anarchismo
Il tempo sospeso
di Maria Matteo
Considerazioni personali e sociali, scelte di vita e percorsi di lotta, in quest'epoca di profondi cambiamenti.
Ho sempre amato il tempo sospeso, quello dell'attesa, dell'intervallo vuoto di impegni, lo spazio-tempo che separa il prima dal dopo, il partire dall'arrivare.
Mi piacciono le panchine delle stazioni, il passaggio dei treni, le fermate degli autobus, persino le aree di sosta sull'autostrada. Mi è capitato di apprezzare persino una coda dal medico o alle poste.
I più lo considerano tempo rubato alla vita, sgomitano per passare avanti, camminano nervosamente, fumano, mangiano, attaccano bottone, per “riempire il tempo” per farlo passare più in fretta.
Il tempo sospeso a volte è un regalo. Persino quando ne avresti fatto a meno, persino durante una pandemia, persino quando la peste mette tra parentesi la tua vita, ruba affetti, si prende i piccoli importanti piaceri di sempre: un caffè al bar, due chiacchiere con i compagni, la primavera al mare.
Regole sociali feroci
Nella Peste Camus ci racconta del morbo, ma anche dell'occupazione nazista, di chi resiste e di chi cede, di chi si costruisce un mondo e chi non fa che contemplare le macerie, chi lotta e chi si arricchisce, chi annega nella paura e chi ci fa i conti.
I mesi appena trascorsi sono stati molto duri. E certo non è ancora finita. Non c'è un dopo, ma un presente che si allunga, e getta un'ombra sui giorni a venire.
Il tempo sospeso offre l'occasione di fermarsi, senza la pressione degli impegni e delle scelte. Seduti sulla panchina della stazione sappiamo che il nostro treno arriverà, ma sino ad allora siamo liberi dal prima e dal dopo.
Il tempo dei domiciliari di massa è stato attesa, ma anche viaggio, lotta, spazio rubato per agire, per non permettere che l'isolamento sopraffacesse la solidarietà, la voglia di mettersi in gioco per fare la nostra parte per cambiare il mondo intollerabile in cui siamo forzati a vivere.
La gran parte di noi è un vuoto a perdere, una pedina intercambiabile, senza valore. Gli anziani sacrificati nelle RSA mentre si costruivano sommergibili da guerra sono l'emblema di regole sociali feroci.
Le regole che, da anarchici, abbiamo sempre cercato di spezzare. Ma all'improvviso e in maniera imprevista abbiamo scoperto che i margini di azione che ci venivano concessi come quelli che riuscivamo a strappare, si erano ristretti, sin quasi a scomparire. Vietato riunirsi, stare in strada, distribuire volantini, scioperare, organizzare un'assemblea, fare un corteo. Mentre chi era obbligato a lavorare rischiava la vita senza distanze e protezioni, tutti gli altri dovevano rinunciare a ogni forma di critica, protesta, lotta. La differenza tra l'untore e il santo/martire la stabilisce il Presidente del Consiglio dei Ministri per editto. Anche ora i margini di azione concessi sono ancora esigui.
Non siamo rimasti fermi e isolati. Abbiamo strappato qualche brandello di libertà per stare in strada, per raccontare le storie che avevamo incrociato, per creare reti di mutuo appoggio, perché “a livella” dai poveri arriva prima che dai ricchi.
Abbiamo perso il saper fare
Nel tempo sospeso abbiamo visto quanto esile fosse il muro tra i sommersi e i salvati, con quanta facilità il governo sia riuscito a trasformarci in bambini da sorvegliare, rinchiudere e punire.
Già bambini. Da mettere sotto controllo perché
solo il padre-padrone-padrino sa qual è il nostro bene.
Da isolare perché, se insieme, anche i bambini possono
far saltare le mura del collegio come nelle immagini folli e
libere di Zéro de Conduite.
Ma questa metafora ci dice anche altro. Seduta sulla panchina in attesa del treno mi sono accorta che l'età adulta mi era stata rubata da molto tempo. Nella città isolata, una città che somigliava sempre più all'Orano di Camus, una città dove non ci sono alberi, né uccelli, dove la primavera arriva con i fiori nei mercati, mi sono ritrovata bambina, quando mia madre, che mi nutriva a latte e paura, teneva me e le sorelle chiuse in casa, nel miraggio dei tristi giardinetti dove giocavano i bimbi della zona, che si trasformavano in luoghi di sogno, perché preclusi, vicini eppure interdetti.
Quanti di noi saprebbero vivere senza le persone che, rischiando la vita per i salari degli ultimi, trasportano ogni giorno le cose che diventano merci sugli scaffali dei supermercati?
