Brasile
Bolsonaro e gli indigeni
di Gianni Alioti
Natura, diritto alla terra e all'acqua, equilibri ecologici, popoli dell'Amazzonia. Un bilancio del primo anno di presidenza di Jair Bolsonaro.
Nel primo anno del governo Bolsonaro
i conflitti per la terra sono aumentati del 23% rispetto al
2018 e del 54% rispetto al 2010, concentrandosi per più
di metà nell'area amazzonica. In questa regione le famiglie
colpite sono più di centomila. Un nucleo familiare su
tre è indigeno.
Ai 1.833 conflitti per la terra, che rappresentano un record
nella storia del Brasile, dobbiamo aggiungere altri 489 conflitti
per l'acqua. Un altro record negativo, da quando la CPT, la
Comissão Pastoral da Terra brasiliana, ha iniziato a
monitorarli.
La maggior parte di questi conflitti hanno a che vedere con
l'inquinamento di falde e fiumi prodotto da imprese minerarie,
specie in Minas Gerais. Tra le 69 mila famiglie coinvolte nei
conflitti per l'acqua, quelle più colpite sono di pescatori,
ribeirinhos (abitanti lungo i fiumi), piccoli proprietari
e quilombolas (afro-discendenti fuggiti dalla schiavitù).
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Brasile,
terra indigena Yanomami, comunità Watoriki, novembre
2019
Primo forum di leader Yanomami e Ye'kwana. All'incontro
hanno partecipato
120 leader di 53 comunità provenienti da 26 diverse
zone delle terre indigene |
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Escalation di violenza
In Brasile, tra il 1985 e il 2019, sono state uccise 1.970
persone per conflitti legati alla terra, all'acqua e all'ambiente.
La cosa più sconcertante è l'impunità dei
responsabili. Nel 92% dei casi non sono stati identificati,
arrestati e giudicati.
Secondo il rapporto presentato dalla CPT nell'aprile 2020, il
primo anno di governo di Bolsonaro registra anche il maggior
numero di indigeni assassinati per conflitti legati alla terra:
nove (di cui sette leader di comunità) su un totale di
32 persone uccise. Sono la conseguenza dell'offensiva contro
le terre dei popoli originari, lanciata da Bolsonaro e ampiamente
documentata nell'articolo “La guerra contro la foresta”
pubblicato da “A” rivista anarchica n. 436 (estate
2019).
Oltre ai nove indigeni assassinati, altrettanti sono stati vittima
di tentativi di omicidio e 39 sono stati minacciati di morte.
Inoltre, sono centinaia le aggressioni e le intimidazioni subite
dalle comunità indigene da parte di garimpeiros
(cercatori d'oro), imprese minerarie, taglialegna illegali,
grileiros (accaparratori di terre). Si calcola che, nell'ambito
dei popoli originari, quasi 50 mila persone siano coinvolte
in conflitti per la terra, specie in Amazzonia. Sempre nel 2019
si sono registrate 930 azioni di sfratto di nuclei familiari
indigeni dalle terre in cui vivevano e 320 espulsioni attuate
arbitrariamente da latifondisti e grileiros.
Queste espulsioni non avvengono quasi mai in forma pacifica.
Non è un caso che nell'Amazzonia brasiliana si concentrino
l'80% delle persone assassinate nei conflitti per la terra e
la maggior parte dei tentativi di omicidio di leader comunitari
e di minacce di morte. L'epicentro di questa violenza è
la regione di Anapu nel Pará. La stessa dove operava
Dorothy Stang1.
Nel dicembre 2019 sono assassinati Márcio Rodrigues dos
Reis, leader del MST (Movimento Sem Terra) e Paulo Anacleto,
del consiglio tutelare per i diritti dei bambini e adolescenti.
E sempre nel sud del Pará, a giugno, è stato ucciso
in un agguato Carlos Cabral, leader del sindacato rurale.
In questi mesi del 2020, in piena pandemia di Covid-19, l'escalation
di violenza non accenna a diminuire. Anzi è destinata
a crescere, specie in Amazzonia. Soprattutto nei territori assegnati
dalla legislazione brasiliana ai popoli indigeni. Da anni esiste
una pressione incessante di lobby nazionali e imprese multinazionali
che vorrebbero sfruttarne le risorse economiche e minerarie
o disboscarli per favorire l'allevamento e l'agricoltura.
Le attività illecite si sono intensificate nelle ultime
settimane, anche perché l'azione delle autorità
– che dovrebbero proteggere la foresta e le terre indigene
– si è ridotta, sia a causa della pandemia, sia
per l'indebolimento delle norme e del sistema di controllo e
protezione dell'Amazzonia e dei suoi abitanti. Un caso paradigmatico
in questa direzione sono state, ad aprile, le dimissioni imposte
dal governo al direttore di IBAMA (Instituto Brasileiro do Meio
Ambiente e dos Recursos Naturais Renováveis), due giorni
dopo un servizio televisivo che raccontava la mega-operazione
con cui l'IBAMA aveva costretto al ritiro di taglialegna e garimpeiros
dalle terre indigene nel sud del Pará.
Contro gli indigeni
Rispetto alla violenza contro gli indigeni nei primi mesi dell'anno,
ricordo solo i casi più drammatici. L'uccisione a inizio
marzo del giovane indigeno Virgínio Tupa Rero Jevy Benites,
del popolo Avá-Guarani, nel municipio di Diamante do
Oeste (Paraná) e il grave ferimento – nella stessa
circostanza – di altri tre giovanissimi indigeni Lairton
Vaz, Felix Benites e Everton Ortiz.
