Stereotipi e pregiudizi
Negli USA i crimini classificati come antisemiti sono in diminuzione. Ma gli ebrei restano il gruppo umano più frequentemente vittima di odio sociale. La vicenda di Leo Yeni.
Fuga: “Poche parole di commiato e mi sono diretto verso un paesino che, sulla carta geografica, era indicato come Breno, ma nella mia testa si chiamava Liberazione”. Campo profughi di Bellinzona: “Condivido la baracca con persone di ogni provenienza che hanno subito il mio stesso fato e sento attorno a me tante lingue: italiano, francese, russo, tedesco, ungherese, croato”. (dai diari di Leo Yeni, 1943–1944)
Ogni anno, a gennaio, nella giornata della memoria, torno sui
miei passi e mi ritrovo a sostare su un marciapiede spazzato
da venti gelidi, davanti al grande portone spalancato di un
vecchio garage, ripulito per l'occasione.
A New York le commemorazioni delle vittime dell'olocausto sono
numerose, ma io vado sempre lì e mi metto in fila, imbacuccato,
le mani gelate, in attesa del mio turno. Sulla soglia di quel
garage, infatti, si dà pubblica lettura dei nomi degli
ebrei italiani assassinati dai nazifascisti e lì, per
tutto il giorno, stazionano gruppi di persone, si fermano scolaresche
e vecchissimi reduci sfidano l'inverno, mentre dagli altoparlanti,
puntati sulla strada, risuonano i nomi, uno ad uno, e ogni nome
è un urlo nel silenzio.
Quel rito mi commuove, mi piace la sua sobrietà: nessun
commento, niente discorsi ufficiali, solo i nomi, scritti su
grandi fogli bianchi, rilegati in grossi volumi, custoditi gelosamente
dal Centro Primo Levi di New York1
e riportati alla luce a gennaio, anno dopo anno. La lettura
prosegue per ore, senza interruzione e questo è cruciale:
la catena non deve mai fermarsi, qualcuno deve sempre essere
pronto a sostituire gli esausti, gli infreddoliti e il tempo
che scorre e i nomi, scanditi senza sosta, trasmettono la vertigine,
il senso di immensità della tragedia. Soffiano nel vento,
quei nomi di uomini, donne e bambini dai volti sconosciuti,
persi per sempre in un tempo remoto, esseri umani trascinati
via dalle loro case e assiepati come bestie nei vagoni piombati.
Sono i sommersi delle pagine indimenticabili di Primo Levi2
e di loro restano appena quelle tracce di inchiostro sulle pagine
bianche e, quando arriva il mio turno, scorro con gli occhi
i fogli che mi sono toccati in sorte e volto le pagine con cura,
attento a non provocare nuove ferite. Leggo con attenzione e
con ansia, nella convinzione che sbagliare anche solo un nome,
un accento, sarebbe un'offesa in più arrecata a quegli
innocenti. Una volta sola ho chiesto di poter leggere certe
pagine particolari, coi nomi di alcuni ebrei romani deportati
nella retata del 16 ottobre 1943: erano i parenti di una cognata,
prematuramente scomparsa, che non poté mai conoscerli,
perché finiti nei forni crematori dodici o tredici anni
prima che lei nascesse. Portava il nome di una di quelle zie.
Porterò per sempre con me la commozione che mi ha suscitato
declamare al microfono proprio quei nomi.
Quel raduno filonazista a Manhattan
Sono tanti oggi gli ebrei che vivono a New York, oltre un milione,
il tredici per cento della popolazione: la più grande
comunità ebraica fuori da Israele. Una presenza palpabile,
visibile, non solo per la diffusione di templi, sinagoghe e
scuole o per l'occasionale incontro con qualche ortodosso dalle
lunghe basette e dal cappello nero, ma soprattutto per l'uso,
diffusissimo fra maschi adulti e bambini, di indossare la kippah3
anche al di fuori dei luoghi di culto, nella vita quotidiana.
Guardandomi attorno, parlando coi tanti amici ebrei conosciuti
in questi anni, ho maturato la convinzione che questa città
si sia ormai spogliata di pregiudizi e stereotipi, così
consueti ovunque. Ma la storia mi obbliga ad essere cauto: in
passato l'antisemitismo è stato di casa anche qui. Sei
mesi prima che Hitler invadesse la Polonia si tenne, proprio
a Manhattan, un grande raduno filonazista. Il Madison Square
Garden, icona newyorchese, si riempì di ventimila sostenitori
di Hitler inneggianti al nazismo, alcuni mascherati nelle divise
delle SS. Facevano il saluto romano davanti a un enorme ritratto
di George Washington decorato con le svastiche del Terzo Reich.
