Una primavera sprecata
Praticamente dentro in testa è come starsene in una
zattera. Al largo, la costa a portata d'occhio ma comunque parecchio
impegnativa a raggiungersi. In mezzo al mare mentre tutt'attorno
accade una primavera tiepida e morbida ma che non fa innamorare.
Qui si galleggia mattina pomeriggio sera tutto il giorno tra
silenzio e quasi silenzio: con Lucia e Marta viviamo in un paese
mediopiccolo appena fuori città, tipico nordest di fine
Novecento in formato quartiere residenziale di casette singole
e condomini da pochi appartamenti – viene da queste parti
solo chi ci abita.
Senza per forza finire a perdersi nello stomaco a luce artificiale
di un centro commerciale (che comunque troverei chiuso per decreto
del governo), per trovare approdo in un'edicola o in un piccolo
supermercato per quel minimo di spesa che ci basta in casa è
solo questione di minuti, ci si arriva anche a piedi. Scuola
chiusa palasport chiuso parco chiuso, a girare qui intorno guanti
di lattice e con una mascherina attaccata alle orecchie e senza
nessuno in giro sembra di essere in un brutto film, tipo una
di quelle storie che raccontano il dopobomba o un'invasione
degli extraterrestri. Traffico a zero, nessuno fuori, i bambini
tenuti per ore e ore chiusi dentro poveretti loro, i vecchi
figuriamoci ma prima ci si stupisce poi ci si abitua a tutto.
Zitti e buoni anche i cani da guardia che non hanno nessuno
con cui prendersela, di rondini neanche una nel cielo di questa
primavera sprecata: quasi silenzio, silenzio, quasi silenzio
ancora. Poco o niente vento e poi il mare che non c'è:
abito da queste parti da quasi trentacinque anni ormai ma non
mi sono mai abituato a questo mare che non c'è, mare
che mi è rimasto dentro in testa ad agitarsi ma che resta
distante cinquanta chilometri e passa così che l'aria
non te ne porta non dico il rumore ma neanche l'usma, le tracce.
Niente. Dalle strade tutt'intorno sale soltanto il rumore di
una pace terrificante – poi non venitemi a dire che Fabrizio
De André non ha parlato con la bocca di un profeta.
Fra
ferie forzate, cassa integrazione e prepensionamento siamo tutt'e
tre a casa. Dunque all'inizio della peste mia figlia Marta mi
fa notare con una certa preoccupazione che appartengo con doppia
sottolineatura ad una categoria a rischio, over 60 e immunodepresso,
quindi dice Marco è meglio se smetti di agitarti davanti
a Skyscanner e al sito di Trenitalia e te ne stai bello tranquillo
e rassegnato a casa. Lucia non dice niente, guarda tutt'e due
e non dice niente e questo mi impensierisce. Io comunque faccio
il bravo e do ascolto alle donne di casa per evitare discussioni,
più che altro perché sono in minoranza schiacciante
e anche perché non ci tengo proprio ad ammalarmi. E per
fortuna che qui dentro casa c'è tanto da leggere e da
guardare e da ascoltare, ci sono pure televisione e personal
computer e banda larga così si soffre meno l'effetto
prigione. Meno male che si va d'accordo, facciamo abitualmente
delle cose insieme, ci si fa compagnia e ci si stringe.
Veniamo a sapere un giorno di amici ricoverati in ospedale –
pneumologia, reparto infettivi, terapia intensiva. Via telefono
veniamo a sapere di amici di amici, di parenti di parenti, di
vecchi compagni di scuola persi di vista, di gente che abita
sullo stesso pianerottolo, di quelli del terrazzino di là
– persone di cui non riusciamo a ricostruire la faccia,
ma che ci vengono ad abitare nei discorsi. C'è il televisore
acceso di là, spesso fisso volume basso su un canale
che trasmette notiziari e bollettini che però neanche
si guardano, come fosse una finestra che dà su un cortile
interno in ombra, cortile di sassi dove non si va mai.
Durante i primi giorni di quarantena mi sono messo a dare una
sistemata veloce ai libri e ai dischi, niente di impegnativo
sia chiaro, fatto sta che in mezzo al casino ho trovato roba
che neanche sospettavo ci fosse. Non è che sono disordinato
nel senso letterale del termine, è che non mi sono mai
messo lì a fare degli elenchi-di-cose-possedute e non
mi piace tenere dischi e libri in ordine, che so, alfabetico:
io li dispongo per zone, anzi dico meglio per “zone”
fra virgolette. Dunque Allen Ginsberg vicino a Lawrence Ferlinghetti
(ma questa è facile), Jim Carroll vicino a Patti Smith
ed alle raccolte deliranti targate Giorno Poetry System (ci
sta), i Tuxedomoon vicino ai Dead Kennedys (e pure questa ci
sta), ma mi ritrovo con un problema: Stefano Battaglia vicino
a Stefano Bagnoli vicino a Stefano Giaccone vicino a Stefano
Giust vicino a Stefano Bollani non la capisco, mi sa che bisogna
intervenire. John Fahey l'ho piazzato giustamente in una zona
a parte, diciamo una zona rossa per adoperare il linguaggio
di queste settimane, e anche Frank Zappa sta giustamente in
un'altra zona rossa per conto suo. Zone rosse anche per l'Hilliard
Ensemble ed Arvo Part isolati ai piani più alti dello
scaffale così che possano guardare giù, per i
Crass ed i Throbbing Gristle lì a sinistra e per i Godspeed
You Black Emperor che ficco invece giù in fondo a destra
assieme a Stravinsky – questi è meglio tenerli
belli lontani dal resto. In mezzo ai mucchi trovo con un po'
di sorpresa, solo un poco, anche alcuni pezzi doppi: qualcuno
è un regalo mi affretto a dirmi, ma un paio ricordo li
ho proprio presi per sbaglio. Dimentico le cose e mi sa che
con l'età vado peggiorando.