L'uccisione a fine dello stesso mese, nella terra indigena Arariboia
(Maranhão), di Zezico Rodrigues, leader indigeno del
popolo Guajajara. Nella stessa comunità, negli ultimi
mesi del 2019, erano stati uccisi dai garimpeiros Paulo
Paulino Guajajara e altri tre indigeni Guajajara. Tutti appartenenti
al gruppo di “guardiani della foresta”, formato
dagli stessi indigeni per monitorare e difendere i loro territori
tradizionali di fronte alla presenza di invasori.
Infine, in ordine di tempo, l'uccisione ad aprile di Ari, leader
indigeno del popolo Uru-eu-wau-wau, nel municipio di Jaru (Rondonia).
Ari era cugino della conosciuta leader indigena a livello internazionale
Awapu Uru-eu-wau-wau, a sua volta oggetto di diverse minacce
di morte.
Di fronte a questi eccidi, l'APIB (Articulação
dos Povos Indígenas do Brasil) ha denunciato che “la
violenza contro le popolazioni indigene aumenta e questa crescita
è direttamente correlata alla politica di genocidio del
governo Bolsonaro [...] Non siamo solo esposti al coronavirus,
i crimini commessi da taglialegna, minatori e ladri di terra
continuano a violare i nostri diritti e distruggere la nostra
natura”.
Infatti, oltre agli episodi di violenza, è necessario
denunciare che gli accaparratori di terre, i taglialegna illegali,
i cercatori d'oro e i latifondisti continuano ad avanzare nei
territori indigeni. Un esempio è quello che sta succedendo
nella terra indigena Karipuna, in Rondonia, dove le invasioni
dei bianchi, mettono a rischio l'isolamento e, di conseguenza,
la salute dei popoli nativi. Ci sono già molte morti
per coronavirus tra gli indigeni in Brasile. E continuando con
l'invasione dei loro territori, il rischio di sterminio di alcune
comunità per la pandemia è reale.
La grave minaccia ha portato, a inizio maggio, il fotoreporter
brasiliano Sebastião Salgado e sua moglie Lélia
Wanick a lanciare un manifesto-petizione internazionale in solidarietà
con i popoli originari dell'Amazzonia. Gli indios privi di qualsiasi
scudo protettivo contro il nuovo coronavirus sono infatti esposti
al rischio di un “genocidio causato dalla contaminazione
portata dagli intrusi nei loro territori”.
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Brasile, terra indigena Yanomami, novembre 2019. “Basta estrazioni minerarie”, il messaggio lanciato durante il primo forum di leader Yanomami e Ye'kwana
Credito foto: Victor Moriyama / ISA Instituto Socioambiental |
Un nuovo anno oscuro
La “guerra alla foresta” dichiarata da Bolsonaro, oltre alle conseguenze sul futuro dei popoli autoctoni, produce risultati devastanti anche sul piano ambientale. L'anno scorso la deforestazione nell'Amazzonia brasiliana è aumentata dell'85% rispetto al 2018. Ha superato i diecimila chilometri quadrati (10.123 kmq per l'esattezza). Una superficie più grande dell'intera Basilicata.
E nei primi quattro mesi di quest'anno, secondo le immagini satellitari dell'Istituto brasiliano per la ricerca spaziale, altri 1.202 km quadrati di foresta sono già scomparsi. Un livello record, il 55% superiore a quello registrato nello stesso periodo del 2019.
Queste cifre indicano un nuovo anno oscuro per la più grande foresta pluviale del mondo. La distruzione della foresta, come ampiamente risaputo, è in gran parte dovuta al disboscamento selvaggio, alle attività minerarie, alle attività agricole o di allevamento bestiame su terreni normalmente protetti.
L'unica buona notizia arrivata dal Brasile, in questi mesi,
è l'annuncio di Survival International di una sentenza
storica. Un giudice brasiliano ha proibito ai missionari delle
chiese cristiane evangeliche pentecostali di entrare in contatto
con i popoli indigeni “mai contattati”2
del Vale do Javari (Amazonas). È una delle terre ancestrali
indigene più estese del Brasile, nella regione dell'Alto
Rio Solimões, al confine con il Perù e con lo
stato brasiliano dell'Acre a sud. La zona con la più
grande concentrazione di popoli “liberi” esistente
sulla Terra.
La causa è stata vinta da UNIVAJA (União das Organizações Indígenas do Vale do Javari), l'organizzazione indigena della Vale do Javari, per contrastare i tentativi dei missionari integralisti statunitensi-brasiliani di New Tribes Mission di raggiungere le comunità indigene isolate (in accordo con Bolsonaro).
Eliesio Marubo, l'avvocato indigeno di UNIVAJA, ha detto a Survival International: «Non potevamo sperare in un esito migliore. La legge dovrebbe essere uguale per tutti, e UNIVAJA, che rappresenta le comunità indigene della Vale do Javari, sta difendendo il diritto dei nostri popoli a scegliere liberamente ciò che ritengono sia meglio per loro. Queste scelte spettano soltanto a noi, ai popoli indigeni! Spero che questa sentenza ricordi ai cristiani che il più grande insegnamento divino è quello di amare e rispettare gli altri!».
Gianni Alioti
- Dorothy Stang, conosciuta da tutti come Irmã Dorote (Dayton 1931 – Anapu 2005), è stata una religiosa e missionaria brasiliana di origine statunitense. Assassinata nel 2005 nella città di Anapu, nel Pará brasiliano, come rappresaglia per le sue ripetute proteste contro le aziende responsabili della deforestazione e delle cattive condizioni di vita dei lavoratori in Amazzonia.
- Molti antropologi e indigenistas preferiscono parlare di “popoli liberi”, invece del termine in uso “popoli mai contattati”.
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