Tecnologie nelle mani delle comunità
Le
tecnologie digitali sono tra le più centralizzate della
storia: molte, come i social media o i personal computer, sono
completamente controllate da piccoli gruppi di multinazionali.
Gli utenti sono soggetti a forme di potere e delega da cui è
difficile districarsi. Ma esiste un sottobosco di tecnologie
digitali pensate per dare ai singoli e alle comunità
la possibilità di immaginare usi e modelli alternativi.
Per esempio raccogliere e analizzare informazioni diverse da
quelle dello stato o produrre oggetti in modo distribuito. Alcuni
tra gli esempi più interessanti sono legati all'ambiente
e alla salute e puntano a mettere nelle mani di più persone
nuove tecnologie organizzate in rete.
Dopo l'incidente nucleare di Fukushima, nel 2011, non tutti
credevano ai dati ufficiali del governo sull'estensione e la
gravità delle contaminazioni. Per affrontare una crisi
che era contemporaneamente ambientale e politica, gruppi di
hacker giapponesi hanno sviluppato contatori Geiger portatili
a basso costo, poche decine di euro, che chiunque poteva acquistare
e collegare al proprio telefono. Per esempio, il rilevatore
di radiazioni “bGeigie,“ usato da migliaia di persone,
può essere montato su un'automobile. Ogni 5 secondi misura
il livello di radioattività, le coordinate GPS, e comunica
i dati a un sito che li aggrega in una mappa aggiornata in tempo
reale.
Le centraline fai-da-te per misurare l'inquinamento atmosferico
si basano sullo stesso principio: non delegare completamente
all'autorità la necessità di aria pulita. A Milano
il Progetto centraline autogestite del collettivo Off Topic
(vedi “A”
442, aprile 2020) organizza laboratori per autocostruire
centraline di tipo “Luftdaten” per la rilevazione
di polveri sottili come pm10 e pm2,5. Si tratta di una tecnologia
semplice e a basso costo, che si può installare sul balcone
o finestra di casa e invia i dati a una mappa consultabile liberamente
in rete. Il gruppo “Che aria tira?” riunisce decine
di centraline fai-da-te distribuite in tutto il paese che funzionano
grazie a un hardware open source come Raspberry PI – un
microprocessore economico e aperto, facilmente riprogrammabile
e adattabile a diversi usi.
Le stampanti 3D sono invece usate per produrre oggetti in modo
non centralizzato in casi in cui la produzione industriale è
assente o non accessibile. La crisi del coronavirus ha creato
un'ondata di progetti per stampare dispositivi di protezione
individuale come le visiere in plastica per i medici. Reti internazionali
di laboratori 3D e singoli individui hanno migliorato assieme
il design di questi oggetti e si scambiano i file per produrre
le visiere in luoghi in cui ci sono carenze. Le stampanti 3D
sono usate da tempo per materiali medici.
A Gaza, con il progetto “Glia” il medico e hacker
palestinese/canadese Tarek Loubani costruisce stampanti che
producono stetoscopi e lacci emostatici a partire da plastiche
riciclate e a bassissimo costo. Questi materiali sanitari di
base sono infatti scarsi a causa dell'assedio israeliano.
Spesso queste esperienze sono basate su una contraddizione di
fondo. Il filosofo antiautoritario Ivan Illich sognava una società
“conviviale” opposta a quella industriale, in cui
le singole persone e comunità siano in grado di usare
tecnologie al di fuori del controllo dei tecnici e specialisti.
Molte nuove tecnologie distribuite rispondono a questo bisogno
di convivialità, dato che sono nelle mani di comunità
locali o organizzate in rete. Ma allo stesso tempo la loro stessa
esistenza è possibile solo grazie alla disponibilità
di componenti elettronici a basso costo prodotti nelle fabbriche
cinesi e asiatiche e dal sistema di scambi della globalizzazione
capitalista. Risolvere questa contraddizione sarà complicato.
Triplobit
triplobit@inventati.org
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