ricordando Luis Sepúlveda
Quel nonno anarchico andaluso
di Pino Cacucci
Lo scrittore cileno, recentemente scomparso, nel ricordo del suo grande amico Pino Cacucci, scrittore e storico amico della nostra rivista. E poi quel nonno...
Si chiamava Gerardo Sepúlveda
Tápia, anarchico andaluso, condannato a morte nella Spagna
di inizio '900 per “attività sovversive”.
Riuscì a evadere dal carcere di Almería e a imbarcarsi
su un bastimento, con la complicità dei compagni di militanza
ribelle. Raggiunse le Filippine, dove fece perdere le sue tracce,
e qualche tempo dopo ricomparve in Ecuador. Lì riprese
l'attività “sovversiva” fondando un gruppo
anarchico, e coinvolgendo altri spagnoli riparati a debita distanza
dalle condanne a morte iberiche comminate con estrema facilità.
Ma anche in Ecuador le autorità non tolleravano i sobillatori
che sostenevano istanze inammissibili quali la lotta contro
lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, la schiavizzazione della
manovalanza indigena e il latifondismo... Ben presto l'anarchico
andaluso Gerardo Sepúlveda venne arrestato e gli appiopparono
un'altra condanna. Per sua fortuna all'epoca le comunicazioni
non si avvalevano di mezzi rapidi e dalla Spagna non giunse
la richiesta di estradizione, o più semplicemente la
pretesa di impiccarlo in Ecuador. Nel frattempo, Gerardo evase
un'altra volta, in questo caso dal carcere di Guayaquil.
E dall'Ecuador, riuscì a passare in Cile, fermandosi
nel porto di Iquique.
Era il 1918. In Europa l'immane massacro che la storia scritta
dai massacratori avrebbe chiamato Grande Guerra era ormai al
culmine, e gli anarchici si ostinavano a definirla per ciò
che era: guerra voluta dai padroni per soffocare sul nascere
qualsiasi ipotesi rivoluzionaria. In Cile, intanto, si ritrovavano
molti ribelli libertari europei che quella guerra non vollero
combatterla, anarchici sfuggiti alle galere dei rispettivi paesi
e ai plotoni d'esecuzione improvvisati a ridosso delle trincee,
e per Gerardo, quello fu il terreno più fertile per seminare
i suoi ideali. Da allora, assunse il nome di battaglia di compagno
Ricardo Blanco. E si trasferì a Valparaíso. Dove
conobbe Susana...
Lei era colta, un po' borghese, almeno secondo il punto di vista
di Gerardo, e addirittura cattolica, due “difetti”
che lui le perdonò per i seguenti motivi: parlava cinque
lingue, leggeva molto, ed era... bellissima. L'amore per Susana
non teneva certo a freno l'anarchico andaluso ormai radicato
cileno, che fondò non solo circoli di “letture
libertarie” ma addirittura una università popolare,
nella quale si imparava soprattutto il mestiere del grafico
e dello stampatore: l'intera storia dell'anarchismo è
feconda di tipografi, senza prima installare una stamperia,
è inutile tentare di andare avanti con la Fiaccola in
pugno.
Susana e Gerardo ebbero un figlio, che a sua volta avrebbe avuto
un figlio: Luis.
Gerardo, il compagno Ricardo Blanco, era il nonno paterno di
Luis Sepúlveda. Lucho, per noi amici.
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Luino, 2013 - Luis Sepúlveda
Credito foto: Associazione Amici di Piero Chiara |
Complici di ideali libertari
E mi raccontava Lucho: «Io sono praticamente cresciuto con loro, e con lo zio Pepe, altro anarchico furibondo, che nel 1937 se ne partì per la Spagna con una brigata di combattenti internazionalisti messicani e statunitensi. È grazie a nonno Gerardo e al tío Pepe, che ho imparato ad amare Salgari. Nel loro circolo anarchico credo si siano tenute le più approfondite e intelligenti letture di Salgari a cui abbia mai assistito...»