L'evento fu promosso dal German American Bund, un'organizzazione
antisemita che in quegli anni organizzò anche molti campi
estivi filonazisti per giovani e famiglie.
Dieci anni più tardi, conclusa la guerra, una coraggiosa
denuncia dei rigurgiti di ideologia nazista e antisemita ancora
presenti nel paese arrivò dal regista newyorchese Leo
Hurwitz con il documentario Strange Victory, in cui metteva
in luce le contraddizioni di un paese che aveva combattuto il
nazifascismo in nome della libertà, ma manteneva il segregazionismo
razzista. Nel documentario si raccontava, tra le altre, la storia
di un eroe di guerra: Virgil Richardson, pilota afroamericano
che aveva combattuto in Europa e nel Pacifico con i Tuskagee,
gloriosa squadriglia, invincibile ma segregata. Al ritorno in
patria Richardson e gli altri non erano stati accolti da folle
festanti ma avevano ritrovato la vita di prima, fatta di umiliazioni
e lavori servili e mal pagati, mentre il mestiere del pilota
tornava privilegio dei soli bianchi.
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Lilian
Spiegel e il busto da lei scolpito raffigurante Leo Yeni |
Quel documentario fu un colpo al cuore dell'America festosa
e ottimista del dopoguerra. Esplose come una bomba inopportuna
mentre la televisione usava ancora toni trionfali e mandava
in onda solo sorrisi smaglianti di famiglie in festa e celebrazioni
della vittoria. Ma venne bollato come propaganda stalinista
e scomparve rapidamente dalle sale, colpito dalla censura. Hurwitz
pagò lo scotto con un decennio di ostracismo da parte
dell'industria cinematografica e cadde nel dimenticatoio. Richardson
scelse l'esilio in Messico, dove realizzò una buona carriera
di attore di teatro.
Storie conosciute una fredda sera di gennaio, seduto sui sedili
sgangherati di una dimessa saletta d'essai nel cuore di Harlem,
dove si proiettava proprio quel vecchio documentario. C'era
un bel clima di altri tempi, con la stanza affollata di un pubblico
in età, di sinistra, preoccupato dal ritorno sulla scena
politica di idee fasciste. Gente che, dopo la proiezione, si
è lanciata in un dibattito interessante e animato. Era
presente anche il figlio del regista, piuttosto anziano e malandato,
che aveva seguito le orme del padre e ne parlava con sobria
ammirazione e un po' di nostalgia. Nelle sue riflessioni sosteneva
che, in nuce, le idee fasciste erano presenti nella società
americana prima ancora che in Europa, nell'ideologia suprematista
che poneva i bianchi in cima alla gerarchia sociale. Affermazioni
che mi hanno lasciato perplesso, ma di cui ho poi trovato qualche
conferma nella lettura della società americana fatta
da Jason Stanley, figlio di ebrei tedeschi rifugiatisi negli
Stati Uniti, professore di filosofia a Yale e attento studioso
del fascismo4.
Le statistiche dell'FBI indicano che negli USA i crimini classificati
come antisemiti sono in costante decremento, ma anche che gli
ebrei restano il gruppo umano più frequentemente vittima
di reati riconducibili all'odio sociale. Un fatto sorprendente
per chi, come me, vivendo a New York, ha la percezione di un
diffuso rispetto verso una comunità che è parte
integrante del tessuto variopinto di questa metropoli e senza
la quale la città oggi avrebbe un volto assai diverso.
Ma nel 2016, col suo romanzo fantastorico Here I Am,
Jonathan Safran Foer ha messo in luce la diffusa trepidazione,
lo stato di costante allerta in cui vivrebbero gli ebrei americani,
nella coscienza che, anche nel paese dove sono stati accolti
a braccia aperte, dopo l'olocausto, la scintilla dell'odio può
sempre scoppiare.
La lettura di quello strano romanzo mi ha fatto riaffiorare
il ricordo di alcuni episodi opachi di cui sono stato testimone
in questi anni e mi sono tornati alla mente certi commenti ironici
o addirittura astiosi, cattivi; i luoghi comuni gettati, quasi
per caso, nelle conversazioni; le battute fastidiose, grossolane.
Stereotipi e pregiudizi che di tanto in tanto ricompaiono. Mi
è capitato anche nelle conversazioni con certi italiani
colti che vivono qui e che, ancora oggi, di fronte all'ebreo
visibile, riconoscibile, rispolverano insopportabili luoghi
comuni e un malcelato disprezzo. Alcuni di loro sono devoti
cattolici ma sembrano voler ignorare che il fondatore della
loro religione fosse un ebreo circonciso. Mi rendo conto allora
che nel racconto di Foer c'è un fondo di verità
che non si può ignorare.
