società
Il germe della resistenza
di Angelo Mastrandrea
Fatto salvo il rispetto delle prescrizioni sanitarie per evitare il contagio, si sarebbe potuto immaginare, tra chi ha a cuore l'egualitarismo e la giustizia sociale, un moto d'insofferenza contro la gestione politica
del virus. E invece...
In due mesi e oltre di restrizioni
di ogni genere per arginare la pandemia da Covid-19, ci saremmo
aspettati, se non una ribellione contro gli aspetti inutilmente
repressivi del lockdown, quantomeno una riflessione critica
sul gigantesco esperimento sociale al quale il mondo intero,
con gradazioni diverse, è stato assoggettato, e sulle
sue conseguenze nel lungo periodo. Fatto salvo il rispetto delle
prescrizioni sanitarie per evitare il contagio, si sarebbe potuto
immaginare, tra chi ha a cuore l'egualitarismo e la giustizia
sociale, un moto d'insofferenza contro la gestione politica
del virus.
Se è vero, come spiegava Michel Foucault in Sorvegliare
e punire, che le pandemie sono da sempre utilizzate dal
potere per gestire la vita e la morte dei cittadini –
dalla lebbra che creò l'esclusione sociale alla peste
che diede invece lo spunto per i dispositivi di controllo –
dovremmo chiederci dove ci porterà il “modello
Wuhan” adottato per arginare il coronavirus, con il suo
corollario di divieti e prescrizioni sovra-dettagliate, la chiusura
di ogni spazio sociale, la separazione fisica tra le persone
e il loro controllo attraverso la tecnologia, misure già
applicate da tempo, e con successo, dalla Cina convertita al
capitalismo di Stato.
Pseudo-libertarismo egoista e proprietario
Singolarmente, per un paradosso legato a un neoliberismo in
crisi e incapace di garantire il benessere promesso, le proteste
contro il lockdown sono state invece egemonizzate da chi non
avrebbe nulla in contrario ad azzerare le libertà altrui,
a patto che vengano salvaguardate le proprie.
Negli Stati Uniti, esse hanno assunto il volto dei manifestanti
armati di fucili d'assalto in Michigan, dei caroselli di Suv
e pick up con la bandiera americana sfidati a un semaforo da
un infermiere in camice verde, di negazionisti del virus in
Illinois che chiedono la riapertura perché “il
lavoro rende liberi” come ad Auschwitz, delle bandiere
sudiste al vento, di un suprematista bianco ucciso dalla polizia
in circostanze tutte da indagare.
In nome di uno pseudo-libertarismo egoista e proprietario, la
destra americana ha fatto sfoggio del peggiore armamentario
ideologico anti-statalista, proprio nel momento in cui si vede
ben rappresentata e sostenuta da un Presidente come Donald Trump
che ne abbraccia le rivendicazioni. Un tempo la si sarebbe definita
di lotta e di governo, apparentemente contro il potere costituito
ma profondamente legata ad esso. Oggi, potremmo identificarla
con un ossimoro: sovranista e allo stesso tempo anti-nazionalista,
dove il protezionismo dell'“America first” si sposa
con il neoliberismo più insofferente alle regole, figlio
dell'ideologia reaganiana per la quale “lo Stato non è
la soluzione, ma il problema” salvo chiederne la presenza
e l'intervento quando fa comodo.
È un effetto solo apparentemente paradossale della pandemia
che ha fermato il capitalismo. Se, come qualcuno ha affermato,
il Covid-19 è un paradigma di verità, vale a dire
rende più evidenti o accelera processi e tendenze già
in corso, se ne può dedurre che un certo tipo di identitarismo
non fa rima con comunitarismo bensì con egoismo.
In Brasile, il presidente Jair Bolsonaro si è messo alla
testa delle proteste di manifestanti che invocavano un intervento
dei militari per ripristinare l'ordine messo in discussione
dal virus. In questo caso, i paradossi sono almeno due.
Il primo è che chi invoca il colpo di Stato non lo fa
per abbattere il regime preesistente, come accadde nel Cile
di Salvador Allende, ma per rafforzarlo, in una sorta di auto-golpe
finalizzato a cancellare ogni residuo di dialettica democratica
e di conflitto sociale. Il secondo che, in nome della fine dello
stato di emergenza, si arriva a invocare uno stato permanente
d'eccezione. Se è vero che il Covid-19 ha portato alla
luce le strutture nascoste della società, ciò
vuol dire che nelle pieghe dell'America Latina ricca, bianca
e proprietaria, come pure degli apparati dello Stato, non sono
affatto sopite le pulsioni autoritarie e permangono antichi
retaggi colonialisti.
In Germania, dove le manifestazioni sono state più trasversali
e le piazze si sono riempite di contenuti diversi, a urlare
slogan contro la “dittatura sanitaria” erano spesso
gli eredi culturali del più devastante totalitarismo
del Novecento. Un altro paradosso solo apparente, sotto il quale,
dietro la parola d'ordine dell'immunità di gregge tanto
cara al premier inglese Boris Johnson – a sua volta erede
culturale dell'ideologia thatcheriana del “non esiste
la società, ma solo gli individui” – si riesce
a intravvedere un darwinismo sociale che svela un inconfessato
substrato culturale razzista.