Il compagno Ricardo Blanco morì che Lucho era ancora adolescente. I suoi vecchi amici e complici di ideali libertari misero sulla sua bara la bandiera rossa e nera della CNT, e intonarono A las barricadas.
Quando era ormai malato e sentiva avvicinarsi la fine, nonno Gerardo ebbe il tempo di discutere con il nipote delle sue precoci simpatie per il comunismo: «Mi parlava delle regole inviolabili della natura, mi diceva che l'ideologia comunista racchiudeva qualcosa di atroce, cioè il rafforzamento dello stato, per farne inesorabilmente uno stato repressivo.»
Interminabili chiacchierate e discussioni
Ho conosciuto Luis Sepúlveda, Lucho, il cileno errante, nei primi anni novanta, proprio nelle Asturie, dove ancora non aveva fatto base – ricordo che allora viveva in una casetta ai margini della Selva Nera, pur conservando la vaga residenza “tra Amburgo e Parigi”, come si leggeva sulle copertine dei suoi libri – ma ci andava per la Semana Negra di Gijón, fondata e diretta dal comune amico Paco Taibo II. Poi, Lucho a Gijón avrebbe trovato il clima ideale («Il primo giorno che ci sono stato pioveva forte, il secondo pioveva poco: comunque, l'aria era sempre fresca, e il paesaggio, be', non proprio la Patagonia, ma le alte scogliere a strapiombo sul mare e la brava gente asturiana, mi hanno convinto a restarci per un po'») e lì aveva scelto quella grande casa da cui ripartire spesso.
La casa di Lucho e Carmen a Gijón, immersa nel verde e con il mar Cantábrico che ruggisce sotto le scogliere asturiane poco distanti, narrava molto di come era lui: l'aveva scelta perché potesse ospitare tanti amici e, in certe occasioni, i sei figli con rispettivi coniugi e nipoti, e l'aveva chiamata Cruz del Sur. Di quella casa, serbo alcuni dei più bei ricordi della mia vita: giornate e nottate di interminabili chiacchierate e discussioni nel vasto giardino, risate o momenti di malinconia ricordando gli assenti per sempre, o anche assaporando le pause di silenzio, specie mentre accendeva la carbonella per l'immancabile asado, perché lui stesso ha spiegato le differenze “etniche” del rituale: gli argentini mentre stanno davanti alle braci parlano chiassosamente e si distraggono, i cileni, al contrario, si concentrano e non gradiscono interferenze, certe cose si tramandano e fanno parte di una cultura.
I paesaggi apocalittici della Terra del Fuoco
Tra i tanti viaggi, tornava quasi ogni anno in Cile, che lasciò
nel 1977 per l'esilio – e solo nel 2017 gli avevano restituito
la “cittadinanza”, che del resto aveva da molto
tempo in Germania mentre la residenza era in Spagna –
si era anche procurato un piccolo buen retiro ai margini
della Patagonia, casetta affacciata sull'oceano Pacifico australe,
eppure non sentiva il bisogno di restare nel paese di nascita
troppo a lungo, perché ormai non lo riconosceva più.
Però restava forte l'attrazione per i paesaggi apocalittici
della Terra del Fuoco, per la sterminata solitudine della Patagonia,
che avrebbero ispirato alcune delle sue pagine memorabili.
I primi passi da scrittore li ha mossi al liceo di Santiago,
dove pubblicò qualche poesia sul giornalino dell'istituto.
Poi, nel 1964 entrò nella Gioventù comunista cilena,
e i suoi racconti e poesie divennero celebri nelle riunioni
sindacali, in scioperi e manifestazioni. Gli scrittori “seri”
lo snobbarono. Ci rimasero molto male, quando Luis, nel 1969,
vinse il Premio Casa de Las Américas con la raccolta
di racconti Crónicas de Pedro Nadie. «È
stato un amico a metterli assieme e a mandarli a L'Avana. Io
non ci credevo, ma poi, una volta vinto il premio... be', gli
scrittori cileni affermati decisero di odiarmi apertamente.
