Canzoni politiche e dirompenti
Vado trovando dove non c'è rumore
Mi sono fermato e mi sono messo a pensare un giorno mentre
me ne stavo andando in giro in Salento. Era quasi come ritrovarsi
a rigirare tra le dita una tesserina del puzzle sbagliato, una
di quelle che non sai dove incastrare: perché era proprio
strano per me, anzi più che strano direi improbabile,
ritrovare nell'Italia a sud di Lecce dei frammenti di me stesso
bambino, cresciuto come sono mille chilometri più a nord
fra la laguna e l'entroterra industriale veneziano. Ma già
un primo spaesamento l'avevo provato nell'avvicinare Anna Cinzia
Villani: non la conoscevo, e su suggerimento di un'amica mi
sono recato ad un suo concerto in un circolo dell'ARCI a Padova.
Entrato per dare un'occhiata durante le prove, mi sono ritrovato
a bocca aperta come sospeso tra sgomento e batticuore –
trent'anni di assenza cancellati, sembrava quasi ci fosse mia
madre a cantare nella stanza accanto.
Mi è difficile stare adesso qui a giustificare solo con
le suggestioni e con le capriole dell'anima quella certa familiarità
sottile con gli odori e i gusti che mi piace trattenere in bocca
e nel respiro. Nel Salento che mi pare di conoscere senza però
conoscerlo affatto, quel riscoprire tracce rimaste in testa
e quel riconoscere suoni mi danno una sensazione morbida, calda,
appagante. È come essere a casa, ecco, in un posto tranquillo
e sicuro. Mi ci ritrovo. Un fatto inspiegabile, me ne rendo
conto. Riflettendoci, i suoni che mi sono rimasti in testa potrebbero
essere ricordi della parlata dei miei piccoli compagni di quartiere
e dei loro genitori – tutte famiglie immigrate per il
lavoro negli stabilimenti di Porto Marghera. Così come
mi sono rimasti in testa gli odori di cucina che si riversavano
giù nei cortili dalle finestre aperte per finire a mescolarsi
nelle narici, e mi sono rimaste nelle orecchie “Bellu
è l'amore e ci lu sape fà” frase in musica
sentita da sempre, un po' come le strofe inneggianti alle glorie
del nooostro leooon e al sangue venessiàn che scorre
nelle vene delle impiraresse – canzone questa che mia
madre cantava spesso, per spirito di corpo mi viene da dire.
Nei cortili rimbalzavano giù dai primi secondi terzi
quarti piani lune rosse e barcaroli controcorente, voci casalinghe
di cantanti improvvisate prese a fare i mestieri mescolate alle
canzonissime che zampillavano dalle radioline tenute sempre
accese, come moderne candele votive – per fare compagnia.
Va però detto che ogni tanto quando si andava a trovare
i nonni saltavano fuori nei discorsi di famiglia le distinzioni
fra i paesani e “quei da zò”, quelli da giù
– appellativo comunque senza contorni ben precisi che
comprendeva origini poste in una qualsiasi delle terre oltre
la sponda opposta del Po, Cesena o Sicilia o Napoli che fosse.
Noi bambini avevamo in mente la carta geografica vista a scuola,
e percepivamo un senso vago di distanza geografica più
che di differenza, chissà quale odissea di autobus treno
e traghetti per arrivare ma si trattava pur sempre dei posti
da cui arrivavano le mamme dei miei amici e i mariti, i compagni
di lavoro di mio padre dei quali lui parlava con rispetto. Per
noi piccoli nord/sud era appunto un confine insensato, difficile
da comprendere soprattutto perché inconsistente e poco
utile – per dire erano più interessanti la caccia
grossa ai topi (da fare rigorosamente in segreto) e le sfide
con le biglie e con i tacchi sul marciapiede.
È stato bello crescere in un quartiere dove per giocare
con dei bambini appena arrivati non fosse necessario sapere
granché: selvatici per atteggiamento ma socievoli per
natura, ci si ritrovava in strada e a scuola si finiva seduti
vicini, un passo breve ancora e si arrivava a dividere e scambiarsi
la merenda. Il bello era l'aggiungere parole nuove al vocabolario,
così da stupire tutti a tavola a cena con un imprevisto
“mannaggia!” o addirittura con un temerario “minchia!”.
