Scuola/
Contro-storia delle politiche pedagogiche
Una
vera e propria contro-storia delle politiche scolastiche italiane
che evidenzia il percorso che ha portato la scuola italiana
al compimento della sua aziendalizzazione. Questo in estrema
sintesi il contenuto del libro di Stefano d'Errico (La scuola
distrutta. Trent'anni di svalutazione sistematica dell'educazione
pubblica e del paese, Mimesis, Sesto San Giovanni –
Mi, 2019, pp. 640, € 30).
Questo minuzioso lavoro di sistemazione e di collegamento tra
provvedimenti legislativi nazionali e internazionali, a sostegno
di questo processo di trasformazione del sistema scolastico,
ci viene illustrato con competenza e precisione lungo le numerose
pagine di questo volume.
Il libro, quasi a rimarcare attraverso un gesto esemplare una
stagione di disobbedienza sempre più liquefatta, inizia
ricordando l'esemplare rifiuto di prestare giuramento allo Stato
compiuto dall'anarchico Sandro Galli nel lontano 1975. La sua
lotta, esemplare per coerenza, segna, agli occhi di d'Errico,
una sorta di spartiacque tra una scuola nella quale insistevano
ancora fermenti di innovazione e sperimentazione didattica,
dove una visione alta della politica accompagnava anche le lotte
e le rivendicazioni sindacali e professionali, e un sistema
aziendale e manageriale che risponde a strategie e obiettivi
propri di un mercato del lavoro globalizzato e precarizzato
all'estremo.
In questa ricostruzione che comincia dalla “Carta dei
servizi” dell'allora ministro-industriale Lombardi (1995),
passa attraverso Berlinguer, Moratti, Gelmini, Renzi, Fedeli
e arriva fino all'epoca pentastellata, si evidenzia la logica
comune, anche se declinata apparentemente in modo un po' diverso,
che accompagna l'intero percorso e trova appaiati da una medesima
strategia politica destra e sinistra, tecnocrati e pseudo-pedagogisti.
Le politiche scolastiche che vengono qui documentate (anche
con una dovizia di particolari veramente grande e forse un po'
eccessiva) ci restituiscono un quadro d'insieme indispensabile
per chiunque voglia capire che cos'è la scuola oggi.
Lo sguardo del sindacalista (d'Errico è il segretario
nazionale dell'Unicobas) emerge spesso lungo il testo, ma non
è corporativo o parzializzante, perché mette insieme
competenze specifiche con incursioni politico-pedagogiche che
offrono una chiave di lettura ben più complessa e articolata.
La critica serrata alle politiche sindacali di Cgil, Cisl e
Uil fanno da sponda agli interventi legislativi della sinistra
parlamentare ufficiale che ha contribuito, secondo l'autore,
a demolire sistematicamente le migliori tradizioni pedagogiche
e didattiche che fino agli anni Settanta hanno caratterizzato
la nostra scuola, anche nel confronto con gli altri paesi europei.
Non sfugge a d'Errico una certa critica ad altre formazioni
sindacali e politiche, minoritarie e alternative, così
come viene denunciata l'inconsistenza e la superficialità
delle politiche pentastellate nei riguardi della scuola. Il
libro si offre anche alla consultazione avendo al suo interno
una copiosa documentazione a suffragio delle tesi contenute.
Ricco di dati e di esempi, si presta bene per essere strumento
di sostegno a riflessioni ampie ma anche a iniziative di lotta.
Lo sguardo e l'osservazione della storia del sistema scolastico
italiano diventa, attraverso l'assunzione del punto di vista
dell'insegnante, una vera e propria contro-storia che mette
in risalto anche la situazione professionale e umana dell'insegnante,
della sua condizione economica e normativa, dei disagi crescenti
ed esponenziali subiti sistematicamente attraverso una struttura
burocratica e manageriale (soprattutto la figura del preside
manager), ormai divenuta triste realtà.
Francesco Codello
Inquieta e ribelle/
Barbara Loden, quella di Wanda
Creatura
docile, ma inquieta, misteriosa. E, dunque, per questo decisamente
attraente. Esattamente come il personaggio alter ego a cui prestò
voce e corpo nel suo unico lungometraggio da regista. Con un
budget ridotto al minimo, cinquant'anni fa Barbara Loden –
seconda moglie del regista Elia Kazan – girò Wanda
in 16 millimetri (poi montato su pellicola). Difficile e problematico,
il film venne presentato in anteprima alla 31° Mostra del
cinema di Venezia aggiudicandosi il premio Pasinetti per la
critica.
Negli Stati Uniti la pellicola non piacque e qualche cinecronista
la bollò come “un'operazione di squallido e limitato
realismo”. Un coro di critiche piovve pure dalle militanti
del movimento delle donne che accusarono l'attrice-regista di
aver portato sullo schermo un personaggio troppo subalterno
e poco identificabile con uno stereotipo di donna battagliera.
Queste le sorti del film all'epoca, col tempo poi Wanda
è divenuto un cult-movie: il giudizio delle movimentiste
è andato rivedendosi e il personaggio di Wanda è
stato eretto a icona di ribellione e autodeterminazione. In
Francia Marguerite Duras ne parlerà con entusiasmo in
una intervista-colloquio rilasciata alla rivista “Cahiers
du cinéma” insieme a Elia Kazan.
Ispirato a un fatto di cronaca, Wanda è il volteggio
di una donna che, finita in galera per una rapina, al processo
(dove si presenta coi bigodini), ringrazierà il giudice
per la pesante pena inflittale. Barbara Loden appare sullo schermo
come un'eroina, “si dimostra quella regista-attrice che
veramente era e che fino a quel momento non aveva potuto dimostrare”,
nonostante avesse precedentemente lavorato sotto la direzione
di Kazan in Splendore nell'erba (1961) e sulla scena
in Dopo la caduta (1964), opera di Arthur Miller che
rivisita il mito della Monroe.
