segue spiccano quello
di Herbert, ex soldato afroamericano, che ancora profondamente
provato dagli effetti della guerra, ha piazzato una bomba in
un contesto residenziale e ha ucciso una ragazza; e quello di
Walter, un taglialegna afroamericano accusato di aver ucciso
una giovane donna bianca.
Poco dopo aver affidato l'incarico a Bryan, purtroppo Herbert
riceverà la notifica che fissa la data della sua esecuzione.
Herbert, in questo film, incarna la paura di morire, da cui
nemmeno i criminali condannati a morte sono esenti: la notte
prima della sua esecuzione Herbert piange, non riesce a respirare
e cerca di dare un senso a ciò che sta per accadere in
un breve dialogo con Walter, suo vicino di cella:
“Una ragazza è morta per colpa mia, me lo merito.”
“Questo non dà il diritto di uccidere te.”
Ecco un altro punto nodale che mette in evidenza la logica della
giustizia retributiva, basata sulla legge della bilancia e sul
principio del corrispettivo – ad ogni reato il suo giusto
quantum di sofferenza – ma questo breve scambio,
secondo me, offre anche un'altra occasione di riflessione: che
modello di comportamento fornisce uno Stato che utilizza la
pena di morte nel tentativo di far diminuire i crimini di sangue?
Fornisce un modello di comportamento violento che non consolida
l'idea che la vita sia un bene da proteggere, rafforzando invece
un circolo vizioso di violenza e sofferenza. Siamo, ancora oggi,
fermi alla legge del taglione: occhio per occhio, vita per vita.
Prima dell'esecuzione ci sono una serie di rituali da mettere
in atto: Herbert viene rasato completamente, due agenti, uno
più anziano e l'altro più giovane, preparano le
sedie per coloro che assisteranno a questo macabro spettacolo.
Mentre svolge meccanicamente il suo compito, l'agente anziano
nota che il giovane collega è in difficoltà e
commenta “prima volta nella camera, eh? Non pensare troppo
o vai fuori di testa”.
Un saggio consiglio che sicuramente consente di sopravvivere
all'interno di un contesto così violento come quello
dell'Istituzione totale: tu sei solo una rotellina in un grande
ingranaggio, svolgi il tuo compito e non farti domande. Ma quando
il giovane agente incrocia lo sguardo terrorizzato di Herbert,
seduto sulla sedia elettrica mentre gli stringe le cinghie alle
caviglie, prova un'emozione, un sentimento e qualcosa in lui
cambia. Infatti, questo sarà lo stesso agente che porterà
a Walter, mentre è in isolamento in una cella liscia
senza suppellettili, le foto che custodiva in cella della sua
famiglia e gli consentirà anche di trascorrere qualche
minuto insieme ai suoi famigliari fuori dal tribunale –
cerco di non spoilerare troppo – prima di essere riaccompagnato
all'Istituto correzionale Holman. Si tratta dello stesso agente
bianco che trovatosi davanti per la prima volta Bryan gli intima
di recarsi in una stanza e lo costringe a spogliarsi completamente
per essere perquisito: questa umiliazione era la prassi che
aveva arbitrariamente stabilito per identificare e registrare
un legale di colore in visita al suo cliente.
Nel film e nello svolgersi della storia ci sono diversi risvegli
della ragione che hanno condotto diversi personaggi a sviluppare
un pensiero critico, ad opporsi alle logiche dominanti e ad
assumersi in prima persona la responsabilità del proprio
posizionamento, nonostante le ingenti pressioni sociali e i
rischi, anche per la propria incolumità.
Io credo che questo film sia un inno al coraggio di opporsi
quotidianamente e sempre, attraverso il proprio specifico, perché
opporsi non deve essere solo un diritto, ma anche un dovere
etico e morale di ciascuno di noi.
Mi piace chiudere questa riflessione con le parole che Eva Ansley,
moglie madre e attivista al fianco di Bryan, pronuncia dopo
aver ricevuto la telefonata di un anonimo che la informa di
aver messo una bomba sotto casa sua: “non me ne frega
di piacere alla gente finché faccio il mio dovere. Io
non voglio che mio figlio sappia che sua madre ha smesso di
fare una cosa giusta per paura di qualche stronzo bigotto.”
Elisa Mauri
Plastica/
Metafora dei rapporti umani
“Guardi che qui è proibito pescare.” Qui davanti a Marceddì c'è la base Nato di Capo Frasca.
“Ah, sì, ho capito. Perché è proibito
pescare?”