Tutti, meno uno: Francisco Coloane, che mi difese pubblicamente.»
Luis aveva appena vent'anni, e stimava Coloane come il più
grande narratore d'avventura che mai avesse letto, e che lui
metteva al pari, se non al di sopra, di London, Melville e Conrad.
Allora, non avrebbe mai immaginato che quei racconti, grazie
al premio di fama internazionale, gli avrebbero salvato la vita...
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Luis Sepúlveda e Carmen Yáñez |
Il rigido Partito comunista cileno
E arrivarono gli anni della militanza totale, che per molto tempo avrebbe tenuto Lucho lontano dalla macchina da scrivere. Sempre nel '69, vinse una borsa di studio per l'università Lomonosov di Mosca, l'ateneo della nomenklatura. Lì cominciò a seguire i corsi di drammaturgia e a frequentare il giro del teatro semiclandestino moscovita, in netta contrapposizione con la cosiddetta “estetica del realismo socialista”, ma quattro mesi dopo venne espulso per “atteggiamenti contrari alla morale”... in pratica, aveva una relazione con una professoressa che era la moglie del decano. Sorrideva, raccontandomi quel periodo della sua vita: «Espulso dall'Unione Sovietica, torno in Cile e vengo espulso anche dalla Gioventù comunista. Litigai pure con mio padre, e così me ne andai di casa. Tre espulsioni nel giro di tre settimane».
Il rigido Partito comunista cileno andava già stretto a Lucho, visto che al pari di altri partiti gemelli latinoamericani pretendeva di applicare teoria e prassi sovietiche a paesi immensamente diversi per cultura, tradizioni e “filosofia di vita”: diventava sempre più forte in lui l'influenza libertaria del nonno Gerardo, nonché l'esempio ribelle del “compagno Ricardo Blanco”... A quei tempi in Cile era già attivo il Mir, Movimiento de Izquierda Revolucionaria, in aperto contrasto con il Pcc, e l'Eln, Ejército de Liberación Nacional, a cui decise di aderire Lucho. Due anni prima Ernesto Che Guevara era morto in Bolivia, dove però resisteva ancora Osvaldo “El Chato” Peredo con un gruppo di guerriglieri; era il fratello di Inti e Coco Peredo, caduti con Guevara. L'Eln cileno decise di mandare alcuni volontari, e Luis fu tra loro. «Eravamo in nove, al comando di Gonzalo Arenas, che in realtà si chiamava Agustín Carrillo ed era campione panamericano dei pesi Welter. Siamo rimasti sulle montagne del Teoponte fino al febbraio del '70. Io e Sergio Leiva, il poeta e cantautore, eravamo gli unici due cileni sopravvissuti...»
Leiva sarebbe morto tre anni dopo, durante il golpe di Pinochet. Riuscì a entrare nell'ambasciata argentina, dove si erano rifugiati alcuni dirigenti politici, per convincerli a riorganizzare la resistenza. Vi tornò una seconda volta, con l'intento di raccogliere tutti i fondi che avevano con loro, ma i militari all'esterno lo intercettarono, e lo crivellarono. A Lucho si incrinava ancora la voce, ricordando Sergio, il suo amico per la pelle con cui aveva condiviso tanto.