Un talento, insomma, quello della Loden che è rimasto
purtroppo nell'ombra, così come il suo nome è
stato del tutto dimenticato dopo la morte avvenuta per un tumore
a soli 48 anni. Ma una decina di anni fa, in Francia, alla scrittrice
Nathalie Legér fu chiesto dal suo editore di cercare
poche notizie sulla Loden da poterle inserire in un dizionario.
Per lei fu una folgorazione, tant'é che nell'accumulare
sempre più documenti e notizie sulla signora Kazan è
arrivata a scriverci un libro difficile da definire: un romanzo,
una biografia o altro, ma certamente notevole per l'esercizio
di una scrittura serrata e “glamoureux”, per lo
stile stratificato in cui la parabola della Nostra si specchia
nell'inquieta vicenda di Alma Malone (il nome vero di Wanda)
e nella vita stessa della Lèger. Tradotto da Tiziana
Lo Porto, il volume Suite per Barbara Loden è
da poco uscito anche da noi per le edizioni della Nuova Frontiera
(Roma 2020, pp. 125, € 15,00).
Nata nel 1932 in South Carolina, la Loden lascerà a 17
anni la casa dei genitori per trasferirsi a New York dove inizierà
a guadagnarsi da vivere posando per delle case di moda e ballando
nei night. Quando si iscriverà all'Actors Studio la sua
vita prenderà una traiettoria non convenzionale su cui
si plasmerà un'identità di donna libera, ribelle,
creativa e con una testa pensante. Questa crescita di personalità
è il prezzo che pagherà con la solitudine e il
totale oblio abbattutosi su di lei dopo la prematura scomparsa.
Il libro della Léger si propone al lettore come degli
“appunti di regia” e con una specifica missione:
ripristinare la memoria dell'eroina che sposò il regista
di Fronte del porto e Un tram chiamato desiderio.
Mimmo Mastrangelo
Guerra e psiche/
Tornati vivi, ma vinti per sempre
L'avventura
bellica della conquista della Libia (1911-1912), che doveva
consacrare l'Italia come nazione coloniale, capace di perseguire
politiche di potenza e di dominio alla pari delle altre potenze
europee, fu, per tanti soldati italiani che vi parteciparono,
innanzitutto un'esperienza grave e notevole di disagio psichico,
di malessere e alienazione mentale: ne andarono incontro, e
ne furono affetti, ignari e impreparati militari impegnati in
un fronte sconosciuto e inaspettatamente resistente e difficile.
A raccontarlo e a documentarlo, quel poco epico sbarco militare
in Libia dal punto di vista delle turbe psichiche che ne riportarono
centinaia di giovani fanti, bersaglieri, genieri e artiglieri
italiani, è il saggio di Graziano Maimone e Fabio Milazzo
pubblicato da Le Monnier (Firenze 2020, pp. 202, € 14,50),
con l'efficace e accattivante titolo Deserti della mente.
Psichiatria e combattenti nella guerra di Libia 1911-1912.
Esposti a stimoli sensoriali inediti e stranianti, a condizioni
climatiche difficilmente sopportabili, a forme non previste
di esercizio delle armi (assalti prevalentemente notturni dei
combattenti libici) e alle mille insidie di un conflitto pensato
come facile, e propagandato come umanitaria avventura civilizzatrice,
tanti soldati italiani diventano preda di crisi nevrasteniche,
isteriche, depressive. Vengono così ospedalizzati nei
campi medici in Libia o inviati nei reparti psichiatrici degli
ospedali in Italia, in primis in quelli più vicini
alle coste libiche, quello di Catania in particolare.
Qui, la loro storia viene raccolta, catalogata e tradotta in
anamnesi e valutazioni cliniche che attestano quasi sempre la
presenza di patologie psichiatriche. E il libro dei due storici,
Maimone e Milazzo, che contiene numerose cartelle mediche dei
soldati italiani in Libia affetti da disturbi psichici –
offrendo peraltro una documentata ricostruzione storica del
dibattito sull'eziologia e sulle caratteristiche della malattia
mentale tra '800 e '900, dominato fortemente dalle istanze innatiste
e lombrosiane – mostra come, anche in ambito militare,
l'atteggiamento medico è quello di considerare il disturbo
psichiatrico come tara ereditaria, come frutto di un'atavica
degenerazione fisica e morale che una causa contingente –
legata alle difficoltà della guerra – fa emergere,
producendo comportamenti devianti e anomali che rendono invalido
e inoperoso il soldato che ne è affetto.
Ne conclude in gran parte la psichiatria medica del tempo (allo
stato nascente in ambito militare) che non è la guerra
in sé, non è l'insensata violenza omicida, né
l'incomprensibile motivo per cui bisogna uccidere chi ha “la
divisa di un altro colore” che produce la dissociazione
e la fuga nell'irreale dei soldati “mattoidi”, ma
il loro carattere disturbato, la loro inclinazione a delinquere
e a deviare, insomma la loro “naturale” differenza
che va trattata e se possibile eliminata (con purificatrici
politiche eugenetiche).
