Rivista Anarchica Online


scuola

Uscite pericolose

di Nicolò Budini Gattai

Uscire dalle mura scolastiche, riappropriarsi del territorio, esplorare città e campagna. Ma ce la faranno la scuola, gli insegnanti, le altre persone coinvolte? Lo vogliono davvero? Alcune esperienze storiche. E le riflessioni di Colin Ward.


Quando ho avuto modo di condurre laboratori didattici per (futuri) insegnanti ho proposto spesso attività all'aperto: l'esplorazione di un'area naturale protetta della Piana pistoiese, l'osservazione del paesaggio dalle colline di Fiesole, una caccia al tesoro lungo il corso dell'Arno o nel centro di Firenze alla ricerca delle tracce storiche e culturali presenti nel territorio. Il dubbio che viene a qualche partecipante è quanto sia praticabile, una volta entrati o tornati nella scuola, proporre una didattica all'aperto, come gestire classi di venticinque o più alunni tra i pericoli del traffico, la folla e il carico di responsabilità che l'insegnante si deve assumere.
Nel dibattito ai tempi del Covid-19 sulla riapertura della scuola è uscita l'idea di utilizzare maggiormente gli spazi esterni all'aula: il giardino, il territorio circostante, il quartiere. Così, da un momento all'altro si è passati dal dire che le uscite dalla scuola sono da limitare perché pericolose all'invito a organizzare più uscite didattiche perché stare a scuola tutti insieme è pericoloso. Mi chiedo se questa sia una presa in giro o un'opportunità per affermare un po' di quella scuola che più ci piace.

L'educazione incidentale

Riprendo in mano il libro di Colin Ward, L'educazione incidentale (Elèuthera, 2018). L'autore scrive «[...] la città è in se stessa un ambiente educativo. E possiamo usarla come tale se impariamo a maneggiarla, controllarla o modificarla» (p. 96). Ma così come non si è avuto il tempo di formare adeguatamente il personale docente sulla didattica a distanza, si riuscirà a formarlo a utilizzare ciò che la città, il bosco, il mare, il parco possono offrire alla crescita degli alunni e delle alunne? Eppure sarebbe una formazione quanto mai utile poiché, per esempio, attraverso il movimento «[...] si sviluppano le nostre relazioni emozionali con gli spazi vissuti, attivando interazioni culturali che trasformano la nostra percezione del paesaggio e il senso del luogo» (C. Giorda, in «Ambiente Società Territorio», I, 2016, p. 33).
Se ci fosse davvero questa volontà politica, riusciranno i docenti più cauti ad assumersi il rischio per ogni singola eventualità? E il Ministero a garantire l'impiego di più personale, anche non docente, per consentire una maggior libertà di movimento dei ragazzi e delle ragazze nell'esplorazione del territorio?
Ward racconta che nel 1972 uscì in Inghilterra una guida ufficiale per gli insegnanti scritta dal Geography Committee of the School Council per fornire buone norme da seguire durante le attività fuori dalla scuola, nella convinzione di fondo degli autori «[...] che l'educazione all'esterno delle mura scolastiche sia di importanza vitale [...]». Nella guida si suggerisce che nelle aree urbane la disposizione più sicura per far attraversare le strade sia quella della fila per due. «[...] E probabilmente hanno ragione. Il dramma è che questo è a mio avviso il metodo più efficace per impedire alla gita di avere una qualche valenza educativa» (Ward, pp. 84 e 85). Tra le difficoltà a sviluppare una didattica extrascolastica vi è certo il numero di alunni che possono stare sotto la responsabilità dell'insegnante. Il numero ideale per ogni adulto (non necessariamente un insegnate abilitato) dovrebbe essere di sei-otto minori. In certi casi potrebbero formarsi gruppi di due o tre muniti di telecamere, registratori e blocchi per gli appunti (p. 86).
Il maestro Bruno Ciari nel capitolo dedicato alla ricerca scientifica sostiene che nella scuola primaria «[...] si debbono compiere il maggior numero di esperienze, indagini, esperimenti diretti, effettuati nell'aula e fuori. In sostanza si tratta di partire dallo studio d'ambiente, e di portar l'ambiente nella scuola» (Le nuove tecniche didattiche, Ed. Dell'Asino, Roma 2012, p. 157). Da una visita in un'azienda vinicola, dopo che i gruppi di bambini e bambine hanno preparato i cartelloni o una monografia abbellita dalle foto scattate da loro per presentare alla classe la propria ricerca, può nascere la curiosità sulla fermentazione e sui microrganismi che producono utili trasformazioni per l'essere umano. Dalla trasformazione degli zuccheri in alcool si prenderà coscienza del mondo delle molecole e degli atomi. «[...] il ricorso al libro non deve costituire un semplice apprendimento passivo di notizie. Questo non succede quando si parte da un'indagine diretta, dalla quale son venuti fuori problemi, domande: la risposta del libro, allora, serve per dare una spiegazione a un fenomeno, per connettere due fatti, per far luce su una causa [...]» (Ciari, p. 183).