Tre colpi di pistola
Riguardo invece Osvaldo “Chato” Peredo... nel 1997 ebbi la fortuna di assistere all'incontro tra lui e Lucho, a Milano. Chato era stato invitato dalla Fondazione Feltrinelli per una serie di incontri pubblici, e per l'occasione avevano chiesto a Luis Sepúlveda di fare “gli onori di casa” come scrittore internazionalmente celebre, e soprattutto, come protagonista di almeno una delle storie che avrebbe probabilmente raccontato Peredo in pubblico. Serbo un ricordo indelebile di quel momento: erano trascorsi ventisette anni dall'ultima volta che si erano visti... Lucho si parò di fronte a Chato, lo tirò in disparte, e tenendogli il braccio sulle spalle, gli mormorò a lungo nell'orecchio. A un tratto, Osvaldo ebbe uno scatto, lo guardò negli occhi, lo scrutò in volto, e riconobbe l'allora giovanissimo guerrigliero del Teoponte. Nell'abbraccio bagnato di lacrime che ne seguì, interminabile, temetti che il minuto Chato Peredo rimanesse soffocato: continuavano a battersi manate sulla schiena senza decidersi a staccarsi, sotto gli sguardi incuriositi del pubblico che non poteva sapere cosa significasse quel rencuentro.
Era il culmine di una lunga storia. Troppo lunga, da raccontare. Basti sapere che Chato, il più giovane dei tre fratelli, era stato a Milano nel marzo del 1971, per incontrare Monica Ertl, compagna del fratello Inti caduto con il Che: doveva consegnarle una pistola da parte di Giangiacomo Feltrinelli, che mise a loro disposizione anche un'auto con cui raggiungere Amburgo, dove, al consolato della Bolivia, c'era Roberto Quintanilla, ex colonnello dei servizi che aveva partecipato alla cattura e all'uccisione del Che, e poco prima aveva torturato a morte Inti Peredo. Monica, giovane donna attraente, non ebbe problemi a essere ricevuta dal console Quintanilla, che si credeva irresistibile... Monica gli sparò tre colpi con la pistola di Giangiacomo Feltrinelli, uccidendolo. Fuori, a quanto si narra, la aspettava Chato, con il motore acceso...
Victor Jara, torturato e assassinato
«Dal settembre del '70 al giugno del '71 fu il periodo
della mia vita in cui dormii di meno. C'erano troppe cose da
fare. Mi ero appena diplomato come regista teatrale, e con Víctor
Jara allestimmo Sei personaggi in cerca d'autore, di
Pirandello. La militanza era in qualsiasi cosa facessimo, e
nessuno si dedicava a una sola attività in esclusiva.
Per esempio, oltre al teatro, ai programmi della radio e a qualche
racconto che scrissi, divenni anche responsabile di una cooperativa
agricola»
Va ricordato che Víctor Jara, celebre cantautore –
sua, tra le molte canzoni, la struggente Te recuerdo Amanda,
poi resa internazionalmente famosa da Silvio Rodríguez
– venne catturato dai militari nel golpe del '73: gli
fracassarono le mani con i calci del fucile, sghignazzando,
“Prova adesso a suonare la chitarra”, lo torturarono
per giorni e infine gli spararono.
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Circolo culturale Buh!, Firenze, 2017 - Luis Sepúlveda e Pino Cacucci |
“Poi c'erano le finte fucilazioni”
Dal '73, Lucho militava nel Partito socialista, diventando il più giovane membro della guardia personale di Salvador Allende. Il giorno del colpo di stato stava sorvegliando un acquedotto che si temeva potesse essere dinamitato, fu per questo che non morì con Allende nel palazzo della Moneda.
«A poca distanza da me c'erano interminabili file di camion fermi per lo sciopero degli autotrasportatori contro Allende. Gli autisti ricevevano fondi direttamente dagli Stati Uniti, e avevano paralizzato il paese. I soldati, spudoratamente in divisa, si erano incaricati di custodire i Tir abbandonati. Dall'11 al 14 settembre mi unii ad altri compagni, i pochi che avevano qualche arma, e tentammo di difendere alcune fabbriche. Ne ho visti morire a centinaia, in quei quattro giorni... Alla fine, mi ritrovai nelle vicinanze di Temuco, solo e praticamente disarmato, e il 5 ottobre, l'indomani del mio compleanno, fui catturato. Mi portarono alla caserma del Reggimento Tucapel, e per sette mesi la mia cella è stata un cubicolo largo cinquanta centimetri e lungo un metro e mezzo, così basso che dovevo restare sempre sdraiato, fra la mia orina e quella dei soldati che venivano a pisciarmi addosso attraverso una piccola grata sul soffitto».