Bisognerà aspettare la Grande Guerra, affinché
la psichiatria italiana riconosca la “potenza traumatica
dell'evento bellico” e, in questo senso, “la guerra
di Libia fu un laboratorio psicopatologico di preparazione alla
realtà drammatica” del primo conflitto mondiale
e le storie che si evincono dalle numerose schede mediche dei
ricoverati negli ospedali psichiatrici libici e italiani, inedite
e meritoriamente raccolte da Maimone e Milazzo (e sapientemente
contestualizzate in un quadro storico-critico dell'Italia del
primo novecento e dei modelli medico-scientifici del tempo)
– mostrano come “l'impetuosa dimensione della percezione
dei soldati e l'incomunicabilità della guerra sono celati
nelle pieghe di un massacro interiore, nella devastazione di
quei traumi che aleggiano nei deserti della mente di centinaia
di fanti tornati vivi ma vinti per sempre”.
Silvestro Livolsi
Poesia, vita solitaria, vagabondaggio/
L'anarchia orfica di Dino Campana
Su Dino Campana si è scritto tanto, ormai. E per fortuna
sono lontani gli anni in cui era schernito dall'occhio derisorio
della critica che lo voleva matto sì, ma poeta un po'
meno. Ora Campana viene letto, studiato, elogiato, e come tutte
quelle figure a loro modo “maledette”, mitizzato.
Nato a Marradi, in provincia di Firenze, nel 1885 da Giovanni
Campana, maestro elementare, e Francesca Luti, frequentò
il liceo classico nel collegio salesiano di Faenza (dove i professori
“lo dicevano di un ingegno non comune”) e conseguì
la maturità liceale a Torino. Gli anni universitari,
passati tra Bologna e Firenze con andirivieni non troppo felici,
furono fondamentali sia per la sua formazione culturale che
per la tragedia vissuta in seguito, con i continui internamenti
nelle “case di salute” a causa delle sue fughe continue
– dalla Svizzera alla Francia all'Argentina – e
a causa della sua “impulsività brutale” manifestata
soprattutto con i genitori.
Un'attitudine alla vita solitaria e al vagabondaggio nei boschi
– o sulle montagne – come nelle metropoli europee,
o nelle città d'oltreoceano; una figura incollocabile
all'interno delle maglie letterarie del tempo: una poesia e
una prosa che incarnano un'estrema urgenza, una necessità
– primordiale e ultima – di squarciare con forza
i tessuti dell'esistenza per arrivare in fondo all'“anima
vivente delle cose”.
Questa urgenza irrefrenabile di scavo catastrofico si palesa
nelle pagine e nella vicenda stessa dei Canti orfici,
finalmente pubblicato nel 1914 – a sue spese – dalla
tipografia Ravagli di Marradi, ma risultato di un'estenuante
riscrittura “a memoria” del suo manoscritto originario,
dal titolo Il più lungo giorno, che andò
perduto dai tipi di Lacerba (Ardengo Soffici e Giovanni Papini)
prima di essere stampato e ritrovato soltanto dopo la morte
del poeta, quarant'anni dopo. Vicenda che a Campana, già
particolarmente fragile e sensibile, costò non poche
frenesie.
Interessante anche lo spazio che si era guadagnato negli ambienti
letterari: pressocché nullo; anzi era deriso e beffato
da un'intellighenzia borghese che non lo riteneva un poeta e
leggeva nei suoi versi solo il frutto dei deliri di un pazzo.
E di questo tragico destino che gli era toccato, Campana certamente
ne soffriva. Ma non gli era in alcun modo possibile uniformarsi.
Non cercava la bellezza stilistica e non pretendeva di assurgere
all'Olimpo dei bravi poeti: nella sua arte cercava la purezza.
Forse anche la soluzione dei suoi drammi. Nient'altro.
Completamente infatuato di Nietzsche, saliva sulle più
alte montagne in cerca di quelle “solitudini mistiche”
che ritroviamo nel diario dei Canti Orfici, La verna,
per poi discenderne carico di una purezza ritrovata, come un
moderno Zarathustra: “Si levava la fortezza dello spirito,
le enormi rocce gettate in cataste da una legge violenta verso
il cielo, pacificate dalla natura prima che le aveva coperte
di verdi selve, purificate poi da uno spirito d'amore infinito:
la meta che aveva pacificato gli urti dell'ideale che avevano
fatto strazio, a cui erano sacre pure supreme commozioni della
mia vita”.
È per questo motivo che al “panorama scheletrico
del mondo” della città, che apre l'opera, si sostituisce
un montano “paesaggio cristiano” che fa da sfondo
al suo viaggio e “pellegrinaggio”. E qui la montagna
campaniana appare in tutta la sua potenza primordiale, riflettendo
a pieno la sua crisi e inscenando sotto gli occhi del poeta
un amplesso nietzschiano e liberatorio tra dionisiaco e apollineo.
L'influenza del filosofo tedesco in Campana è scevra
da qualsiasi retorica. E la citazione che troviamo sul manoscritto
ritrovato de Il più lungo giorno, “E come
puro spirito varca il ponte”, riassume pienamente la sua
vera e unica aspirazione di una ricerca di un qualcosa che lo
portasse ancor di più fuori dai salotti, dai caffè,
dai manifesti e dall'imbellettata letteratura da cui si sentiva
accerchiato. E anche quel viaggio chiamato amore, un amore sanguigno,
con Sibilla Aleramo andava nella stessa direzione.
Sicuramente soffriva, Campana, ma indossava con piacere una
fumosa anarchia esistenziale, sognante, e gli abiti larghi di
una vita brada da poeta squattrinato senza alcun attaccamento
alla famiglia, senza etichette, né al seguito né
alla guida di un movimento artistico o di una particolare ideologia
(l'ispirazione nietzschiana era per lui più una pulsione
cruda e profonda).