Parole così poco veneziane e così tanto fuori
posto da attirare occhiatacce d'avviso e, in caso di recidività,
sberle rieducative e promesse di processi sommari però
poi mai celebrati davanti al castigamatti appena fosse stato
di ritorno dal turno in fabbrica.
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Roberto Licci, Enza Pagliara, Dario Muci ed Emanuele Licci |
Secondo Alessio Lega, Dario non è un cantante, ma un
uomo che canta – una differenza importante. Dario Muci
l'ho incontrato per caso in una piazza estiva salentina non
ricordo dove, Lucia e io si era andati per una qualche sagra
e per assistere a tutt'altro concerto e invece siamo rimasti
ad ascoltarlo, sorpresi un po' da tutto e contenti di ritrovarci
sorpresi: dalla voce intanto, da come metteva insieme le canzoni
e da come le raccontava, non ultimo da una certa simpatia che
si irradiava da dietro quella sua chitarra. Abbiamo preso i
suoi dischi e l'abbiamo poi incontrato altre volte, l'ultima
nel settembre scorso a un suo concerto con Enza Pagliara, giusto
pochi giorni prima del nostro rientro. Due chiacchiere a fine
serata, e Dario mi faceva sapere di Suddissimo –
il progetto a cui stava lavorando assieme a un giro di musicisti
e compagni (tra cui Emanuele Licci e suo padre Roberto, entrambi
nel Canzoniere Grecanico Salentino) incentrato sul repertorio
diffuso e valorizzato da Matteo Salvatore. La cosa mi aveva
davvero colpito: sarà ancora una volta una coincidenza
suggestiva, ma il Lamento dei mendicanti era uno dei
pochissimi dischi di mio padre – trovo poco probabile
che lui l'avesse comperato, penso fosse piuttosto un regalo
fattogli da un qualche compagno di sindacato o di partito. In
casa lo si ascoltava poco: io ero uno sbarbo alle prese con
il primo ellepì dei Black Sabbath e quello era un disco
tremendo, un disco da cui non si poteva scappare.
“Io mi sento ricco, più ricco di Rocco Falò
[Rockefeller] quell'americano come cazzo si chiama, io
non lo so dire. Rocco Falò. Io sono più ricco
di lui. Ma qualcuno dirà: Matteo, tu chi sei? Io? Nessuno.
Vado trovando dove non c'è rumore”.
Ritaglio queste frasi da un documentario francese (Nelle
carni del cantastorie di Anne Alixe, 1992) piuttosto facile
da trovare in rete, perché è così che si
descriveva da sé Matteo Salvatore, cantastorie di Apricena
in provincia di Foggia. A questo suo schernirsi, a questo misurarsi
l'altezza a spanne sono propenso a credere, ma solo a metà
– secondo me lui più che giocarci rideva proprio
in faccia alla telecamera. Lui difficile da inquadrare, difficile
da addomesticare, difficile da afferrare. Riassumere in poche
righe la sua storia, storia che sembra fatta di pagine strappate
a romanzi, è impresa ardua – in rete si distingue
per correttezza una biografia breve su Canzoni Contro la Guerra
(raggiungibile al link www.antiwarsongs.org).
Figlio di un manovale comunista più volte arrestato durante
il fascismo, il piccolo Matteo attraversa un'infanzia nera di
miseria fame e ignoranza, poi l'incontro fortunato con un vecchio
violinista cieco che lo prende con sé e gli fa da maestro
insegnandogli a suonare la chitarra e le canzoni – quelle
tradizionali, alcune antichissime, ma soprattutto quelle napoletane
che venivano richieste dai fidanzati per le serenate a pagamento.
La mancanza di lavoro lo costringe ad abbandonare la Puglia
in cerca di fortuna, così finisce a vivere in una baracca
arrangiandosi a fare il posteggiatore nelle trattorie romane,
dove arriva ad esibirsi come canzonettista mescolando stornelli
al repertorio tradizionale. Qui viene notato da Claudio Villa
che lo convince a concentrarsi sulle canzoni della sua terra,
cantate in dialetto: la grande parte delle canzoni di Matteo
Salvatore racconta l'Italia meridionale del dopoguerra, la gente
povera, il lavoro duro e la fame. E poi i dischi e il successo,
il Folkstudio e il Cantagiro, apparizioni in televisione e concerti
nelle ville dei ricchi. La storia però finisce male:
un brutto giorno Matteo viene accusato di omicidio, il carcere,
una vita rovinata. Direi di interrompere qui.