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Honolulu, Hawaii, 1 maggio 2020: proteste per riaprire le imprese durante le chiusure per Coronavirus
Credito foto: RDStockPhotos/Depositphotos.com |
Irrazionalità tutta capitalistica
Più in generale, in tutta Europa l'egemonia dell'insofferenza
nei confronti delle restrizioni è stata conquistata dalle
parole più felpate delle associazioni padronali, poco
aduse a blocchi delle merci e restrizioni di movimento ai loro
affari. Sebbene nella sola Lombardia il 60 per cento delle attività
produttive non abbia chiuso neppure per un giorno, i dati dell'Inail
parlino di 40 mila persone che si sono ammalate di Covid-19
sul posto di lavoro e la mappa dell'espansione dei contagi mostri
una singolare sovrapposizione con la cosiddetta “blue
banana” – l'area più industrializzata del
continente, da Manchester alla Pianura Padana – gli industriali
non hanno fatto passare giorno senza chiedere al governo italiano
prebende e riaperture.
In questo modo, altro paradosso che non si rivela tale, l'Italia
è il paese che ha avuto più prescrizioni e divieti
e meno fabbriche chiuse, con l'estremo paradosso di casi come
quello della Whirlpool di Napoli dove, mentre si annunciava
la chiusura definitiva a fine ottobre, gli operai erano costretti
ad andare al lavoro in pieno lockdown. Sono state proibite passeggiate
e corse nei parchi e sanzionati gli spostamenti oltre i duecento
metri da casa, si è disquisito delle passeggiate con
il cane e del grado di parentela negli incontri pur di non fermare
le filiere produttive e le cosiddette catene del valore, con
l'ulteriore paradosso, diventato senso comune, di reprimere
attività innocue e chiudere entrambi gli occhi sui reali
vettori del contagio.
Di conseguenza, è accaduto che mentre a Salerno un giovane
che non si era fermato a un posto di blocco veniva inseguito
dai carabinieri e selvaggiamente picchiato, negli allevamenti
padani si lavorava gomito a gomito per imballare cosce di pollo
senza alcuna sanzione; mentre i droni sorvegliavano le spiagge
per individuare solitari aspiranti bagnanti, non una telecamera
monitorava il rispetto delle distanze nelle catene di montaggio
della logistica o nei call center attivi 24 ore su 24.
Ancora una volta, l'irrazionalità tutta capitalistica
del prima produrre e poi vivere ha prevalso sul rispetto della
salute e delle libertà, che per essere tali devono essere
collettive e non individuali come vorrebbero i dimostranti a
mano armata del Michigan.
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Roma, Italia, 9 maggio 2020: persone con mascherine in Campo dei Fiori, il primo weekend di fase 2 dopo la quarantena |
Per rompere questa gabbia inconscia
Anche in Italia ci troviamo di fronte a un apparente paradosso, quello di un popolo pregiudizialmente ritenuto poco incline alla disciplina, latino dunque individualista, che al contrario non ha disobbedito a nessuna delle regole imposte, anche le più coercitive. I vicoli di Napoli si sono svuotati come neppure ai tempi del colera, e nulla di diverso è avvenuto sui Navigli milanesi o nella romana Campo de' Fiori. A dispetto dell'apparente indisciplina, il virus ha riportato a galla un aspetto profondo e ben mascherato del nostro carattere: l'obbedienza. È quel lato oscuro e complice degli italiani che lo scrittore napoletano Ermanno Rea aveva ben individuato in un libro-sfogo intitolato La fabbrica dell'obbedienza, facendone risalire l'origine all'epoca della Controriforma, quando la Chiesa aveva represso l'idea umanistica del cittadino responsabile riportandolo a una condizione di sudditanza.
Si è così plasmato, secondo questa teoria, un tratto della personalità che riemerge a ogni scoglio della storia e concretizza la possibilità dell'uomo forte, che periodicamente rispunta nella storia d'Italia come una gramigna inestirpabile. Solo la disobbedienza, impersonata dal “no” che Giordano Bruno pronunciò davanti al Tribunale dell'Inquisizione prima di essere messo al rogo, è in grado di rompere questa gabbia inconscia. Secondo questa chiave di lettura, si può intendere la resistenza come un atto collettivo di liberazione dall'obbedienza imposta dal regime e intimamente accettata da una parte della popolazione.
Si può altresì sostenere che il motore più potente dell'adesione incondizionata a tutte le prescrizioni del governo, dalle più ragionevoli a quelle meno accettabili, sia stata la paura. Non quella, comprensibile, di chi si difende individualmente da un pericolo, ma quella collettiva che, scriveva Carlo Levi nell'introduzione al saggio Paura della libertà dopo aver osservato la folla che il primo settembre 1939 saliva sui treni per scappare da Parigi al solo annuncio di una possibile invasione nazista, spalanca la strada alla possibilità del fascismo, che da questa trae la sua forza e legittimazione.
A ben guardare, è lo stesso sentimento che ha spinto migliaia di persone ad affollare la stazione di Milano la notte in cui è stato imposto il lockdown, per prendere l'ultimo treno verso sud. La paura è nemica della libertà, concludeva lo scrittore torinese confinato dal regime e poi esiliato, e in questo senso la resistenza non è altro che la liberazione dal terrore.
Ai tempi del Covid-19, liberarsi dalla paura e dall'obbedienza vuol dire non accettare acriticamente non tanto le comprensibili misure d'emergenza, quelle dettate dal senso civico e dal rispetto degli altri, quanto tutte le altre che configurano una sudditanza che rende possibili pericolosi autoritarismi, come la storia ci ha insegnato.
Il germe della resistenza che è dentro di noi, e non conosce confini, può aiutarci a ristabilire un limite rispetto a ciò che si può accettare. Sarebbe una disobbedienza liberatrice dal mondo che ci aspetta dopo la pandemia. A Milano come in Michigan o a Berlino.
Angelo Mastrandrea
Angelo Mastrandrea ha coordinato l'ebook L'epidemia che ferma
il mondo (Sbilanciamoci).
Scrive per “il manifesto” e “Internazionale”.
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