“Colui che fu voce ai disperati sogni umani”, recita
l'epitaffio sulla sua tomba, “l'alchimista supremo che
del dolore ha fatto sangue”, come si autodefinì
in una lettera a Papini, e infine apripista involontario di
soluzioni poetiche all'avanguardia, Dino Campana, a partire
dal 1918, continuò a vivere la sua anarchia orfica nel
pieno delle “suggestioni” elettriche nel manicomio
di Castel Pulci, dove morì nel 1932.
Poesia facile (di Dino Campana)
Pace non cerco, guerra non sopporto
tranquillo e solo vo pel mondo in sogno
pieno di canti soffocati. Agogno
la nebbia ed il silenzio in un gran porto.
In un gran porto pien di vele lievi
pronte a salpar per l'orizzonte azzurro
dolci ondulando, mentre che il sussurro
del vento passa con accordi brevi.
E quegli accordi il vento se li porta
lontani sopra il mare sconosciuto.
Sogno. La vita è triste ed io son solo.
O quando o quando in un mattino ardente
l'anima mia si sveglierà nel sole
nel sole eterno, libera e fremente?
Alessio Del Rossi
Centri sociali e istituzioni/
Riflessioni da Napoli
Chiunque abbia esperienza nell'autogestione di spazi occupati,
conoscerà l'eterno dilemma dei cosiddetti “rapporti”
con le istituzioni. Nella galassia del “centrosocialismo”,
infatti, alcune dinamiche, al netto di qualche inattesa sorpresa,
si ripresentano seguendo un copione visto e rivisto: prima di
tutto le istituzioni riconoscono l'utilità sociale o
culturale del luogo in questione e procedono con l'allaccio
delle utenze; poi chiedono di usare un registratore di cassa,
di far compilare una tessera associativa, o magari di aprire
un ufficio all'interno dello spazio; a quel punto, perché
non accettare un guardiano, visto che potrebbe anche tornare
utile? Infine accade persino che ti aggiudichi un finanziamento,
cospicuo, peraltro, ma scopri che è erogato da una banca
non esattamente in linea con l'etica dello spazio. Dettaglio
trascurabile? Chi stabilisce il confine invalicabile? Quando
e come un patto di non belligeranza si trasforma in ingerenza
nelle delicate dinamiche interne di un collettivo di attivisti?
Non
è facile sondare gli equilibri su cui si fonda la gestione
di questi spazi e non di rado ci si ritrova ad accettare compromessi,
magari per tornaconto, pigrizia o noncuranza. È facile
intuire che, il più delle volte, questi non fanno che
“normalizzare” l'autogestione neutralizzandone il
potenziale controculturale e rivoluzionario.
Di questo e molto altro tratta questo grazioso e agile libello
(Quale Deserto Fegato. Note disordinate sulla (irresistibile?)
ascesa del benecomunismo napoletano e sulla possibilità
di costruire comunità dal basso, di Giuseppe Aiello
e Raffaele Paura, La Fiaccola – Candilita Libri, Ragusa-Napoli
2020, pp. 72) che in copertina ritrae un allucinato Totò
su un murale dei quartieri spagnoli a Napoli. Perché
di Napoli si discute, appunto, in relazione agli spazi occupati,
o liberati, che dir si voglia, che il sindaco De Magistris ha
“ufficializzato” rendendoli “bene comune”:
in particolare dell'Ex-Asilo Filangieri, dalla cui assemblea
Giuseppe Aiello ha scelto di allontanarsi per divergenze “riguardo
le prospettive politiche e quotidiane”, e Santa Fede Liberata,
che invece oggi lo accoglie.
In forma dialogica si sviluppano le interessanti riflessioni
dei due attivisti Aiello e Raffaele Paura, seduti al tavolo
della cucina di Santa Fede Liberata, prendendo spunto da uno
scritto di commiato che l'anno prima Aiello aveva fatto circolare
in merito al suo allontanamento dall'Ex-Asilo Filangieri, e
muovendosi in un intreccio di “archetipiche” dinamiche
assembleari descritte con la tagliente ironia che caratterizza
la sua penna.
L'excursus storico traccia nell'800 le origini della tematica
dei beni comuni e inevitabilmente, da Malatesta passando per
Autonomia Operaia, finisce per dettagliare eventi che hanno
fatto la storia di Napoli (ma non solo: si parla di Macao, Teatro
Valle Occupato, Urupia, Exarchia...) e dei centri sociali, come
Tien'a'ment, Officina 99, 081, Ska (e collettivi come La Ragnatela
e Ya Basta!), fino ai giorni nostri con l'EX-OPG occupato che
tira fuori dal cilindro addirittura un partito: Potere al Popolo.
È facile intuire come in questa variegata galassia ogni
spazio abbia declinato una personale visione politica che può
andare incontro a mutazioni con il trascorrere degli anni. Così
Aiello si ritrova a interrogare i compagni di assemblea dell'Ex-Asilo:
“Perché volete andare in una direzione che faccia
diventare istituzionale quello che avete conquistato senza bisogno
delle istituzioni?”. Forse, suppone più avanti,
perché alcuni hanno “degli interessi personali
non dichiarati.” O magari, come sembra suggerire Paura,
per le pressioni del Comune: “A un certo punto pareva,
e ci sono state tensioni anche qui a Santa Fede, che tutti i
posti si sarebbero piegati a questa cosa dell'ufficio comunale
in modo da regolarizzare acqua e luce e dovevamo anche accettare
il rapporto mensile preventivo sulle attività”.