“Perché questa è zona militare”
“Zona che?”
“Zona militare”
“E che cosa vuol dire?”. Li presi un po' per il
culo e allora alzarono la voce.
Testimonianza del pescatore Emilio Aramu riportata da Carlo Bellisai nel suo libro Sulle rive di un mare di plastica.
Insegnante elementare a Cagliari, militante del Movimento Nonviolento, attivo
nella mobilitazione sarda per la libertà dalle servitù
militari che ancora appesantiscono, come un ricatto, la vita
e l'economia di un territorio bellissimo e di una popolazione
dignitosa, responsabile della Casa per la Pace nella gramsciana
Ghilarza e animatore di un tema che, come anarchici, dovrebbe
profondamente interessarci anche dal punto di vista operativo,
oltre che ideale: il rapporto tra anarchismo e nonviolenza.
Volentieri l'ho conosciuto tre anni fa a un convegno sul tema,
e volentieri ho letto questo libro (Sulle rive di un mare
di plastica, La Città degli dei, Cagliari 2018, pp.
160, € 15,00) che parte dalla figura della bottiglia di
plastica in mare per esporci un problema di fondo di cui la
plastica è il simbolo drammatico di una logica applicata,
e non di uno sbaglio, di questo tipo di sviluppo.
Carlo
Bellisai non è nuovo alla scrittura. Ha sempre scritto
poesie, racconti, per amore e per insegnare in questo modo ai
suoi piccoli alunni. È del 2007 Non so come sia da
voi, ma da noi è così, favole per l'insegnamento
della nonviolenza nelle relazioni umane con prefazione della
pedagogista Pat Patfoort. Evidentemente scritti per bambini
e non solo per bambini. Parte dalla sua infanzia, dai rifiuti
che si producevano quando aveva 5 anni, che erano pochi, i soliti
scarti di cucina, lische di pesce, bucce di frutta, piume e
zampe di pollame, qualche carta unta e bisunta. “S'aliga”,
la monnezza, era perlopiù questa, perché non c'era
una cornice di confezioni sul prodotto comprato, c'era l'essenziale,
il prodotto e basta.
L'arrivo della plastica va di pari passo con il cambiamento
dei rapporti umani, dei rapporti sociali, si incunea nel cambiamento
antropologico, nei contratti sociali che cambiano la raccolta
rifiuti, l'usa-e-getta delle inutilità, la necessità
artificiale della plastica richiesta dappertutto nei rapporti
umani. Chi non ricorda fino a 20 anni fa la socializzazione
adolescenziale degli Skifizz, Skifilor, orridi e cremosi, appiccicosi
che creavano al di là del provocatorio schifo anche uno
scambio “social” di informazione sulle novità
e usi del prodotto e gli appuntamenti collettivi per provarli.
E con la plastica si crea la sua giustificazione, la normalizzazione
che crea indifferenza perché respirata come necessaria.
Le denunce divenute finalmente motivi di una rivolta giovanile
sullo stato del pianeta hanno bisogno di un'analisi radicale
del tipo di sviluppo. Nelle ultime pagine del libro vi è
il racconto della rivolta dei rifiuti ammassati indifferenti
ai margini. Rifiuti con comportamenti umani, rifiuti umani tenuti
ai margini, perché lo sviluppo della plastica è
sviluppo industriale, capitalistico e produce scarti di chi
non è utile alla produzione, parassiti - persone umane,
non banche private salvate - della spesa pubblica: i poveri,
gli emigranti, i reietti dalla produzione che chiude, anche
in attivo di bilancio, in nome della proprietà privata
e libero mercato. L'elenco delle aziende che producono rifiuti
umani è presente anche in Sardegna in questo momento
di scrittura: Whirpool, Auchan, Airitaly, Moby, la scuola con
contratti di precariato non rinnovabili.
Dicevamo che l'attuale rivolta giovanile sullo stato del pianeta
vive il rischio di un assorbimento pacifico da parte del capitale
e del potere se non ha un'analisi radicale delle cause. Il rischio
è una lettura del libro di Carlo Bellisai come semplice
incitamento a ridurre l'uso della plastica, al riciclaggio dei
rifiuti, alla sostituzione delle bottigliette con uso del vetro
negli incontri ufficiali e pubblici, con l'apertura in ogni
comune della Sardegna, e non solo, delle “casette dell'acqua”.
Nel libro c'è tutto questo e tutto questo è una
proposta possibile e auspicabile.
