Rivista Anarchica Online


anarchismo e pandemia

Non solo critica

di Giorgio Fontana

Riflessioni, critiche e stimoli a partire dalla lettura dello scorso numero della rivista. Per andare al di là di affermazioni generiche e cercare di confrontarsi con la realtà della pandemia. Perché l'anarchismo non sia e non sembri una sola affermazione di opinioni, ma sia un insieme multiforme di proposte e di pratiche. Ancorate alla scienza.


Ho letto con calma e cura gli articoli del dossier sulla Covid-19 dell'ultimo numero di “A”. Sono d'accordo su molte cose e sull'atteggiamento di fondo: discutiamo criticamente e non lasciamoci annebbiare la vista da posizioni parziali. Occorre innanzitutto valutare il costo enorme che la strategia di lockdown sta avendo, e avrà, verso le fasce più deboli; non solo dal punto di vista economico ma dal punto di vista umano, sociale e psicologico. E tale valutazione è proprio quanto manca nel discorso quotidiano: quindi ben venga ogni parola che cerchi di ampliare la tavolozza dei colori a disposizione per riflettere.
Ciò detto, leggevo e rileggevo e una domanda non se ne andava: Come si potrebbe comportare, nei fatti, una società libertaria alle prese con il coronavirus? Qual sarebbe un'alternativa concreta da proporre?
Mi pare che l'elemento di sola critica allo stato di cose, per quanto indispensabile, sia anche insufficiente – e anzi, potrebbe essere uno degli aspetti che respinge le persone fuori dalla bolla: agli anarchici “non va mai bene niente”. Questo, beninteso, è anche un valore; lo sa il cielo quanto la politica abbia abituato le persone al compromesso al ribasso, e il fatto che un libertario non si accontenti è ammirevole. Ma c'è il rischio di perdere un po' la presa sul “qui e ora”, con tutto il suo carico di infinite (e fastidiose) contraddizioni.
Qualcosa di concreto
Dunque: come gestirebbe l'emergenza, nel concreto, una società libertaria? Prego innanzitutto di non mettere il carro davanti ai buoi e dire che tale società non sfrutterebbe la natura e dunque non avrebbe a che fare con pandemie, o che la domanda è da rimandare al futuro.
Il tema è difficile, ma può anche essere un esercizio d'immaginazione utilissimo. In primo luogo, credo che tale società dovrebbe rimettersi alla scienza non quale “dittatura”, ma quale prassi razionale fondata sulla prova e l'errore, sulla falsificabilità e il controllo, in un quadro metodologico riconosciuto. Riconoscendo con ciò che la scienza non offre certezze da implementare al volo: come scriveva Paolo Giordano in un editoriale sul “Corriere della sera” del 20 maggio 2020, “gli scienziati hanno riportato il dubbio al centro del discorso, hanno cercato di rispondere alle domande senza ricorrere a slogan, piuttosto con altre domande, e hanno riscoperto per noi la categoria proibita del non-sapere.”
Ma Giordano puntualizzava: “Se di qualcosa vanno rimproverati gli scienziati non è certo di non-sapere o di trovarsi in disaccordo, semmai del contrario: di non essere stati abbastanza inflessibili, a volte, nel difendere il confine tra sapere e non-sapere.” E ancora: “Il fatto stesso che l'esposizione dei dati sia stata affidata a un organo non scientifico come la Protezione civile dice molto. Così come dice molto l'impalpabilità del Comitato Tecnico Scientifico, mai portato a spiegare in maniera esaustiva e diretta ai cittadini la solidità delle ragioni dietro questa o quella norma, anche quando le norme – distanziare di tot i tavoli dei ristoranti, non aprire le scuole fino a settembre, sanificare i vestiti nei camerini – hanno ripercussioni gravissime sulle nostre vite.”
Il punto dolente sta proprio nella relazione fra scienza e politica, o meglio nell'uso che la politica ha fatto della scienza medica. Non solo il governo ha adottato misure ispirate a un modello previsionale di dubbia efficacia (ne parlano ad esempio Luca Scorrano, Francesco Cecconi e Guido Silvestri su un giornale tutt'altro che radicale come “il Sole 24 ore” del 17 maggio 2020); ma i resoconti della Protezione civile sono sempre stati fondati su dati parziali, senza criteri precisi, ignorando anche la diversa distribuzione del contagio sulla superficie del Paese. Presunte certezze sbandierate, paternalismo e repressione in luogo di cautela, inclusione e spiegazioni chiare. Si è così creato – dopo i primi giorni di oscillazione emotiva – un clima da panico che avrà certo contribuito a chiudere in casa le persone, ma che ha anche frantumato la complessità del discorso.