Quale sia la posizione degli autori emerge chiaramente: “Chiudermi
in un ghetto politico distinto tra istituzionali e anti-istituzionali,
o rivoluzionari più rivoluzionari e meno rivoluzionari,
a me non interessa. [...] Come non ho fatto un collettivo di
comunisti così non farò un collettivo di anarchici
puri”, spiega Raffaele. “Se estendiamo l'idea di
bene comune, di autogestione, a quello che facciamo fuori dalle
quattro mura, questa può essere l'arma per evitare la
normalizzazione. [...] In questo processo può avere un
ruolo importante la costruzione di comunità diffuse sui
territori, capace di rompere il progetto di isolamento sociale
che questa società porta avanti. [...] Questo tipo di
occupazioni, quindi, tendono a ricostruire il tessuto sociale
mantenendo una certa apertura alla cittadinanza”.
Ma niente di tutto questo può essere realizzato, ammonisce
Aiello, senza scelte trasparenti e pratiche quotidiane che non
facciano divergere troppo il percorso politico da quello umano.
“Tu ti trovi con questa cosa?” “Mi trovo d'accordo
fino in fondo – sottolinea Paura – anche in seguito
a una riflessione sui rapporti umani che non funzionavano nella
nostra militanza degli anni '70. Molti erano rapporti di merda,
e il mondo non lo puoi cambiare se sei politicamente forte ma
non c'è comunità umana tra le persone.”
Tobia D'Onofrio
Covid-19/
Un nuovo ritmo del respiro
Intensificazione della sorveglianza biometrica, divieto di
manifestare, moltiplicazione dei confini, presidio poliziesco
delle strade, esercito con qualifica di pubblica sicurezza:
è indubitabile che l'irruzione del Covid-19 sul palcoscenico
del mondo globalizzato, tra la fine del 2019 e l'inizio del
2020, abbia esasperato il volto delle società in cui
viviamo, costringendole a rivelare la loro più intima
natura. L'incedere della pandemia ha minato il dibattito pubblico,
riducendolo alla mera contrapposizione tra i sostenitori di
un approccio draconiano e autoritario, e i fautori di una risposta
neoliberista, tinta di darwinismo sociale. Anche la riflessione,
che spesso si nutre di dissenso, azzardi e provocazioni, ha
dovuto retrocedere d'innanzi a cause di forza maggiore, davanti
a quella necessità che, com'è noto, legem non
habet. Pensatori tra i più originali e radicali si
sono ritrovati, loro malgrado, all'interno dell'angusto recinto
del buon senso comune, nel coro atono di chi, tutto sommato,
finisce per riconoscere l'indispensabilità del potere
di fronte all'incombere della minaccia della morte, ansioso
solo di ritornare il più rapidamente possibile alla normalità.
Non
serve certo scomodare Thomas Hobbes e Baruch Spinoza per ricordarci
come la paura, inesauribile fonte di legittimazione del Dio
mortale, sia incompatibile con la libertà e la ragione
dell'essere umano. L'esercizio della critica si è così
mostrato come una strada sempre più difficile da transitare,
continuamente schiacciata tra l'egemonia degli esperti, mediaticamente
onnipresenti, e il brulicare della paranoia dietrologica attraverso
la rete.
È all'interno di questo contesto che si viene a distinguere
– per coraggio e lucidità – l'ultimo lavoro
di Donatella Di Cesare, pubblicato da Bollati Boringhieri con
il titolo Virus sovrano? L'asfissia capitalistica (Torino
2020, pp. 96, € 5,99). La sua voce si fa largo nello spazio
pubblico, prendendo le distanze tanto dalle tesi spesso contraddittorie
di quelli che Ivan Illich chiamava “esperti di troppo”,
figure schiave di interessi economici o politici che dispensano
certezze tutt'altro che scientifiche e neutrali, quanto dai
complottisti, elargitori di una concezione avvincente e magica
degli avvenimenti, fatta di intrighi e verità nascoste
spesso suffragate da informazioni tronche e conoscenze approssimative,
il cui unico esito è quello di condurre alla svalutazione
di qualsiasi analisi critica della storia.
Sin dalle prime pagine, emerge l'impegno volto a scorgere una
possibilità di riscatto all'interno della violenta crisi
determinata dal virus. Se i punti di riferimento filosofici
sono saldi – Walter Benjamin, Martin Heidegger, Hannah
Arendt e Günther Anders – in questo volume Di Cesare
intesse un dialogo con pensatori quali Giorgio Agamben, Byung-Chul
Han, Roberto Esposito, Donna Haraway ed Emanuele Coccia, nel
tentativo di rispondere alla domanda: quale uso si può
fare di questa emergenza? Non si tratta né di arrendersi
alla situazione vigente, limitandosi a constatarne l'irreversibilità
e abbandonandosi a un senso di impotenza, né di provare
nostalgia per ciò che l'ha preceduta, illudendosi di
poter riavvolgere gli eventi storici.
In questo senso, l'autrice non si sofferma unicamente sulle
misure emergenziali nel tentativo di esibire le crepe di un
presente spartiacque che «segna un prima e un poi»,
ma cerca di scovare il difetto di costruzione che ha determinato
il prodursi di simili incrinature nella nostra società,
raccogliendo le fila dei suoi precedenti lavori e sviluppandole
alla luce di questo evento imprevisto ma non imprevedibile.
La catastrofe politica, economica, psicologica ed esistenziale
che ci ha travolti, generata dalle inadeguatezze e dalle insufficienze
degli Stati-nazione alla prova del Covid-19, era già
embrionalmente preannunciata nella nostra banale e affaccendata
quotidianità; cionondimeno, rivela una radicale possibilità
di trasformazione. L'afflato è figlio della poesia Patmos
di Friedrich Hölderlin: «dove cresce il pericolo
cresce anche ciò che salva».
