società
Paure, ideologie, inganni della mente
di Giacomo Ajmone
Un neurologo, ex primario all'ospedale di Lodi, analizza i meccanismi dell'acquiescenza al potere da un punto di vista cerebrale e sociale. Paura e terrore sono alla base del consenso generalizzato.
La fase storica che stiamo attraversando, flagellata in questi ultimi mesi da una mortifera pandemia, fa affiorare alla coscienza paure e terrori che, limitando la capacità di giudizio, sono in grado di far precipitare l'io in stadi mentali prelogici, predisponendolo all'affrancamento di poteri forti.
Evocato dalla paura si attiva un meccanismo emergenziale mediato dalle aree più arcaiche del nostro cervello per la preservazione dell'io, una specie di grilletto che fa sì che la percezione della paura sia molto più rapida di qualsiasi elaborazione mentale. Presupposto questo per il mantenimento di una condizione d'insicurezza e fragilità psichica che sfugge al controllo della ragione e possibile strumento di trame autoritarie in nome della salvaguardia della salute.
Questo drammatico evento si apre su uno scenario già da tempo desertificato da passioni civili dove il declino delle ideologie politiche e culturali del secolo scorso ha trasformato certezze in smarrimenti. Il tramonto di ideali collettivi ha lasciato il posto all'individualismo e al liberismo finanziario, unica ideologia ad appannaggio della classe dominante. Si accetta che i limiti siano invalicabili e ci si rassegna alla provvisorietà e allo status quo. Se da una parte c'è acquiescenza di fronte a promesse di cambiamento disattese, dall'altra il fascino delle ideologie ha lasciato sul terreno macerie di materiali umani, culturali e psicologici.
È anche presumibile che nuove ideologie porteranno a conclusioni non differenti, in quanto l'approccio storico e culturale sulle ideologie non ha mai affrontato in modo esaustivo le complessità, le contraddizioni psicologiche insite in esse. Contraddizioni che agitano la coscienza in gran parte controllata da strutture cerebrali filogeneticamente più antiche e primitive.
Eccesso di devozione nei confronti delle istituzioni
È noto che Sigmund Freud abbia proposto il principio
che “l'uomo è in gran parte dominato da pensieri
dei quali non è consapevole e in perenne conflitto per
il sottomettersi a diversi padroni che si agitano nella sua
mente. L'io si sente a disagio, incontra limiti al proprio potere
nella sua stessa casa, nella psiche. Questi ospiti stranieri
sembrano addirittura più potenti dei pensieri sottomessi
all'io e tengono testa ai mezzi di cui dispone la volontà.”
L'uomo quindi non è “padrone in casa propria”,
ma deve sempre confrontarsi con quella parte sommersa della
sua coscienza istintuale più ampia e inconscia.
Penetrare
nella profondità del nostro io là dove si annida
il serpente pronto a far prevalere la spinta irrazionale è
uno scavo archeologico negli anfratti della psiche, è
un'impresa coraggiosa che affonda le sue radici nella mitologia
greca, dove i miti esprimono la metafora del tentativo di arrivare
all'invisibile, cioè alla conoscenza di sé. Conoscenza
che è anche il prodotto che si è venuto a creare
dopo un lungo percorso dell'evoluzione della specie dall'uomo
sapiens sapiens all'uomo attuale delle esplorazioni spaziali.
Benché la ricerca scientifica sino a ora non ci abbia
fornito molte certezze sul probabile funzionamento del cervello,
alla comprensione di questo ci supportano le neuroscienze con
l'ipotesi sulla costituzione filogenetica del cervello e con
la teoria di Paul D. MacLean. Secondo questo autore il cervello
si sarebbe evoluto gradualmente aggiungendo a una struttura
di base successive sovrapposizioni, espressioni di ulteriori
tappe evolutive. Così come negli scavi archeologici si
portano alla luce resti di culture sovrapposte sempre più
progredite, il cervello sarebbe lo sviluppo ultimo della connessione
di tre cervelli disposti nel tempo l'uno sull'altro in momenti
successivi.