La complessità non è un alibi

Tuttavia la “complessità” non è un alibi per ascoltare indiscriminatamente ogni opinione: il peggio sarebbe seguire un sedicente esperto solo perché le sue idee meglio s'accordano con una visione libertaria. Su questo è stato cristallino Malatesta: “Secondo noi hanno torto quei compagni che prendon partito per un dato sistema terapeutico solo perché l'inventore professa, più o meno sinceramente, idee anarchiche e si dà l'aria del ribelle e tuona contro «la scienza ufficiale». Noi, al contrario, ci mettiamo subito in guardia se vediamo che uno vuole avvalersi delle sue idee politiche per far accettare le sue idee scientifiche e ne fa una questione di partito.” (Medicina e anarchismo, “Pensiero e volontà”, 1/3/1924; interessante anche la precisazione del 1 maggio successivo).
Ora, le prassi di distanziamento fisico e igiene delle mani sono riconosciute dalla stragrande maggioranza degli scienziati come efficaci per contrastare la diffusione del coronavirus. Un punto di partenza è accettare autonomamente tali prassi perché più sicure per sé e soprattutto per gli altri; limitare la propria libertà di spostamento e aggregazione in forma temporanea.
Ma una società migliore dovrebbe anche evitare di cedere al panico e fornire informazioni chiare sui luoghi in cui si sviluppano i focolai, sui modi in cui esso il virus si diffonde, sul tempo necessario per infettarsi – coltivando la responsabilità invece della dinamica punitiva. E dovrebbe studiare dei modi per contenere l'epidemia garantendo al contempo sostegno per chi, in questo momento, si trova in difficoltà. Non quindi uno “Stare a casa” individualista o familista – mentre altri, come coloro che hanno portato il cibo nei supermercati, a casa non possono stare. Perché il distanziamento, benché fondamentale, se assunto acriticamente risolve solo il lato sanitario del problema; mentre dovrebbe essere parte di uno spettro di doveri più ampio, un campo di solidarietà che si allarga proprio nella misura in cui ci siamo allontanati l'un l'altro come corpi.
Ora, è ovvio che la strategia messa in campo dallo Stato non coltiva affatto questo tipo di “società migliore”, innanzitutto perché segnata da discriminazioni di classe e opportunismi vari: operai che non hanno mai smesso di lavorare durante il lockdown senza garanzie né controlli; detenuti e senzatetto abbandonati a se stessi; nessun taglio alle spese militari. Il tutto senza un vero piano di tracciamento dei contagi, lasciando sostanzialmente la palla ai cittadini ma coprendoli di minacce.
È ovvio inoltre che l'attenzione dei media verso le piccole violazioni della norma (penso alla violenza poliziesca sui ragazzi di Milano il 25 aprile che, a debita distanza e con mascherine, andavano a omaggiare i partigiani) copre le enormi e criminose responsabilità della gestione sanitaria in Lombardia – giusto per fare un esempio a me vicino. Ed è infine ovvio che la minaccia del virus è l'ultimo pezzo di una lunghissima storia di sfruttamento dell'uomo sull'uomo e sul pianeta.
Ma tutto ciò non cambia la necessità di alternative praticabili a questo modo di operare, su cui confrontarsi a mente sgombra.

Più cautela

Aggiungo: con un poco meno di assertività e un poco più di cautela, anche lessicale. Il momento che stiamo vivendo è intricato e tragico, e penso sia giusto riconoscerne la tragicità anche nello stile del discorso: non esistono ricette facili per uscirne. Per questo le astrazioni di ampia portata possono sortire un effetto negativo: hanno un'aura di solennità che a volte chiude il dibattito – anche mettendo tutti d'accordo – invece di alimentarlo.
In un articolo, lo scrittore e combattente dell'YPG Davide Grasso suggeriva: “Proprio per tenere d'occhio con attenzione le mosse dello stato, sempre pericolose, a poco serve gettare subito ogni provvedimento in una notte in cui tutti i decreti sono stati di eccezione, rischiando di aumentare la sfiducia o l'indifferenza che le persone hanno maturato verso le filosofie radicali. [...] Dovremmo riabituarci a fornire qualcosa di concreto a coloro cui rivolgiamo un'interpretazione dei fatti: le grandi costruzioni ideologiche, dovremmo averlo imparato, perdono mordente se non sono in grado di impigliarsi nella realtà.” (http://www.minimaetmoralia.it/wp/agamben-coronavirus-lo-eccezione/). Mi sembra un consiglio equilibrato e ancora una volta orientato alla concretezza.
Questo senza negare che il rischio esista: non tanto di un cosciente piano di controllo autoritario, credo, quanto di una più generica facilitazione nel comprimere le libertà personali. In ciò il federalismo disorganizzato e litigioso – l'esempio della Lombardia ancora una volta è illuminante – può solo portare acqua a un rinnovato centralismo. Insomma: l'emergenza tende a essere cavalcata con leggi emergenziali poi regolarmente implementate, “situazioni emergenziali” che non hanno nulla di provvisorio e così via. Ripeto, è vero e occorre tenere le antenne alzate. Ma attribuire una volontà specifica dietro tutto ciò che fa il governo forse è esagerarne l'intelligenza manipolatoria, e può precipitarci in una visione tanto pessimistica da blindare molte chance di resistenza. Anche questo è un rischio.

Risposte praticabili e oneste

Concludendo: per quanto l'esercizio della critica sia essenziale, ammetto che mi piacerebbe leggere e ascoltare più domande del tipo: “Come creare forme di sostegno autogestito non solo economico ma anche emotivo per chi è in difficoltà?”; “Come funzionerebbe un ospedale anarchico?”; “Se trovassimo un vaccino per il coronavirus, che fare con chi non si vuole vaccinare?”; “Come organizzare un condominio o un quartiere per far fronte a una minaccia sanitaria?”. Insomma, tutti gli aspetti che occorre affrontare nella militanza e nelle contraddizioni di ogni giorno, e dove molti hanno un'esperienza preziosissima che meriterebbe di essere raccontata, anche per chiarirsi vicendevolmente le idee sul da farsi. Come abbiamo gestito in pratica la situazione? Che tipo di “distanziamento critico” abbiamo adottato? Quali forme di mutuo supporto abbiamo messo in campo?
Di spunti simili ce ne sono sempre stati, su “A” e nelle chiacchierate informali: ma forse sarebbe utile averne ancora di più, e di tipologie sempre più varie. Perché se vogliamo diffondere efficacemente una cultura libertaria – come ha scritto con parole accorate Carlotta Pedrazzini – a mio avviso occorre un ulteriore sforzo di concretezza nella pars construens.

Giorgio Fontana