Abbiamo grandi aziende che, sull'onda di un'immagine ecologica,
stilano normative interne di differenziazione dei rifiuti, carta
senza abbattimento di piante, riciclo, uso del vetro negli incontri,
riduzione di sprechi d'energia, installazioni fotovoltaiche,
e riescono a ridurre di 3/4 lo spreco. Indicazioni presenti
anche nell'amministrazione americana delle basi Nato. Ora se
avessimo queste certezze, queste presenze nella nostra vita
sarebbero accettabili?
La risposta determina la qualità dell'analisi, dei comportamenti
e delle lotte conseguenti, e non mettere in conto questo dubbio
pone pericolosamente a rischio la possibilità che esista
un altro tipo di sviluppo non compatibile con lo sfruttamento
dell'uomo e della natura.
L'autore il dubbio lo pone sul tavolo di lettura. Sia motivo
di azione.
A si biri kompanzos e kompanzas.
Antonio Lombardo
Anarchismo, libertà e amore/
La vita di Nella Giacomelli
Sappiamo bene come anche la storia dell'anarchismo, e non solo
la storia in generale, sia stata per lungo tempo prevalentemente
declinata al maschile, anche se con qualche illustre eccezione.
Finalmente, da qualche anno, c'è una crescente attenzione
alla partecipazione delle donne alla militanza libertaria e
a quella che potremmo definire la “questione femminile”
all'interno del movimento anarchico con un fiorire di pubblicazioni
che speriamo si intensifichi.
Sicuramente
rientra in questo filone il libro di Ercole Ongaro, Nella
Giacomelli. Un'anarchica controcorrente (Milano, Zero in
condotta 2019, pp. 192, € 15,00), la prima biografia edita
di questa donna che tanto ha dato al movimento libertario ma
che è stata a lungo dimenticata e sottovalutata. Nella
Giacomelli (1873-1949) non ha goduto infatti neanche della relativa
“fortuna” di altre sue compagne a lei contemporanee
come Maria Rygier o Leda Rafanelli, sulle quali sono apparsi
diversi lavori; questo forse perché Nella già
all'epoca era considerata una donna “dura e cattiva”,
fortemente intransigente ed estremamente coerente.
Una vita intensa quella di Nella, abilmente ricostruita da Ongaro,
segnata da una situazione familiare difficile, un pessimo rapporto
con la madre, un tentativo di suicidio, duri attacchi personali
nascosti sotto una finta parvenza politica, un complesso e intenso
rapporto con il grande chimico Ettore Molinari e i figli di
lui, due guerre mondiali, il fascismo, due arresti (nel 1921
e nel 1928), la continua sorveglianza poliziesca fino al 1941
e infine l'autoesilio a Desenzano del Garda dove muore il 12
febbraio 1949, a 75 anni, ancora convintamente e coerentemente
anarchica.
Redattrice di molte testate sovversive, Nella nei suoi articoli
si occupa di molti temi tra cui la sua visione dell'anarchismo,
la critica alla situazione sociale, l'importanza dell'anticlericalismo,
il problema dell'educazione, le riflessioni sul matrimonio e
il libero amore, la situazione delle carceri, l'antimilitarismo,
etc.
Autrice anche di testi teatrali e di un ricco epistolario, Nella
dedica il suo impegno soprattutto alla lotta contro la guerra.
I suoi articoli infatti, pubblicati a inizio secolo sul “Grido
della Folla” sono tra i primi articoli antimilitaristi
a firma femminile ad apparire sulla stampa libertaria.
È importante ricordare come l'opposizione femminile alla
Grande Guerra - e alle guerre coloniali che la precedettero
- fu ampia e coinvolse moltissime donne di varie tendenze politiche,
tutte accomunate da una ferma critica al sistema di potere maschile
in cui la guerra svolgeva (e svolge tuttora) un ruolo centrale.
In campo anarchico, Nella è sicuramente tra le militanti
più attive contro la guerra, tanto che lo storico Pier
Carlo Masini la ricorda come “la voce dell'intransigenza
anarchica e del più rigoroso internazionalismo”.
In particolare, contrariamente a molti, Nella non è solo
contro l'intervento militare ma anche contro la difesa militare
del territorio in caso di invasione straniera, risultando così
un fondamentale argine ai vari cedimenti guerrafondai.