Il testo si articola in sedici brevi capitoli nei quali l'analisi
della pandemia consente di accedere a una critica tanto dell'asfissia
capitalista quanto della democrazia immunitaria. Se la solidarietà
tra questi due elementi, l'uno economico e l'altro politico,
si era resa evidente già da tempo, Di Cesare ha il merito
di averne messo a nudo il tratto eminentemente comune: la chiusura,
il rifiuto di tutto ciò che balena come “fuori”,
come esterno, che si tratti dell'estraneità di un'altra
forma di vita o di quella del migrante.
Ciò che si deve notare è che la diffusione globale
del virus ha aperto una breccia drammatica in questo mondo chiuso,
exofobo (che teme tutto ciò che è fuori o che
viene da fuori, ndr) e xenofobo, arrestandone i dispositivi,
rallentandone gli ingranaggi, riuscendo là dove da tempo
la politica sembrava non ottenere più risultati. I pieni
poteri, il regime di paura (che l'autrice chiama con la felice
espressione “fobocrazia”), il confinamento massivo,
il disagio psichico che viene, sono il frutto di una precisa
gestione dell'emergenza che, nel tentativo di prevedere e prevenire
le conseguenze del virus, sembra, in realtà, averlo disperatamente
assecondato. Così, nella profusione di decreti-legge
emanati da un Esecutivo ormai completamente medicalizzato, la
«governance politico-amministrativa, che governa
all'insegna dell'eccezione» si è rivelata a sua
volta «governata da quel che si rivela ingovernabile»,
e l'asfissia capitalista si è fatta sindrome respiratoria
acuta grave (SARS).
Uno dei passaggi più stimolanti è senza dubbio
quello dedicato alle insurrezioni che, fino a pochi mesi fa,
incendiavano le piazze del mondo. L'autrice si rifiuta di considerarle
solo «una semplice vampata senza domani», giunta
al suo esaurimento con la crisi odierna e il rafforzamento dell'apparato
di sorveglianza poliziesca; piuttosto presta attenzione all'esplodere
delle nascenti forme di rivolta, all'esercizio di una creatività
del dissenso resa possibile non solo nonostante la pandemia
ma anche grazie alla pandemia.
Se, tuttavia, nelle forme di lotta si consegnano le potenziali
forme di aggregazione e condivisione di una comunità,
ciò significa che contrariamente alle immunopolitiche
identitarie e igienizzanti – il cui potenziale autodistruttivo
è pari, se non maggiore, a quello del Covid-19 –
Di Cesare propone di «proteggersi dalla protezione»,
dalla ipertrofia dei confini, ricorrendo al concetto chiave
di “coabitazione”, già protagonista delle
riflessioni contenute in diverse pagine di Stranieri residenti.
Una filosofia della migrazione (2017), e arricchendolo con
quello di “covulnerabilità”.
Il virus c'è, esiste, occorre prenderne atto, accettarlo,
conviverci, e, in questa coabitazione complessa, fitta di ripiegamenti,
sovrapposizioni ed eterogeneità, riscoprire e ammettere
la nostra vulnerabilità, dunque, la nostra reciproca
solidarietà, il nostro mutuo appoggio, il nostro essere
in comune. Si tratta di lasciarci finalmente contaminare da
una “dose infettante”, destituendo la nostra presunta
integrità, il nostro solipsistico delirio di onnipotenza.
Non in modo da prendere solo una boccata d'aria fresca prima
di reimmergerci e soddisfare affannosamente l'imperativo produttivo
della crescita economica, ma imparando un nuovo ritmo del respiro.
Flavio Luzi
Biografie anarchiche/
Esule, poeta, tipografo, ribelle: Folgorite
“Io sono anarchico perché voglio conservare la
mia individualità” (Folgorite, 1922).
Bisogna partire davvero dalle persone e dalle narrazioni biografiche
sui singoli militanti, da quelle sulle famiglie dei perseguitati
e dalle loro peripezie sullo scenario europeo e transnazionale
del Novecento; tornare a quelle storie di vita fatte di emigrazioni
avventurose, sofferenze indicibili e inquietudini esistenziali,
ma anche di tanto spirito creativo... Ecco si deve partire da
lì per comprendere il senso di un movimento libertario,
ribelle e collettivo di così lunga durata.
Pubblicato in Francia, con una bella copertina, editing accurato
e piacevole, struttura agile e impianto scientifico, un libro
come questo (Pascal Dupuy, Folgorite. Parcours de Sante Ferrini,
anarchiste, typographe et poète (1874-1939), Atelier
de création libertaire, Lyon 2020, préface Isabelle
Felici, pp. 348 + ill., € 18,00), vale più di qualsiasi
compendio consacrato magari alla mera dimensione politica organizzativa
dell'anarchismo. Perché riesce a mettere in gioco, insieme
a vita e opere del protagonista – Sante Ferrini detto
“Folgorite”, sovversivo italiano, poeta, artista
e scrittore prolifico – mille attori e luoghi e contesti,
partendo dall'autore che racconta una storia di famiglia, dalla
prefatrice e persino dall'editore.
Iniziamo da quest'ultimo. Mimmo Pucciarelli, animatore dell'Atelier,
mette in quarta di copertina un suo ricordo. Gli anarchici italiani
negli anni Settanta del secolo scorso spesso, al termine dei
loro consessi e fra un bicchiere di vino rosso e l'altro, usavano
cantare insieme le loro tradizionali canzoni di lotta, amore
e rivoluzioni. Fra queste ce n'era una, bella e suggestiva,
intitolata “Quando l'anarchia verrà...” e
di autore sconosciuto. Ecco, ora lo conosciamo, era Sante Ferrini
“romano de Roma”, tipografo di mestiere molto attivo
nel movimento in Italia, ramingo per l'Europa e quindi stabilitosi
in Francia e vissuto, fra l'altro a Lione e proprio nel medesimo
quartiere dove ora ha sede l'editrice di questo volume.