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Leo Yeni con familiari e amici |
Burocrazia e leggi senz'anima
Qualche anno fa, davanti a quel garage, coi nomi che andavano
a perdersi nel traffico del mattino, ho conosciuto Lilian Spiegel,
per tutti Lili, combattiva, inarrestabile novantenne, che fa
la spola fra la California e New York. Artista, educatrice,
attivista pro migranti, Lili è stata la compagna di Leo
Yeni, un artista ebreo nato a Milano nel 1920 e morto negli
USA nel 2011 e ne promuove appassionatamente il ricordo. A lei
è impossibile dire di no e infatti mi ha coinvolto, mio
malgrado, in questo suo impegno. Da tempo porta avanti una battaglia
affinché il governo italiano riconosca a Leo Yeni, post
mortem, la cittadinanza. È la pressante richiesta
di un gesto simbolico, riparatore, per le ingiustizie subite
in vita da un uomo che si è sempre considerato italiano,
a dispetto delle ferite inferte dal regime fascista e di un
esilio lungo quasi una vita intera.
La vicenda umana di Leo Yeni e della sua famiglia non è
solo un'esemplificazione della crudeltà del regime fascista,
racconta anche delle conseguenze tragiche di leggi approvate
prima, durante e dopo il ventennio e di necessarie azioni riparatrici
che non furono mai intraprese. Mostra come una burocrazia senz'anima
che ha applicato ciecamente quelle norme abbia contribuito a
distruggere, senza darsene peso, la vita di tanti. È
il racconto di uno Stato incombente e spaventoso ma anche drammaticamente
latitante; di vite allo sbando, col destino segnato dai rapporti
di polizia, dai certificati anagrafici, dalle carte che privano
di diritti e identità.
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Pia Della Torre e Isaac Yeni |
Isaac Yeni, il padre di Leo, era un greco di Salonicco, scappato
in Italia allo scoppio della guerra italo-turca5.
Una sua istanza di naturalizzazione non venne mai approvata
e, per la legge italiana, restò sempre uno straniero.
La madre, Pia Della Torre, era invece italiana da molte generazioni,
ma avendo sposato uno straniero, secondo le leggi del Regno,
aveva perso la cittadinanza. Leo dunque, nato e cresciuto in
Italia, pur essendo l'italiano la sua lingua e Milano la sua
città, per la legge non fu mai un cittadino, nemmeno
dopo la caduta del regime e la nascita della Repubblica, esattamente
come accade oggi ai figli dei migranti che nascono, crescono,
studiano, lavorano in Italia. Questa vicenda freddamente burocratica
impresse una svolta drammatica a quelle vite quando, nel 1938,
il governo italiano ordinò l'espulsione degli ebrei stranieri,
intimando loro di lasciare il paese entro il 12 marzo 1939.
Cacciati senza colpa, senza un posto dove andare, gli Yeni,
come tanti altri, si rifugiarono invece in campagna e diventarono
clandestini nel loro stesso paese, invisibili, vulnerabili,
inesistenti, cancellati con un tratto di penna dai registri.
Arrestati nei pressi di Varese nel 1944, i genitori di Leo vennero
deportati ad Auschwitz e lì assassinati. Una morte nota
agli storici, ma non agli ufficiali comunali, perché
mai annotata nei registri: con crudele ironia, nel censimento
del 1954 il nome di Pia Della Torre venne cancellato dall'anagrafe
di Milano per “accertata irreperibilità”.
Leo Yeni si salvò con una rocambolesca fuga oltreconfine
sulle rotte dei contrabbandieri e trascorse lunghi anni nei
campi profughi allestiti dal governo svizzero. Aveva già
allora talento con la matita e uno spirito brillante e finì
per diventare animatore di gruppi artistici e fondatore di giornalini
che passavano di mano in mano fra i rifugiati. Dopo la guerra
Leo avrebbe voluto tornare in Italia, ma i suoi amici glielo
sconsigliarono, perché nel paese non c'era futuro per
quelli come lui. Accettò così l'offerta dell'HIAS,
l'organizzazione ebraica che si occupava del ricollocamento
degli ebrei rifugiati, e arrivò a New York in un giorno
brumoso del febbraio 1946. Qui trascorse il resto della vita,
dedicata alla pittura, alla scultura e al design, apprezzato
come artista e per le sua profonda umanità e istintiva
simpatia. Il cuore però rimase legato alla penisola,
come testimoniano molte sue tele. Leo avrebbe voluto che l'Italia
lo riconoscesse infine come suo figlio, conferendogli la cittadinanza
che era stata strappata alla madre, ma quel sogno restò
deluso. Con quelli come lui la burocrazia è stata inflessibile.