Il suo impegno contro ogni tipo di guerra, non è solo
teorico ma anche militante: Nella infatti è tra le principali
promotrici di manifestazioni di donne contro la guerra, in particolare
a Milano in piazza Duomo in occasione del Primo Maggio, sia
nel 1915 che nel 1916. Proprio per questo suo impegno, nel 1916,
viene fermata insieme ad altre 22 donne, tra cui Leda Rafanelli,
ed è costretta al domicilio coatto a Lodi, suo paese
di origine, tramutato poi in diffida “da ogni forma di
propaganda contro la guerra”.
Nel dopoguerra Nella, con il suo compagno Ettore Molinari, partecipa
a Firenze al convegno nazionale per la costituzione dell'Unione
Comunista Anarchica Italiana dove preme per la fondazione di
un quotidiano anarchico che uscirà poi effettivamente
nel febbraio 1920, arrivando proprio quest'anno a compiere 100
anni dal primo numero. Nella, oltre ad essere consigliere delegata
della società proprietaria del giornale, ne propone il
nome “Umanità Nova”, spiegandolo così
sulle pagine de “L'Iconoclasta” di Pistoia:
“Umanità Nova è il titolo del Quotidiano
anarchico in progetto, titolo mite, quasi evangelico, non intonato,
qualcuno dice, al concitato respiro della società in
fermento, al tumultuoso avvicendarsi di eventi, al minaccioso
delinearsi di azioni violente e di propositi audaci di quest'ora
che viviamo. [...] Umanità Nova, meta suprema di tutte
le nostre lotte e dei nostri dolori, noi ti adottiamo come simbolo
luminoso d'una visione vivente, e ti innalziamo al di sopra
di tutte le folle, verso tutti i cuori, faro e bandiera di luce
e libertà”.
Nella collabora attivamente al quotidiano nel suo primo anno
di nascita, con articoli di riflessione e approfondimento pubblicati
solitamente in seconda pagina, con toni sempre più pessimistici
e critici nei confronti degli anarchici a lei contemporanei
che dedicano a suo parere troppo spazio alla propaganda e troppo
poco al problema dell'educazione e della necessità di
rinnovare l'umanità anche moralmente: «Se non si
tiene conto della materia uomo e si attribuisce la sua elevazione
e la sua perfezione ai miracoli del determinismo economico,
la rivoluzione darà delle sorprese».
Proprio per queste sue posizioni, accusata di far letteratura
e non politica, nel 1921 Nella lascia il giornale con “affetto
di vecchio, per quanto ormai lontano fratello”, concentrandosi
sempre più sulla dimensione ideale, culturale ed etica
dell'anarchismo, sostenendo che “la libertà individuale
sarà tanto maggiore quanto maggiore sarà il rispetto
reciproco di essa, in tutti” e che “non basta demolire
le catene dello sfruttamento ma occorre cambiare l'uomo nella
sua essenza”.
In questo senso si inserisce la consapevolezza da parte di Nella
dell'esistenza di una questione di genere che la porta più
volte a denunciare i pregiudizi e le difficoltà di partecipare
in quanto donna al dibattito politico e sociale. Proprio per
questo motivo, Nella sottolinea la necessità per le donne
di acquisire, oltre che una coscienza politica, anche una coscienza
di genere, esortandole a prendere consapevolezza del proprio
valore e della propria forza in quanto donne. Nella inoltre
denuncia come, anche tra gli anarchici, moltissimi non si sono
ancora emancipati dal passato e da una mentalità di oppressione
e sfruttamento femminile. Di conseguenza Nella critica duramente
l'istituzione del matrimonio e la famiglia tradizionale, vista
come una gabbia per l'individuo. La sua è una battaglia
per il libero amore e più in generale contro il pregiudizio
morale, “serpe velenoso in agguato che non risparmia nessuno”.
Ed è contro questa forma mentis, figlia della
società capitalista, che Nella proclama la ribellione
e la rivoluzione, per poter creare una società improntata
ad un ideale di “libertà e amore”, una società
anarchica che non sarà soltanto il prodotto di una rivoluzione
ma sarà anche il portato d'una lunga e paziente preparazione
delle coscienze. Per Nella la demolizione della società
in cui si vive deve andare di pari passo con la modifica radicale
della cultura in cui si è immersi, anche attraverso il
necessario sradicamento dei falsi concetti di Dio, patria, proprietà
e famiglia.
Le riflessioni di Nella, per la loro attualità e originalità,
meriterebbero sicuramente un maggiore approfondimento ma finalmente,
grazie al libro di Ercole Ongaro, cominciano a riemergere e
risuonare nuovamente.
Selva Varengo
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