Didattica esperienziale?

Negli anni Settanta a Liverpool nacque la Scotland Road Free School, frequentata da quarantasei ragazzi e ragazze tra gli 11 e i 14 anni alla scoperta di ciò che sta dentro e intorno alla città, accompagnati da cinque insegnanti e cinque tirocinanti. Oltre al fatto del rapporto tra adulti e ragazzi che consente di formare gruppi più piccoli e coinvolgerli di più, la cosa che Colin Ward sottolinea è la libertà conseguente alla scarsità di mezzi a disposizione della scuola e alla sua indipendenza dal sistema ufficiale. Ciò ha reso possibile portare le classi a fare esperienza diretta di una manifestazione di disoccupati o di un'occupazione di una fabbrica. La frequenza di questi ragazzi e di queste ragazze era notevolmente aumentata rispetto a quando frequentavano la scuola normale. «[...] La realtà fattuale della vita in fabbrica non avrebbe potuto essere appresa in modo più rapido, diretto e coinvolgente se si fossero utilizzati altri approcci [...]» (Ward, p. 87).
Ma non credo che la Ministra approvi un tale approccio, nonostante la viceministra Anna Ascani abbia invitato a una «didattica esperenziale di ispirazione montessoriana»: più sport, arte e creazioni digitali da svolgersi in momenti alternati alle lezioni in aula. Anche Rosa Maria Di Giorgi, componente PD della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera ha dichiarato: «[...] Per garantire il distanziamento sociale si può fare ricorso a luoghi pubblici o privati, come palestre, oratori, conventi, centri congressi o anche sale negli alberghi [...]» (I. Zuliani, Centri estivi e attività all'aperto come test per il ritorno a scuola, in «Corriere fiorentino» 22/04/2020).
Certo, non è la direzione verso una scuola all'aperto, tantomeno in ottica libertaria com'era quella del Parkway Education Program, nato nel 1969 a Philadelphia. Composto da ragazzi e ragazze tra i 14 e i 18 anni estratti a sorte tra i candidati degli otto distretti scolastici cittadini, a prescindere dal successo scolastico o dalla condotta. Ciascuno degli otto gruppi doveva fissare la propria sede in uno dei numerosi spazi della comunità. L'insegnamento veniva impartito nella comunità stessa: nelle stanze nell'Art Museum, nei laboratori di biologia allo zoo, corsi di giornalismo in una vera redazione o di meccanica nelle officine (Ward, p. 97). La città offre infinite opportunità di apprendimento, così come un bosco, un prato, gli scogli del mare.
Come già aveva scritto Alexander Neill nel racconto dell'esperienza di Summerhill, il rischio per noi è che i muri delle scuole (sommati a quelli domestici, entro i quali potrebbe svolgersi parte della didattica futura!) «[...] restringano l'apertura mentale degli insegnanti e impediscano di vedere gli elementi essenziali dell'educazione. Il loro lavoro prende in considerazione solo la parte del bambino che sta al di sopra del collo; e necessariamente, la parte vitale del bambino, quella emotiva, rimane per costoro territorio straniero» (I ragazzi felici di Summerhill, Red!, 2012, pp. 50-51).
Avremmo una grande opportunità di liberarci dall'oppressione della scuola-fabbrica organizzata non in funzione dei bambini, ma sul tempo rigido scandito dal suono disarmonico della campanella, in cui si privilegia la posizione seduta, il silenzio e la ripetizione di contenuti dati a scapito della necessità di muoversi, della libertà di scelta, della discussione mossa dalla curiosità e dal piacere di vivere in una comunità, in cui si giudica il rendimento e il comportamento invece di valorizzare le diverse personalità e le naturali inclinazioni di ciascuna persona.

Nicolò Budini Gattai