È difficile immaginare come una mente umana possa resistere e non svanire nella follia, in simili condizioni. Luis Sepúlveda era certo di dovere il presente, e il futuro, alle sue letture: «Ripassavo a memoria tutti i libri di Conrad, Melville, Stevenson, Verne, Dumas, Salgari... E giocavo anche a scacchi, tenendo gli occhi chiusi».
Lo tiravano fuori per gli interrogatori, e non era facile, per lui, ricordare quei primi sette mesi.
«Quanti ne sono morti, di fianco a me... Poi c'erano le finte fucilazioni. Me ne hanno fatte due, e anche la seconda volta che mi sono trovato davanti al plotone, ho creduto che i fucili fossero carichi... E gli interrogatori con le scariche elettriche... Penso di aver assorbito tanta elettricità che ancora adesso potrei ricaricare una batteria appoggiandoci le mani sopra...» Lucho sorrise, quel giorno in cui mi raccontava tutto questo, tentando di rimuovere l'orrore con l'umorismo macabro. A un certo punto mi fissò in modo strano, e disse: «Sai che è curioso? Non avevo mai raccontato tutto questo, prima. Non con i particolari, e tanto meno a uno che lo pubblicherà da qualche parte... Che tu sia il mio dottor Freud, compadre?!»
All'epoca di queste confidenze, sul finire degli anni novanta, gli avevo detto che intendevo raccontare almeno in parte la sua storia in un capitolo del libro Camminando, capitolo che avrei intitolato “Il cileno errante”. Non pretendevo di essere il suo minibiografo, né posso pretenderlo adesso, perché l'esistenza di Luis Sepúlveda è stata talmente intensa e ricca di eventi, che difficilmente qualcuno un giorno potrà mettere assieme così tanto “materiale” da scriverne una biografia compiuta. Forse, solo Carmen Yáñez, potrebbe farlo, quien sabe...
Resta il fatto che già allora Lucho mi dimostrò la generosità che lo contraddistingueva in ogni gesto quotidiano, a lui ho chiesto tanti consigli ma mai un aiuto pratico per qualsiasi cosa: perché se poteva essermi utile in qualcosa, lo faceva di sua spontanea volontà, spesso senza neanche dirmelo prima (come ha fatto convincendo non pochi editori in vari paesi a pubblicare alcuni dei miei libri: me lo annunciava festoso solo quando era sicuro di averlo ottenuto, «Tengo una sorpresa para ti», e se provavo a ringraziarlo, mi rifilava un affettuoso scappellotto, scuotendo la testa con il suo tipico «Naaa-na-na-na», per dirmi che le parole in certi casi sono di troppo).
Contro le baleniere
Nel '76 la sezione tedesca di Amnesty International aveva lanciato
una campagna per la liberazione di Sepúlveda, conosciuto
proprio grazie a quei racconti del Premio Casa de las Américas,
suscitando un vasto clamore che alla giunta militare cilena
fece saltare i nervi. Non era più possibile eliminarlo
in silenzio, e alla fine decisero di liberarsi da quei “calunniatori
tedeschi”...
«Il 17 luglio del 1977 mi portarono all'aeroporto di Santiago.