Quanti di noi hanno resistito alla tentazione di ordinare un nuovo cellulare, un paio di scarpe o un saturimetro in internet, per evitare di esporre al contagio i lavoratori della logistica?
Quanti di noi sanno cucire, fare una piccola riparazione, coltivare un orto, usare e fare manutenzione ad una bicicletta, preparare una marmellata? Quanti sono capaci di usare in maniera più sicura i mezzi di comunicazione?
Pochi. Abbiamo perso tanta parte del saper fare, che dava alle generazioni precedenti alla nostra una maggiore autonomia nei confronti dello Stato e dei padroni. Ma non sappiamo maneggiare in modo consapevole neppure le tecnologie che usiamo ogni giorno, quelle che ci danno l'illusione di essere costantemente connessi, anche quando usano le nostre vite per trarne profitto, modificando gli algoritmi in base alla domanda che arriva dai mercati.
Sistema sociale pervasivo, annichilente
Ai primi accenni di disagio sociale il governo si è affrettato a elargire elemosine, per evitare che i gruppi nati su Facebook per organizzare assalti ai supermercati, uscissero dai computer per dar vita ai saccheggi.
Pane e polizia per ottenere la pace sociale.
I gruppi più “radicali” non hanno trovato di meglio che invocare un reddito di quarantena, un pezzo di formaggio da mettere in mezzo al pane. Non sono usciti dalla logica che ci ha imprigionati ben più e ben oltre le misure del governo, la logica statalista, la logica welfarista, la logica di affidamento allo Stato.
Una trappola. La stessa trappola che ci ha resi inermi da oltre quarant'anni, quando la sconfitta dei movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta ha aperto le porte a politiche di frantumazione del legame di classe, di annullamento dei luoghi della relazione solidale, della lotta, della prefigurazione concreta di un diverso assetto sociale.
Non riusciamo più a pensare il mondo altro che vorremmo, perché ci sembra ormai inattingibile, cancellato da un sistema sociale pervasivo, annichilente, nel quale non siamo che ingranaggi nella macchina del produci, consuma, crepa.
Le accelerazioni tecnologiche degli ultimi 50 anni sono meravigliose e terribili insieme. Per i latini era l'horror, una parola che in italiano ha perso tutta la sua preziosa ambiguità semantica: paura e meraviglia, eccesso e seduzione. La distopia del grande fratello si è realizzata in modo abnorme ed imprevedibile. Non serve un apparato poliziesco totalizzante per obbligarci a obbedire, perché è più facile ottenere la nostra complicità, quando regaliamo tutti noi stessi in un profilo Facebook, in una foto su Instagram.
L'arcipelago anarchico
Il segno distintivo degli ultimi decenni è stato un
abile bilanciamento. Da un lato un capitalismo selvaggio, basato
sulla distruzione delle tutele e delle garanzie, frutto di una
lunga stagione di lotte. Dall'altro le accelerazioni tecnologiche
che ci hanno dato l'illusione che gli esseri umani fossero in
grado di esercitare un controllo profondo e duraturo sul mondo
che li circondava. Persino la morte, per chi aveva la fortuna
di vivere nel nord più ricco e predatore, si allontanava
nel tempo.
Le reti telematiche hanno modificato la nostra percezione della
realtà in modo radicale, offrendoci la possibilità
di infinita connessione, di viaggio virtuale, di libertà.
Molti vivono la propria vita in bilico tra la precarietà
del vivere e la metarealtà della rete. La pervasività
del controllo statale, grazie alla tecnologia, offre un importante
puntello agli apparati di polizia, che ci appaiono onnipotenti,
tra rilievi biometrici, tracciamenti, prelievi del dna, apparecchiature
di spionaggio sempre più sofisticate.
L'anarchismo
non poteva non confrontarsi con il mondo nuovo nel quale siamo
stati proiettati. La mia generazione è stata catapultata
nel giro di pochi decenni dal pallottoliere al web, dalla macchina
fotografica alle immagini satellitari, dal sistema sanitario
universale alla sanità privatizzata, dal posto fisso
alla incertezza strutturale, dal lavoro alla catena alle catene
del telelavoro. Al tempo stesso la crisi ecologica ha dimostrato
come le enormi crepe che la logica del just in time,
traslata dalla produzione di merci alla produzione di senso,
stiano distruggendo in modo irreversibile il pianeta e le possibilità
di sopravvivenza degli animali umani e non umani che ci vivono.
Un lungo processo di straniamento. Le risposte dell'arcipelago
anarchico sono state diverse e non di rado divergenti.