L'autore, Pascal Dupuy – che professionalmente è
un ingegnere – ha ricostruito, con acribia e meticolosità,
questa incredibile storia di vita, sentendola come sua proprio
perché il protagonista era il nonno della sua compagna
Dominique. Colpisce la gamma vastissima di fonti utilizzate,
private e di archivio, e la connessione continua con la memoria
familiare, insistita e ricca di pathos. Per i figli e per i
nipoti c'è una dedica: “Siete la prova vivente
che l'immigrazione ha prodotto ciò che c'è di
più importante. Siate fieri delle vostre radici e rallegratevi
della loro diversità!”.
Isabelle Felici, nella sua prefazione, riconosce all'autore
il grande merito non soltanto di aver trasformato un semplice
nome su un atto di nascita in un articolato e avvincente racconto
ricomponendo così la storia della propria famiglia, ma
anche di aver aggiunto un importante tassello per la conoscenza
delle vicende complesse dell'anarchismo italiano in esilio.
Il percorso esistenziale e le scelte di Ferrini hanno in effetti
innumerevoli punti in comune con il vissuto di altri connazionali
libertari, sottoposti alla sorveglianza poliziesca, costretti
come lui ad espatriare. Interessante e originale la sequenza
dei luoghi d'Europa attraversati dal protagonista e il racconto
che ci viene proposto da Dupuy, che ci fa così scoprire
la rete amicale e i contatti di quel diffuso universo sovversivo
esteso fra Roma, Marsiglia, Londra, Saint-Étienne, Lione,
Nizza, e in un arco temporale molto esteso che, dal volgere
dell'Ottocento, giunge fino agli anni Trenta del secolo successivo.
C'è poi una febbrile attività giornalistica, svolta
sulla stampa anarchica di lingua italiana prima in patria e
quindi in Francia, con il suo inconfondibile pseudonimo di “Folgorite”.
E sono centinaia gli articoli pubblicati in decine di testate
di movimento (fra cui: “Il Libertario” della Spezia,
“L'Adunata dei refrattari” di New York, “La
Scuola Moderna di Clivio”). Intensa anche l'attività
di scrittore con la collaborazione a prestigiose riviste letterarie.
Esercita il mestiere di operaio tipografo e ha una notevole
vena poetica e umoristica, così come rimane copiosa e
di talento la sua produzione artistica di disegnatore (un esempio
lo vediamo nella stessa copertina del libro).
Memorabile la sua parodia alla nota canzone colonialista italiana
“Tripoli!”, che diventa “suol del dolore”
dove “sanguina il tricolore”... I temi principali
e i filoni d'intervento che si ritrovano nella sua opera riguardano
l'educazione, l'anticlericalismo e l'oppressione sul popolo
da parte dello Stato e del sistema capitalista.
Il volume, arricchito da un buon numero di disegni e fotografie,
si struttura in quattro grandi capitoli. Nel primo si tratta
della sua giovinezza a Roma, di un breve soggiorno in Francia
durato pochi mesi e della genesi del suo nom de plume
Folgorite. Il secondo è dedicato agli anni trascorsi
a Londra, dal 1901 al 1907. Nel terzo si affronta il definitivo
esilio francese: con un iniziale periodo di clandestinità,
l'esperienza di professore alla Scuola per tipografi di Lione
e le difficoltà, le amarezze della parte finale della
sua vita. L'ultimo capitolo è un soggettario ragionato
sull'opera complessiva dell'autore, utilissima a comprenderne
mentalità e orizzonti culturali. Di grande pregio l'appendice
documentaria che contiene utilissimi strumenti di consultazione,
insieme ad alcune sue composizioni poetiche.
“Sono innocente! / Perché son qua in prigion? Che
feci mai? / Non ti bastò l'avermi già esiliato,
/ infame società! Forse rubai? / Forse ho ammazzato?
[...] Sei mesi a pane e acqua! Forse credi / di farmi a te piegar
con la minaccia? / Infame società, prima ch'io cedi /
ti sputo in faccia!” (pp. 252-253, da Ergastolissimo).
Giorgio Sacchetti
Shoah/
Sulle politiche della memoria
“Cosa è andato storto”. Così, con
un titolo senza segni di interpunzione, apre l'introduzione
al volume edito da Bompiani I guardiani della memoria e il
ritorno delle destre xenofobe (Milano 2020, pp. 256, €
13,00) della semiologa Valentina Pisanty. La pubblicazione mette
al centro il rapporto tra società occidentale e Shoah,
analizzando il culto della vittima affermatosi progressivamente
dal secondo dopoguerra ad oggi.
Pisanty sceglie di mettere sotto la lente di ingrandimento quanto
c'è di non efficace nell'approccio che come comunità
abbiamo all'Olocausto e il perché, offrendo una chiave
di interpretazione all'esacerbarsi di un clima socio-politico
razzista, quando non dichiaratamente neofascista.
Sono
diversi i nodi affrontati e sviscerati dalla studiosa.
Prima di tutto l'opera si basa sulla tesi che il fiorire del
negazionismo e di movimenti neonazisti sia direttamente proporzionale
all'aumento di memoria negli ambienti scolastici, istituzionali
e mediatici; vivacità avvertita come stridente, contraddittoria
rispetto al fine immaginato dalle cosiddette “politiche
della memoria”. Per Pisanty i mezzi selezionati al raggiungimento
dello scopo sono la causa di quel qualcosa andato “storto”:
l'istituzionalizzazione della memoria, la retorica ridondante
e totalizzante relativa alla Shoah, assurta a paradigma del
male per antonomasia pur essendo di fatto l'esperienza di una
minoranza.