Non mi permisero di abbracciare i miei, che potei salutare da
dietro una vetrata. Fu l'ultima volta che vidi mio padre, morì
due anni dopo. Prima di caricarmi sull'aereo, i militari si
accomiatarono dandomi una scarica di calci. Avevo in tasca un
visto per la Svezia, dove mi aspettava un posto da professore
di drammaturgia presso l'università di Uppsala. Ma non
mi sentivo ancora disposto ad allontanarmi così tanto
da tutto... Allo scalo di Buenos Aires non ripresi nessun aereo,
e rimasi in Argentina. Non per molto, perché in quel
periodo la gente scompariva a grappoli, e certi amici fecero
una colletta per mandarmi in Uruguay. Neanche lì, per
quelli come me, tirava una buona aria, così passai in
Brasile, a San Paolo, dove lavorai a un allestimento di Madre
Coraggio di Brecht. Alla fine, visto che neppure il governo
brasiliano mi dimostrava troppa simpatia, decisi di tornare
al mio grande amore, il Pacifico. Attraversai il Paraguay, il
nord dell'Argentina, la Bolivia, il Perù, e finalmente
in Ecuador, a Quito».
E qui Lucho conobbe un mondo che tanta influenza avrebbe avuto
nei suoi destini di scrittore, oltre che di militante totale
ed estremo in difesa di una natura saccheggiata. Per sette mesi
visse nella selva amazzonica con gli indios shuar, di cui aveva
imparato la lingua e il rispetto per i delicati equilibri della
Madre Terra. «Sette mesi in cui ho scoperto l'essenza
della vera libertà, il comunismo utopico dal vivo e in
diretta.»
Da quell'esperienza, anni più tardi, avrebbe tratto il
suo libro di maggior successo mondiale, Il vecchio che leggeva
romanzi d'amore. Al pari del protagonista, Antonio José
Bolívar, Lucho era accettato dagli shuar, ma non sarebbe
mai potuto diventare uno di loro, né restare per sempre
nella selva. Era l'inizio del '79, e dal Nicaragua arrivava
un richiamo irresistibile. Si unì alla Brigada Simón
Bolívar, formata da combattenti latinoamericani, e fu
tra i primi a entrare a Managua liberata dal sanguinario dittatore
Somoza nel mese di luglio.
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Bologna, 1997 - Luis e Pino
Credito foto: Luciano Nadalini |
“Per quattro anni ho attraversato tutti i mari”
Nel paese centramericano vi rimase il tempo di partecipare attivamente al triunfo de la Revolución, e se ne andò quando cominciò a vedere gli “imboscati” ricavarsi poltrone e privilegi...
Una breve sosta in Ecuador, e quindi Lucho giunse in Europa, ad Amburgo.
«Ero stanco, e con una gran voglia di starmene in pace, anche per riprendere a scrivere.»
Due anni più tardi, un mattino, passeggiando nel porto notò una barca che si chiamava Sirius; era uno dei vari equipaggi di Greenpeace, che si apprestava a salpare per una scorribanda di “guerriglia ecologista”. Lucho parlò con un neozelandese che era a bordo, e mezz'ora dopo riempiva la scheda di imbarco. Così divenne uno dei più noti corrispondenti della stampa tedesca sulle imprese di Greenpeace.
«Per quattro anni ho attraversato praticamente tutti mari. Nell'estremo sud, tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, ostacolavamo le baleniere, mentre nei mari nordici sbarravamo il passo alle navi militari, che trasportavano armi nucleari o scorie radioattive. Era un lavoro da formichine. Con i nostri piccoli Zodiac incrociavamo davanti alla prua costringendoli a fermare le macchine: se una nave si arresta in alto mare, i costi diventano insostenibili, e piuttosto che procedere a singhiozzo preferiscono tornare indietro, sperando di farla franca la prossima volta. Prima, però, ci riempivano di immondizie, a bidonate, e ci bombardavano con getti d'acqua: quando ci sono venti gradi sotto zero, l'acqua è mortalmente efficace. E se cadi in mare, bastano tre minuti per morire assiderati, in meno di duecento secondi il cuore si ferma. Ma abbiamo ottenuto molte vittorie, che restano tra i migliori ricordi della mia vita.»