Il più antico, deputato alla sopravvivenza alla lotta
e all'autoprotezione, è il cervello rettiliano, in riferimento
all'unico cervello di cui dispongono i rettili. A questi si
sovrappone il cervello limbico, sede dei meccanismi emozionali
o cervello istintivo, e infine il più recente, il cervello
corticale per l'elaborazione dei processi cognitivi. Questi
tre cervelli, strutturalmente differenti seppur connessi, avrebbero
la capacità di funzionare autonomamente diversificandosi
a seconda delle situazioni e dei comportamenti richiesti senza
un predominio dispotico di uno dei tre, ma di una cooperazione
tra loro. Ne consegue una concezione diversa da quella usuale
o “platonica” che vede le strutture gerarchicamente
superiori a inibire i comportamenti primitivi e animaleschi
del cervello rettiliano o quelli ciecamente emotivi del cervello
limbico; al contrario si concepisce un cervello tripartito che
interviene in qualsiasi comportamento in un intreccio di programmi
con i cervelli più antichi. Una collaborazione dove ordine
e disordine, regolarità e caos convivono in “un
disequilibrio controllato” (Guido G. Guidotti 1990).
L'evoluzione richiede variabilità e flessibilità
per il suo esplicarsi. Tuttavia quando queste oscillazioni escono
per eccesso di caos da determinati parametri omeostatici, il
cervello si scompensa, perde coordinamento e connettività
mettendo in atto comportamenti arcaici. Da qui l'irrazionalità
del comportamento umano, la violenza contro la sua stessa specie,
l'eccesso di devozione nei confronti delle istituzioni, il riempire
il proprio mondo interiore di divinità laiche e religiose.
Nel cervello è come se ci fosse una continua fluidità
di pulsioni istintive e attività riflessive della coscienza,
in continua armonia e conflitto con le sue parti. Non si è
mai sicuri di credere di poter agire con piena autonomia. Come
l'incidenza dell'inconscio nelle rivelazioni oniriche dove la
problematica cosciente viene delegata e svelata dal sogno. Ne
sono testimonianza le intuizioni percepite nel sonno. Ma anche
la dipendenza dai legami nascosti nell'albero genealogico di
cui portiamo un consistente fardello di codici di comportamento
che ci accompagnano sin dalla nascita. Un bagaglio genetico,
come già Darwin e altri studiosi avevano riconosciuto.
Insomma siamo in parte prigionieri della ragnatela del nostro
cervello, largamente eterodiretti dal conscio, dall'inconscio,
da circostanze ambientali a volte in una navigazione a vista,
a volte in una lotta disputata come su un ring. Però,
anche se l'incidenza di queste componenti ci rende meno liberi,
questi stessi ci arricchiscono e ci fanno più guardinghi
e meno indifesi, perché alla fine siamo condannati a
essere liberi di scegliere.
Un sistema raffinato di controllo
Alla luce di queste considerazioni si può comprendere come l'ideologia sia un grande inganno culturale, una rigidità del pensiero, un'illusione che oscura il reale. Non solo quindi “un organizzazione politico sociale, ma anche un'organizzazione dei nostri istinti” (Wilhelm Reich 1966). Infatti mentre il fascismo si baserebbe su una liberazione incontrollata degli istinti, un'effettiva disgregazione del Super io, “lo stalinismo invece si baserebbe sulla rimozione di quegli impulsi, sul potenziamento di quello stesso Super io” (Rudolph Loewenstein 1952), in un'inflessibile religione che mette l'ideologia al di sopra dell'uomo, in una progressiva involuzione della vita affettiva, sociale e culturale.
Una costruzione utopica dottrinaria e messianica nella pretesa di trasformare una fiaba in realtà, una fiaba creduta sino in fondo per poi scoprire che sotto le coperte non c'è la nonna, ma c'è il lupo. Una religione laica che a fronte della mostruosa coerenza asociale del nazifascismo impone un dogma incontestabile, un controllo totalizzante e sottilmente perverso che fa sì che il controllato diventi il controllore di se stesso. Una religione senza vie d'uscita. Infatti se il cattolico può calpestare la sua fede perché, pentendosi, Dio lo perdona, il marxista va fino in fondo se no perde la propria identità.
Non di meno l'ideologia del capitalismo, tratta originariamente dall'etica protestante, utilizza oggi in tempi di tardo capitalismo neoliberista sofisticati “autoinganni culturali per convincere le classi subalterne delle buone ragioni di dominio e di sfruttamento” (Ivano Lanzini). Sedimenta nell'inconscio collettivo la convinzione che le sue scelte e i suoi desideri siano autonomi e non imposti. Suggerisce in modo occulto con i suoi mezzi di comunicazione quali siano i bisogni che devono essere condivisi: bisogni prevalentemente primari come il benessere fisico e il divertimento, in un edonismo infantilizzante dove esiguo è lo spazio concesso alla salute mentale e all'accrescimento culturale, ma ampio quello alla disinformazione.