Suddissimo è frutto di studio e ricerca, ma anche
di curiosità e passione. È reinterpretazione fatta
con grande rispetto, ma anche canto consapevole di oggi che
non si guarda indietro con nostalgia. Il lavoro di Dario Muci
e compagni è un omaggio singolare all'opera di Salvatore:
la scelta delle canzoni si concentra nel periodo fra il 1967
e la prima metà degli anni Settanta, senz'altro un periodo
storico di grande interesse intorno alle riproposizioni di canti
tradizionali e d'ispirazione popolare. La scelta dei pezzi comprende
parecchi estratti dal Lamento dei mendicanti, probabilmente
la sua raccolta più esplicitamente politica e dirompente,
e alcune composizioni successive come “Lu soprastante”
(presentata al Cantagiro nel 1969, fu oggetto di ripetute e
feroci contestazioni giovanili) o “Lu bene mio”
(riproposta in tempi recenti da Teresa De Sio e Vinicio Capossela,
tra i tanti).
Il cd è davvero molto ben realizzato e prodotto, e riesce
ad accendere attenzione sul non tanto “personaggio”
quanto sull'uomo che fu Matteo Salvatore. Un poeta analfabeta
di versi intesi come scalpellate precise al cuore roccioso della
canzone, versi che riescono a piegare il tempo adattandone la
curva alla circolarità della storia – una per tutte:
“Padrone mio” ieri era la preghiera dei braccianti
agricoli per non perdere il lavoro, oggi è la maledizione
che sgorga dalle labbra del migrante africano ingaggiato a giornata
per due soldi a raccogliere i pomodori che finiscono sulla nostra
tavola.
A chi volesse saperne di più suggerisco la biografia
L'ultimo cantastorie scritta da Beppe Lopez e La luna
gira il mondo e voi dormite libro e cd curati da Angelo
Cavallo per Stampa Alternativa.
Contatti: Nauna Cantieri Musicali, via G. Marconi 53 73016 San
Cesario di Lecce LE, e-mail naunacm@gmail.com.
Jugo-rock
Quando quasi nessuno ricorda ormai più la guerra combattuta
nel paese appena più a est di noi nella cartina geografica
dell'Europa, ecco un libro che gratta via la crosta. Si chiama
Jugo-rock (Infinito Edizioni, www.infinitoedizioni.it)
e mostra in copertina quella che sembra una chitarra elettrica
economica appoggiata sulla bandiera della repubblica socialista
federale jugoslava.
Quando ho aperto il pacchetto dentro di me speravo fortissimamente
non si trattasse di un'enciclopedia tascabile del rock balcanico,
e meno male che ho sperato bene: alle bande jugoslave sono dedicate
solo poche pagine finali, il resto è un romanzo ma questa
è un'etichetta grossolana che va bene solo per sistemarlo
meglio sugli scaffali. Arrigo Bernardi racconta la storia di
un ragazzo croato di diciott'anni perso fra punk birra e scazzottate:
il problema è che Predag si ritrova in età di
leva militare ed è l'estate del 1990. Il problema numero
due è che la guerra lo inghiotte: violenze, furti, uccisioni,
stupri inghiottiti per forza assieme a vino istriano e rakija.
Il problema numero tre è che il libro è scritto
proprio bene, e che si fa fatica a mollarlo nonostante inneschi
un certo malessere e metta addosso ansia. Il libro dura un centinaio
di pagine e lo si finisce in una sera, ma la storia ti rimane
dentro ad agitarsi e ci mette un po' a smettere di sbattere
la testa e affondare le unghie.
C'è una colonna sonora caotica fatta di gruppi locali
come Borghesia, Idoli, UBR, Pankrti, Elektrini Orgazam e Laibach
(tutta gente che avevo conosciuto e sentito, qualcuno anche
incontrato, ai tempi di Rockgarage), e nomi inglesi e americani
che abitavano stabilmente nel mio walkman di ventenne. Ogni
tanto anche adesso che ho il libro qui davanti sembra di sentire
attraverso il soffitto gli aerei americani partiti dalla base
militare di Aviano e diretti a sudest: volavano bassi e carichi,
rumore come nei film con l'aria dietro che urlava e sembrava
oscurarsi.
Contatti: in rete sul blog La Frontera raggiungibile al link
https://arrigoxxx.wordpress.com.
Marco Pandin
stella_nera@tin.it
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