Quelle favole del nonno Lucho
Tra le tante vicende raccolte nel suo vagabondare per il mondo, Sepúlveda aveva deciso di rivelarne una che lo riguardava molto da vicino, trovando un raro senso della misura: l'incontro di sua moglie Carmen Yáñez con la cara amica Marcia Scantlebury, avvenuto casualmente a Venezia sul finire degli anni novanta. Oggi Carmen è poetessa di fama internazionale, Marcia giornalista affermata. Venticinque anni prima erano insieme nelle segrete di Villa Grimaldi, centro di tortura e sterminio sotto l'egida di Pinochet. Carmen venne infine gettata in una discarica. Doveva essere un cadavere tra i tanti. Qualcuno notò che respirava ancora, e il resto è quotidiana resistenza contro gli spettri del passato. Anche Marcia la credeva morta, e lo stesso pensava Carmen di lei. A Venezia, la “bruna e la bionda” hanno scoperto che non era così, davanti agli occhi stupiti e commossi dello scrittore, che su quelle due “ragazze della mia generazione” seppe scrivere un'elegia commovente.
E anche la loro storia, quella tra Carmen e Lucho – che lui chiamava affettuosamente Pelusa, o Pelu – sembra uscita dalla penna del romanziere: insieme dal 1968 e sposati nel 1971, separati dalle tragedie della dittatura, entrambi allora inconsapevoli che l'altro fosse vivo, avevano un figlio, Carlos, poi... lui esiliato in Germania e lei in Svezia, avevano ripreso i contatti grazie a quel figlio, e nel frattempo entrambi avevano formato un'altra famiglia, tre figli Lucho e due Carmen, finché... negli anni novanta, quando i successivi matrimoni languivano, Carmen e Lucho si incontrarono a una singolare “festa di divorzio” in Germania, convocata dalla ormai ex moglie tedesca, Margarita, che aveva deciso di invitare anche Carmen, intuendo che Lucho era sempre rimasto innamorato di lei. E quella sera, Lucho le propose di trascorrere qualche giorno insieme a Parigi. Sul treno, perdendosi negli occhi di Pelusa, le scrisse una struggente poesia, La più bella storia d'amore: “Una storia possibile solo nella serena e inquietante calligrafia dei tuoi occhi”...
Al termine della breve “fuga d'amore ritrovato”, Lucho chiese la mano di Carmen... al figlio Carlos. E andarono a vivere insieme a Gijón, dove nel 2004 si erano risposati, con Carlos a fare da testimone delle seconde nozze.
E la casa nelle Asturie, la Cruz del Sur, per Natale e ancor più in estate, ospitava la riunione dei tanti figli con rispettivi coniugi e, via via, dei nipoti che nascevano, i veri responsabili delle memorabili favole narrate da Luis Sepúlveda, tutte, o quasi, nate dal piacere del abuelo, nonno Lucho, nell'inventare storie per i nuovi arrivati. Per il suo settantesimo compleanno, nell'ottobre scorso, c'erano tutti, alla Cruz del Sur: Carlos, Sebastián, Amadeus, Max, León, e Paulina, l'unica donna tra cinque fratelli maschi.
Frammenti di memoria
Tradotto in quasi tutte le lingue, Luis Sepúlveda, in ciascuno dei suoi tanti libri, sembra riaffermare quello che è il motto di una vita intera: narrare è resistere. Resistenza della memoria contro l'oblio.
E l'oblio, in Sepúlveda, è il nemico subdolo che ricopre di cenere le vite di personaggi meritevoli di immortalità: ogni sua pagina riscatta frammenti di memoria trasformandoli in voci, suoni, presenze palpabili, sensazioni conosciute, e poco importa chiedersi quanto vi sia di autobiografico, perché comunque “la scrittura arriva dopo la vita vissuta, e la vita verrà sempre prima della scrittura”, come amava ribadire.
Questa foto
Qualche mese fa, cercando chissà cosa nei meandri del computer, è saltata fuori questa foto. Gliel'ho fatta vedere, e Lucho mi ha risposto: “Quanto eravamo giovani, compadre!”
Pino Cacucci
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