Un sistema raffinato di controllo senza apparente coercizione in cui le nostre scelte vengono percepite come nostre, ma in realtà sono mutuate dal potere, tanto che oggi ci si illude di esercitare un'opposizione autentica, ma in realtà più attenta agli aspetti simbolici della protesta che ai risultati concreti.
Un'opposizione di maniera dove a fronte di quanto esibiamo e professiamo, con la soddisfazione dei bisogni scambiati per libertà, paradossalmente agiamo più per la conservazione che per il cambiamento. Nello stesso tempo siamo liberi di contestare credendo di mantenerne un distacco, ma senza renderci conto della concreta possibilità d'identificarci con esso. Testimone ne è la storia recente che ha visto schiere di antagonisti irregimentarsi sotto la bandiera dell'establishment.
Rendersi amica la tigre
Un cenno infine al pensiero anarchico, un'anomalia culturale non assimilabile a una costruzione ideologica, ma a una teoria comunitaria basata su una cooperazione volontaria di individui e non sulla coercizione: “Una teoria, una pratica della libertà, dell'uguaglianza e delle diversità (Luciano Lanza)”. Va dato atto all'anarchismo di aver fatto la critica più radicale al concetto di autorità e del potere.
Valga l'originale ipotesi sull'origine del potere di Amedeo Bertolo che, escludendo l'intervento di meccanismi biopsichici innati, suppone che “il dominio si sia presentato a un certo punto della vicenda umana come una mutazione culturale vantaggiosa in termini di sopravvivenza”. Il problema tuttavia rimane aperto, manca un ulteriore approfondimento scientifico. Non si può escludere che anche in un'organizzazione anarchica possa ripresentarsi il potere. “Come possiamo essere sicuri che la rivolta contro il potere non lo riprodurrà semplicemente solo sotto un'altra forma e come si potranno contrastare i nostri celati desideri di dominio?” (Saul Newman).
Anche la teoria più libertaria possibile, come quella anarchica, non si sottrae a questa contraddizione. Si crede infatti di poter agire in piena coscienza e libertà, ma dietro questa convinzione si cela la parte occulta dei nostri desideri, in una parola l'altro di cui l'irrazionale è la manifestazione. “L'io vuole sempre ciò che l'altro detta” (Ivano Lanzini). Non si è mai quello che si crede di essere. Ogni individuo in profondità è molto spesso l'opposto di quel che crede o vuol far credere di essere.
Ogni ideologia è una costruzione astratta e alienata dalla materialità e dalla dimensione corporea. Si sa che Hegel ebbe a dire provocatoriamente che se le idee non concordano con i fatti, tanto peggio per i fatti. Porsi infatti obiettivi di trasformazione del mondo esterno senza un'introspezione dei nostri labirinti mentali è una delle utopie più dure a morire. Sarà però un percorso obbligato indispensabile “se non vogliamo tornare all'uomo delle caverne, dobbiamo scoprire l'uomo nelle caverne della nostra mente” (Olivier Clement).
Dobbiamo giocoforza convivere con l'altro, l'irrazionale che copre e travisa ciò che vorremo sapere di noi, in una lotta incessante per far prevalere la nostra razionalità. Tuttavia secondo Luigi Valzelli e MacLean il nostro cervello è in grado di mantenere un equilibrio agendo come un sistema omeostatico in un complicato intreccio di programmi. Nella storia dell'evoluzione della specie infatti la biologia non fa errori e non è probabile che una minoranza di cellule nervose rettiliane abbiano soverchiato miliardi di cellule nervose più evolute.
Ognuno di noi, racconta una storia cinese, ogni notte va a dormire con una tigre accanto. Tu non puoi saper se questa al risveglio vorrà leccarti o sbranarti. Con questa metafora si vuol ricordare “la relazione che ciascuno di noi ha con i propri limiti. Solo cercando di migliorarci costantemente possiamo renderci amica la tigre, in quanto nessuno può evitare la peggiore e più pericolosa delle compagnie, quella di noi stessi” (Giorgio Nardone).
Giacomo Ajmone
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