Il moloch tecnologico, avvertito come pericoloso e nemico totale,
ha aperto la strada ad un anarchismo che fugge in un passato
immaginario, dove germogli un futuro che nega l'umano, così
come si è costruito nel processo di civilizzazione, identificato
tout court con la nascita e il consolidarsi della gerarchia,
del dominio, della violenza dei pochi sui molti. Il futuro diviene
“primitivo”, nel senso etimologico del termine,
un tempo-spazio dove si torna al primus, ad una dimensione in
cui l'umano si (ri)naturalizza, in una concezione essenzialista
e non culturale della “natura”.
Una fuga nichilista che riflette l'impotenza di fronte a una
complessità che non si riesce a capire, né a controllare,
il moloch può essere distrutto solo a prezzo di rinunciare
alla libertà, per rifugiarci tra le braccia esigenti
e soffocanti della natura-madre.
La fine del futuro, che poi non è che sfiducia nel presente,
in altri approcci anarchici si traduce nella sua cancellazione,
nella messa fuori gioco della prospettiva rivoluzionaria, per
coltivare, in un'altalena di pause e accelerazioni, il terreno
della rivolta, della rottura dell'ordine, come preludio ad un
caos sistemico che apra nuove possibilità, peraltro impossibili
da decifrare.
La variegata galassia del post-anarchismo teorizza che l'anarchismo
sia destinato a smarrirsi per ritrovarsi. Un fiume carsico,
che si inabissa per riemergere altrove. In questa prospettiva
l'anarchismo smette di essere un movimento che, pur nella spesso
radicale diversità di approcci e di percorsi, si riconosce
come tale. Il post-anarchismo non pensa al dopo, ma si immerge
nelle crepe dell'oggi. È l'anarchismo di chi recupera
gli sprechi e cucina per i senzatetto, di chi difende l'acqua
pubblica o si oppone ad un inceneritore, di chi si sposta da
un confine all'altro per attenuarne la ferocia, di chi non ha
altro che l'oggi.
Percorsi di autonomia
Eppure. L'anarchismo ha in sé tutti gli attrezzi necessari a governare una complessità, che appare inafferrabile solo a chi cade nella trappola di eternizzarla nel suo presente, nel mettere tra parentesi la possibilità di smontare per ricostruire e di ricostruire smontando.
Coniugare sottrazione e conflitto ci offre i margini di autonomia necessari ad acquisire la forza necessaria a rimettere in gioco la costruzione di un mondo altro.
Dalle fabbriche recuperate alle case occupate, dai collettivi di acari alle reti di mutuo appoggio, dagli orti autogestiti alle officine di autocostruzione arrivano segnali dell'impellenza di liberare spazi per spezzare un moloch, che ha i piedi di argilla.
Se la circolazione delle merci è il motore della giostra capitalista, i lavoratori della logistica hanno dimostrato che il motore si può ingrippare.
La tecnica non è un mostro anomico, ma una possibilità da esperire, se riusciamo a sottrarne il controllo a chi governa il pianeta. In questo non c'è nulla di immateriale, perché è dalle viscere dell'Africa, che si estraggono, in mezzo ad una guerra senza fine, le materie prime che rendono possibile tanta parte delle meraviglie tecnologiche che ci hanno cambiato la vita.
Se il consumo di suolo e di risorse sta estenuando il pianeta, la macchina è posata sulle sabbie mobili: diventa essenziale non affondarci insieme.
Nelle mani di ciascuno di noi
Mentre sedevamo sulla nostra panchina in attesa di un treno momentaneamente soppresso abbiamo scoperto che lo Stato e il capitalismo non erano onnipotenti, che per far fronte alla pandemia ci hanno segregati come nelle pesti medievali. I loro saperi, orientati dalla logica del profitto e del guadagno, erano inadeguati. L'organizzazione statale ha messo insieme criminalità e cialtroneria. Persino le loro inquietanti app del controllo di stampo cinese, senza tamponi, sono già naufragate di fronte all'assenza di “immuni”.
Abbiamo anche scoperto che le nostre già poche libertà sono fragili come fuscelli: possono esserci strappate con un colpo di penna.
Imparare a fare un orto, lottare contro la produzione bellica, occupare una casa sono strettamente interconnessi. Negli ultimi decenni anche i movimenti sociali si sono parcellizzati, senza cogliere che i percorsi di autonomia vanno di pari passo con il conflitto sociale. La stessa sottrazione conflittuale dall'istituito può peraltro ridursi a mera trincea di resistenza, se non riesce a spezzare la rassegnazione, a mostrare che il mondo altro è nelle mani di ciascuno di noi.
In inverno ci sono giornate fredde fredde, ghiacciate dal vento, che tronca il respiro. Eppure è in quelle giornate che riusciamo a scorgere gli ampi orizzonti invisibili nei giorni di estate.
Il tempo sospeso a volte è un regalo.
Maria Matteo
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