Con l'elezione del genocidio ebraico a punto di svolta della
Storia avviene un cambiamento di mentalità, di approccio
alla narrazione di eventi: all'esaltazione tipica dei vincitori
si sostiuisce il mito della vittima e solo per riflesso dei
nemici del nazismo. La vittima è ora centrale, protetta
– grazie al ricordo – dalle nuove società.
Su quell'esperienza di orrore si è così costruita
una memoria comune per l'Europa definitasi dopo l'esperienza
della guerra e dei fascismi; un mito fondante e legittimante
la classe politica e il sistema di cui è espressione
e si è andata definendo una liturgia laica sul concetto
di “dovere della memoria”, rinnovato di anno in
anno in commemorazioni basate su formule rituali e dichiarazioni
di principio buone per tutte le stagioni.
Pisanty denuncia quanto ciò abbia causato una semplificazione
delle narrazioni in prima persona e una sacralizzazione del
testimone, accettato a priori, indipendentemente dal racconto
che offre. In tale clima si sarebbe andato costituendo un gruppo
di eredi dei testimoni, difensori e promotori del dovere di
ricordare. Sono i Guardiani del titolo, portatori del diritto
di divulgare la memoria, intenti a rilanciare i principi fondanti
del mondo democratico, a pretenderli nei programmi scolastici
e nei palinsesti televisivi del 27 gennaio per “ri-traumatizzare”
le generazioni nate dopo il 1945, affinché non sia possibile
archiviare o dimenticare.
Ma poiché parallelamente fioriscono, soprattutto sul
web, gruppi che contestano la veridicità e la pregnanza
di una tale memoria, Pisanty evidenzia come si inneschi una
contraddizione nella contraddizione: la scelta di perseguire
legalmente in regime democratico chi nega le camere a gas e
inneggia al fascismo e al nazismo. Nell'Europa basata sui principi
di libertà, uguaglianza e diritti, fioriscono leggi per
condannare reati di opinione, di fatto negando i propri valori
originari.
Conclude poi il volume la teoria che il modello vittimario incentrato
sull'Olocausto – il “sacrificio”, termine
che l'autrice utilizza maggiormente rispetto al più laico
Shoah “catastrofe” – sia ormai vetusto a causa
di una sua riproposizione logora, martellante e infarcita di
luoghi comuni, resa tra l'altro sempre meno maneggevole dall'estensione
dell'Unione Europea a paesi ex comunisti, portatori di altri
traumi, storie e memorie.
Se il volume offre spunti di riflessione di indubbio interesse,
anche necessari per la volontà di scandagliare pregi
e difetti di settori che a diverso titolo si occupato di storia,
non sempre risulta lineare nelle analisi proposte, confondendo
talvolta i soggetti della trattazione e forzando alcune conclusioni.
Pisanty quindi è estremamente efficace nell'individuare
le potenziali falle delle politiche della memoria, ma nell'obiettivo
di fotografare l'esistente rischia di trascurare sfumature e
considerazioni essenziali.
Intitolando le prime pagine “Cosa è andato storto”,
ad esempio, implica un errore nei mezzi non nel fine, oltre
all'idea che sia corretto ideare politiche calate dall'alto
atte a condizionare le menti. Pisanty critica la mentalità
dei cosiddetti Guardiani e il contesto derivante, ma condivide
con quell'ambiente l'idea della necessità di una strategia
culturale che influenzi le coscienze. Se denuncia l'errore di
imporre valori per legge dall'altro sembra condannare la modalità
più che lo scopo, atto a costruire una sorta di pensiero
unico democratico non necessariamente critico.
L'autrice evidenzia la feticizzazione dei testimoni –
una realtà – ma trascura di sottolineare l'esistenza
di un approccio storiografico al racconto diretto che eviterebbe
tale degenerazione. Il testimone è scientificamente una
fonte e come tale necessita di verifica, di incrocio con altri
documenti e, soprattutto, di una contestualizzazione se lo si
invita a intervenire di fronte ad una platea, che sia di studenti
o di adulti. Pisanty spesso confonde l'approccio al documento
orale del mondo mediatico rispetto al mondo delle commemorazioni
e del mondo storiografico – che comprende realtà
non esclusivamente accademiche.
Le trasmissioni televisive come le sceneggiature di film chiedono
al testimone di essere credibile, intenso, esaustivo; gli appuntamenti
pubblici chiedono al testimone di esserci, poichè la
presenza fisica incute rispetto e suggestione; gli storici invece
non chiedono alla fonte orale di ricostruire il quadro d'insieme,
non la ritengono portatrice di verità assoluta ma le
chiedono quel particolare punto di vista che è la sua
esperienza. Se il testimone poi è attendibile, allo storico
non si chiede di accettare acriticamente il racconto e l'interpretazione
fornita dal protagonista stesso, come sembra suggerire l'autrice,
ma solo di assumere quel nuovo tassello di conoscenza.
Confondendo i piani Pisanty non arriva davvero a sciogliere
i nodi problematici individuati e finisce a parlare dei Guardiani
come di un gruppo circoscritto di persone e non come di un concetto,
custodi reali a cui qualcuno – non meglio specificato
– avrebbe dato una delega in bianco per tutelare e “fomentare”
il culto della memoria favorendo leggi per promuovere il ricordo,
per tutelarlo, leggi per stabilire verità storiche.
Da chi sarebbero delegati, scelti e indottrinati non è
meglio specificato, così la critica perde mordente e
odora di complottismo.
Il quadro composto dalla semiologa costituisce un valido punto
di partenza per porsi e porre domande scomode, come comunità
educante e come società, ma sulle analisi e sulle risposte
rimane ancora molto da considerare.
Gemma Bigi
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