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Campo profughi di Bellinzona - Disegno di Leo Yeni |
Racconta Lili come fosse rimasta affascinata da quell'uomo
mite e allegro, capace di lasciarsi alle spalle offese e ferite.
Un carattere che si riassumeva in un gesto caratteristico che
Leo faceva quando doveva affrontare un problema o dimenticare
una cattiveria e, col sorriso sulle labbra, alzava le braccia
e agitava le mani verso dietro, a rappresentare la volontà
di lasciarsi alle spalle ogni ferita e non farsi guidare dal
rancore. Talvolta provo a immaginarmelo, simpatico, scherzoso,
solare, a dispetto dei drammi di una vita che mi passa davanti
agli occhi come un film: bambino a Milano, ragazzo in fuga nella
neve, giovane rifugiato che disegnava i suoi compagni di sventura,
uomo maturo fra tele e colori. Confesso di non riuscire a capire
fino in fondo la sua nostalgia, l'amore per un paese che l'ha
perseguitato, annientando la sua famiglia.
Mi lascia smarrito il fatto che la storia di quelli come Leo
io l'abbia appresa qui, negli USA, solo per caso e ormai quasi
vecchio e non, come sarebbe stato giusto, sui banchi di scuola.
Mi chiedo che storia d'Italia io abbia mai studiato, se non
sapevo nemmeno della cacciata dal paese degli ebrei stranieri,
dei diritti di cittadinanza strappati, del mancato riconoscimento,
dopo, delle ingiustizie subite.
Penso ai migranti e ai loro figli che vivono oggi in Italia
senza diritti di cittadinanza e capisco che la storia potrebbe
ripetersi per loro, e se dovesse accadere chi difenderà
questi nostri concittadini, deboli di fronte alla legge e alla
cieca burocrazia?
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Campo
profughi di Bellinzona - Disegno di Leo Yeni |
Pregiudizi e violenze
L'HIAS, l'organizzazione ebraica che aiutò Leo Yeni
a rifarsi una vita in America, esiste ancora e non si occupa
più solo di ebrei, è diventata un punto di riferimento
per la difesa dei diritti dei rifugiati e offre il suo aiuto
a chiunque, senza distinzione di nazionalità o credo
religioso. I suoi attivisti vengono spesso attaccati dai gruppi
filonazisti e non solo verbalmente: ci sono stati morti e feriti.
Ma non demordono ed è un segnale di speranza.
Quando mi ritrovo davanti a quel garage mi capita, aspettando
il mio turno, di ripensare alle frasi ricolme di pregiudizi,
agli stereotipi ripetuti senza nemmeno pensarci su, agli sguardi
maligni lanciati verso l'ebreo errante e ben riconoscibile grazie
alla kippah o al cappello nero calati sulla testa. Allora sento
il cuore rallentare e mi condanno per tutte le volte che non
ho avuto la voglia o la forza di reagire. Poi mi viene incontro
Leo Yeni, mi appare proprio mentre, con quel suo sorriso un
po' ammiccante, fa quel suo gesto e si getta i problemi e anche
gli insulti alle spalle e riprende il suo lavoro. Mi sembra
così che mi perdoni e mi indichi una strada. Per fortuna
a Lili è impossibile dire di no e ormai sono coinvolto
nel suo strenuo sforzo per restituire a Leo la cittadinanza
cui agognava. Sarà anche una battaglia persa ma sento
che è necessaria, per la memoria di Leo, e per tutti
quelli che un giorno potrebbero essere cacciati senza colpa.
Santo Barezini
- primolevicenter.org.
- Ne “I sommersi e i salvati”, pubblicato da Einaudi nel 1986, Primo Levi analizza l'universo concentrazionario a partire dalla sua esperienza di prigioniero nel campo di sterminio di Auschwitz.
- Il caratteristico copricapo circolare indossato dagli ebrei maschi osservanti, obbligatoriamente nei luoghi di culto.
- Si veda in particolare: How Fascism Works, pubblicato anche in Italia nel 2018 col titolo Noi contro loro: come funziona il fascismo (Solferino, 2019).
- La cosiddetta campagna di Libia del 1911-1912 con cui l'Italia annesse la
Cirenaica e la Tripolitania.
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