Rileggo qualche vecchio libro, parecchi vecchi libri anzi e
ne prendo pure un paio di usati su un sito – arriveranno.
Mando un'e-mail, poi un'altra, scrivo una prima stesura di questo
articolo e rispondo via telefonino a parecchi amici e compagni
– diobono ma quante cagate circolano, da gente insospettabile
arrivano vignette terribili e filmini inguardabili. Io un po'
per carattere e soprattutto per pigrizia non frequento i social
network, ma so che parecchi si sfogano così, tutti a
commentare a litigare a intervenire ad alzare la voce via web.
Basta il caps lock tenuto fisso premuto per mettersi a gridare
– è vero, in questi tempi bui basta sempre meno
per divertirsi. Viene fuori che i nostri amici ci invitano ad
una videoconferenza, fa proprio strano vedersi dentro allo schermo
ma ci si accontenta ed così bello cazzeggiare che malgrado
il virus in agguato ogni tanto ci scappa pure da ridere.
Arriva sera. L'altro ieri ho scaricato dal web un paio di dischi
che già avevo ma che non ricordavo proprio di avere,
dovrò sì decidermi a fare una lista. Domani ci
penso. Stamattina sono andato a piedi fino all'edicola, poi
ho letto sul giornale le stesse cose che avevo ascoltato alla
radio e che avevo visto in televisione.
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Paolo Capodacqua Credito foto: @Ginus |
Ferite e feritoie
E meno male che malgrado il lockdown le poste funzionano, anche se a singhiozzo un giorno sì e uno no. Sono poi io che però appoggio lì le buste sul tavolo e mi dimentico di aprirle e queste poi finiscono sotto agli strati di altra roba che arriva. Oppure mi metto a fare dell'altro e mi dico apro la posta dopo, che tanto di tempo ce n'è – mi ritrovo ad accorgermi che l'orologio non lo guardo mai. Dalla Francia, da Parigi mi arriva un pacchettino con dentro il cd nuovo di Paolo Capodacqua “Ferite e feritoie” edito da Storiedinote. Mi sa che era lì sotto nel mucchio da un po'. Gli tolgo la plastica che lo tiene chiuso, lo metto su ed ecco che in una manciata di secondi succede press'a poco come quella volta a Gino Paoli: questa stanza non ha più pareti e il soffitto no non esiste più. Ma che maniera strana, che maniera dolce e bella di farsi portare via: sembra un regalo, un bel regalo in queste settimane senza niente. Mi impressionano alcune cose: innanzitutto i tagli in copertina, parrebbe quasi un'opera di Lucio Fontana quando sia appena passata una frettolosa crocerossina, tagli che s'è iniziato a ricucire ma poi non è bastato il filo. Tagli che mi spingono a pensare di assenze/vuoti da ingegnarsi in qualche modo a riempire – se ci penso questo dovrebbe essere il suo primo lavoro dopo la scomparsa di Claudio Lolli, un'amicizia lunga oltre vent'anni. E poi il titolo, che gioca sulle lettere in comune di due parole che forse non sono così distanti: stanno entrambe a raccontare aperture, ma una guarda verso dentro e l'altra verso fuori.
Suona uno strumento che amo: di Paolo Capodacqua mi emoziona parecchio quel modo tutto suo geometrico e preciso eppure così morbido di toccare la chitarra, di tenersela accanto e scambiare calore con lei, di appoggiare le dita sopra alle corde e tirarne fuori fuochi improvvisi che arrivano come freccette al centro del bersaglio che io sono. Del disco mi impressionano i tratti dei suoni, curati e levigati, tutti – frutto evidente di ricerca e studio e pazienza ed abilità, ma anche di illuminazioni dentro in testa come scoppi improvvisi nel cielo, manco fossero avvenimenti portentosi come aurore boreali alla latitudine sbagliata, magie che lui e i suoi compagni sono riusciti a catturare e a fissare. E dentro ciascuna canzone i testi funzionano, funzionano e come: dietro a ciascuna storia c'è come minimo un amore impossibile o un'utopia, a fare da sfondo una vita intera di letture, pizzichi di sale e di spezie presi a ogni autore, rime enigmatiche annodato alle quali più volte mi sono ritrovato a meditare – confesso che mi sono ritrovato anche a invidiare frasi che avrei voluto inventare io. In questo disco nessuna canzonetta, eppure certe cose ti rimangono attaccate addosso tipo un curioso Petit Prince che prima non avevo mai apprezzato, un Ernesto Che Guevara che guarda giù dal poster appeso sopra al mio letto di sbarbo (ma non è quello della foto di Alberto Korda, direi che questo mi ricorda parecchio un tizio ammazzato duemila anni fa), ed un Giovanni Falcone raccontato così come non me lo aveva mai raccontato nessuno. C'è posto anche per una cover da brivido di “L'albero ed io” – l'originale stava in un disco di Francesco Guccini registrato cinquant'anni fa. Mi era piaciuto come aveva scritto di questo disco En.Ri-ot su UN, ma non immaginavo che qui dentro ci fosse così tanto cielo. Quelli che sono convinti che la stagione migliore della canzone d'autore sia ormai passata, e che oggi non valga più la pena di niente, quest'oggi grazie a Paolo Capodacqua avranno senz'altro modo di ricredersi. Io Paolo per adesso lo ringrazio da qui come posso, e allargo le braccia per cercare di stringere e trattenere accanto questo suo regalo che è così bello riascoltare ancora e ancora.
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Marco Pandin
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